giovedì 24 ottobre 2019

Dante e il suo Poema di Domenico da Michelino del 1465 nel Duomo di Firenze


Con il titolo Dante e il suo Poema, Dante che mostra la Divina Commedia, La Divina Commedia che illumina Firenze o altri ancora, è indicata l'opera più importante o comunque più nota del pittorore fiorentino Domenico di Francesco (1417-1491), meglio conosciuto con lo pseudonimo "di Michelino" per l'attività giovanile che svolse presso un lavoratore di avorio chimato Michelino di Benedetto. 
L'affresco su tavola fu realizzato nel 1465 su cartone di Alesso Baldovinetti (1425-1499) e collocata nella Cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore.

Il sommo Poeta, avvolto nel suo tipico abito trecentesco di colore rosso tiene aperto nella mano sinistra il suo poema mentre con la destra sembra voler indicare il contenuto della sua opera: la selva oscura raffigurata da sterpaglie e cespugli di colore scuro, subito dietro il poeta, e quindi l'Inferno con la sua grande e possente porta dell'inferno sulla quale è inciso l'incipit del III canto: «Per me si va ne la città dolente, /  per me si va ne l'etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore: / fecemi la divina potestate, / la somma sapienza e 'l primo amore; / dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch' intrate». Oltre la porta si trova una lunga processione di anime dannate e di diavoli dalle orribili fattezze. Le rocce frastagliate indicano che la scena si svolge sotto terra. Seguendo il movimento delle anime dannate, dall'alto verso il basso, l'ultimo demone che troviamo raffigurato potrebbe essere Lucifero, l'angelo caduto dal cielo, non nella sua raffigurazione dantesca, a testa in giù, ma come il diavolo di colore rosso avvolto tra le fiamme, nell'iconografia che assume nel tardo medioevo.
Tra l'Inferno e il Poeta è raffigurato il monte del Purgatorio che si erge al di là di un corso l’acqua leggermente accennato; si tratta del mare dell’emisfero australe attraversato da Dante per mezzo della navicella leggera traghettata dell’angelo nocchiero per arrivare sulla spiaggia dove lo aspetterà il rito di purificazione prima di proseguire la salita. Qui la narrazione figurale si apre con l’imponente porta del purgatorio, molto fedele a quella descritta nel testo dantesco dove tre scalini di tre colori diversi conducono alla soglia: il primo di marmo candido nel quale è possibile specchiarsi, simbolo della consapevolezza delle colpe commesse; il secondo di colore scuro di pietra ruvida, spaccata nella lunghezza e larghezza, simbolo della confessione orale; il terzo di porfido rosso vivo, colore del sangue a simboleggiare la soddisfazione ottenuta con le opere attuate con l'ardore della carità. Sulla soglia di diamante troviamo l’Angelo guardiano in una veste color cenere armato di spada con la quale inciderà sulla fronte del poeta le sette P, dei sette peccati capitali. La porta nel suo colore dorato potrebbe essere ispirata alla Porta del Paradiso del Battistero di Firenze, opera di Lorenzo Ghiberti. Oltre la porta comincia la suddivisione delle cornici dantesche, dal peccato più grave a quello meno grave, seguendo un andamento ascensionale fino al paradiso terrestre raffigurato dalle figure di Adamo ed Eva che mostrano il frutto dell’albero della conoscenza. La prima cornice è quella dei Superbi spinti a terra da un peso sulla schiena, seguiti dagli invidiosi che indossano un cilicio e hanno le palpebre cucite, gli iracondi camminano nel fumo, gli accidiosi corrono gridando esempi di accidia punita, gli avari e prodighi sono distesi a terra e legati, i golosi soffrono la fame e la sete e lussuriosi camminano nel fuoco.
Nella parte superiore della tavola è raffigurato il Paradiso come una serie di sette dei nove cieli, quelli che prendono il nome dai pianeti del sistema solare, ovvero Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e in cui sono messi bene in evidenza gli astri, circondati in una luce dorata ed il Sole è il più luminoso. L’Empireo non è raffigurato.
Sulla destra è messa in mostra in tutta la sua grandiosità la città di Firenze, illuminata da una luce dorata proveniente da sinistra; della città sono riprodotti i più imponenti monumenti all'interno delle  mura della città con in primo piano una grande porta, forse l’odierna Porta di S.Niccolò: il Duomo con la maestosa Cupola del Brunelleschi e l'attiguo Campanile di Giotto. Oltre Santa Maria in Fiore si riconoscono il Palazzo del Bargello affiancata alla guglia del campanile della Badia Fiorentina, la Torre di Arnolfo di Palazzo Vecchio con accanto quello che potrebbe essere il campanile di Santa Croce.

Ai piedi della tavola è l'iscrizione: «Qui Coelum cecinit mediumque, imumque tribunal, / Lustravitque animo cuncta poeta suo, / Doctus adest dantes sua quem florentia saepe / Sensit consuliis, ac pietate patrem. / Nil potuit tanto mors saeva nocere poetae / Quem vivum virtus carmen imago facit» (Quel che l'Inferno, il Purgatorio e il Cielo cantò e discorse con sublime ingegno, il Dotto Alighieri, è qui, da cui Fiorenza ebbe spesso consiglio e amor di padre: morte non nocque a tanto Vate: ei vive in sua virtù, nel canto e in questa immago, traduzione tratta dall'opera di Melchiorre Missirini Delle memorie di Dante Alighieri e del suo mausoleo in S.a Croce stampata a Firenze nel 1832 per i torchi di Leonardo Ciardetti, 1832).

Riferimenti: post di arteincostruzione.blogspot.com; scheda di catalogo.fondazionezeri.unibo.it

lunedì 21 ottobre 2019

Medaglia fusa di scuola fiorentina del XVI secolo dedicata a Dante e al suo Poema



[D] DANTHES FLORENTINVS nel giro; busto laureato del Poeta a sinistra.
[R] A destra il Poeta in posizione eretta mentre regge con la mano sinistra un libro aperto (la Commedia) e la destra alzata indicante a sinistra una montagna sulla cui cima un albero attorcigliato da un serpente e accostato da due figure umane; a metà altezza della montagna una porta; più a sinistra una seconda montagna con cavità entro cui stanno delle figure; in alto serie di linee ad arco.

Medaglia di bronzo fuso (ø variabile dai 50 ai 56 mm ca) di scuola fiorentina del XVI secolo dedicata a Dante Alighieri. L'immagine del rovescio rappresenta i tre segni dell'oltretomba dantesco ed è ispirata al dipinto di Domenico di Michelino nel Duomo di Firenze.

Riferimenti: Dante Alighieri nelle medaglie della collezione Duilio Donati, a cura di Duilio Donati, Ravenna, Longo, 2002, pp. 34-45, n. 1-16 [1-16]

venerdì 18 ottobre 2019

Statua di Dante di Jean-Paul Aubé del 1882 collocata in Square Michel-Faucault di Parigi


A Parigi, in Square Michel-Faucault, uno spazio verde del V arrondissement, sul lato destro dell'ingresso principale al Collège de France su rue des Écoles, è collocata la statua in bronzo di Dante Alighieri realizzata nel 1882 da Jean-Paul Aubé (Longwy, 1837-Capbreton, 1916).
Il luogo non è lontano a rue Dante e da quella rue du Fouarre, il «Vico de li Strami» di Paradiso X, 137 dove si tenevano le lezioni della Sorbona, la cui citazione ha fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente congetturale, che Dante possa essersi recato a Parigi tra il 1309 e il 1310.
La statua rappresenta il momento narrato in Inferno XXIII 77-78 («passeggiando tra le teste, / forte percossi ’l piè nel viso ad una») in cui il Poeta colpisce con il piede la testa di Bocca degli Abati incontrato mentre attraversa l'Antenora, nella seconda zona del nono cerchio dove sono puniti i traditori della patria. 
Alta 2 metri, la statua fu commissionata dal Comune di Parigi nel 1879 e fusa da H. Moltz per il Salon del 1880. I fratelli Thiébaut, Fumière e Gavignot realizzarono delle riduzioni in bronzo di 84, 62 o 45 cm. Il modello in gesso del 1879 (195x60x60 cm) è conservato presso il Petit Palais parigino.




Nell'Hotel de la Paiva, situato sull'Avenue des Champs Elysées della stessa capitale francese, c'è una statua in marmo basata sullo stesso modello. Orna una delle tre nicchie, sulla scala principale accompagnata da quella di Petrarca di Leon Cugnot e dalla Vergine di Ernest Barrias.



Riferimenti: pagina di www.musee-orsay.fr; pagina di www.petitpalais.paris.fr

martedì 15 ottobre 2019

Monumento a Dante di Angelo Biancini del 1968 collocato alla Puerta de Dante del Jardine del Buen Retiro di Madrid


Si tratta di un murale di bronzo realizzato nel 1968 dallo scultore e ceramista romagnolo Angelo Biancini (Castel Bolognese, 1911-Castel Bolognese 1988) per iniziativa di un gruppo di industriali italiani e inizialmente esposta negli Stati Uniti. Giunta in Spagna nell'ottobre dello stesso anno. Nel maggio dell'anno successivo fu istallata all'ingresso del Jardine del Buoen Retiro di Madrid, detto Puerta de Dante, di fronte all'incrocio tra calle Menéndez Pelayo e calle Conde de Cartagena.
Largo circa 5 metri per 2,2 di altezza, il murale è tematicamente diviso in tre parti: al centro la figura intera del sommo Poeta con il caratteristico copricapo; a sinistra i luoghi della sua vita (si riconoscono in alto a sinistra alcuni edifici di Ravenna come le basiliche di San Vitale e di Sant'Apollinare in Classe e il Mausoleo di Teodorico, in basso a sinistra la colonna commemorativa della battaglia di Campaldino combattuta nel 1289, in basso a destra l'arena di Verona e la torre abbaziale di Piazza San Zeno della stessa città scaligera e, sul lato opposto, la facciata della Cattedrale di San Martino di Lucca); a destra alcune scene che rimandano alle tre cantiche della Commedia.

Riferimenti: pagina di es.wikipedia.org; scheda di patrimonioypaisaje.madrid.es

Medaglia di Aurelio Mistruzzi commissionata dal Comitato Cittadino di Ravenna per il VI centenario dalla morte di Dante

 
[D] RAVENNA A DANTE = MCCCXXI - MCMXXI lungo il bordo; al centro busto del Poeta a destra con il caratteristico copricapo e la corona di alloro; alle spalle un ramo di pino con due pigne, probabile riferimento alla storica pineta di Ravenna.
[R] E DVRERÀ QVANTO IL MONDO LONTANA [Inf. II,60) lungo il bordo; al centro figura femminile inginocchiata a destra mentre versa da un'ampolla l'olio nella lampada votiva a simboleggiare il culto eterno delle memorie; a destra ramo di palma; sulla linea dell'esergo a sinistra MISTRVZZI

La medaglia fu realizzata dallo scultore e medaglista Aurelio Mistruzzi (Villaorba, 1880-Roma, 1960) su commissione del Comitato Cittadino di Ravenna per il VI centenario della morte di Dante del 1921 e coniata dalla Regia Zecca di Roma

ø 85 mm, bronzo fuso
ø 70 mm, bronzo
ø 40 mm, argento, bronzo

Riferimenti: Dante Alighieri nelle medaglie della collezione Duilio Donati, a cura di Duilio Donati, Ravenna, Longo, 2002, p. 120, n. 15 [106]; pagina di numismatica-italiana.lamoneta.it

mercoledì 9 ottobre 2019

Medaglia di Guerrino Mattia Monassi per il VII centenario della nascita di Dante


[D] DANTE_1265·1965 nel giro a destra e sinistra entro cerchio perlinato interrotto; al centro busto di 3/4 a sinistra del Poeta col il caratteristico copricapo sormontato da una corona di alloro; nel taglio del busto a destra MONASSI
[R] VII CENTENARIO = DELLA NASCITA in basso; al centro, la Poesia che cavalca "all'amazzone" Pegaso, simbolo dell'ispirazione, reggendo con la sinistra un volume su cui l'iscrizione DIVINA = COM = ME= DIA; sotto la legenda piccola campana

La medaglia fu realizzata dall'incisore e medaglista Guerrini Maria Monassi (Urbignacco di Buja, 1918-Bergamo, 1981) e coniata dalla Zecca di Stato di Roma in occasione del VII centenario della nascita di Dante del 1965. 

Medaglia n. 1 della "Serie Italia" della Collezione Campana per il VII centenario della nascita di Dante.

ø 22 mm, argento
ø 45 mm, oro, argento, bronzo

Riferimenti: Dante Alighieri nelle medaglie della collezione Duilio Donati, a cura di Duilio Donati, Ravenna, Longo, 2002, p. 164, n. 76 [167]; pagina di numismatica-italiana.lamoneta.it

martedì 8 ottobre 2019

Dante in esilio, dipinto di Domenico Peterlin del 1861 ca

Domenico Peterlin, Dante in esilio, 1861 ca
olio su tela, 79x106 cm



Domenico Peterlin (Bagnolo, Vicenza 1882-Vicenza 1897), pittore e patriota, legato artisticamente al Purismo Romano e all’arte tedesca (tardo-romantici, Nazareni, simbolisti), nel 1861 si trasferì da Torino a Firenze in occasione dell'Esposizione Italiana. Lì dipinse le sue versioni del Dante in esilio oggi conservate una nello stesso capoluogo toscano presso la Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti e l'altra al Museo Civico di Vicenza. Il sommo Poeta è raffigurato seduto accanto ad una roccia in un paesaggio marino. Dante è malinconico e pensieroso e tiene un codice in grembo. 

Riferimenti:

lunedì 7 ottobre 2019

«Nel mezzo del cammin di nostra vita... la speranza». Intervento del Cardinale Gualtiero Bassetti a Ravenna in occasione del "Dantis poetae transitus" del 13 settembre 2019


Saluto con piacere, ringraziandolo per l’invito, l’arcivescovo metropolita di Ravenna-Cervia mons. Lorenzo Ghizzoni; saluto con gratitudine padre Ivo Laurentini, direttore del Centro Dantesco dei Frati minori conventuali, con i suoi collaboratori; saluto il sindaco di Ravenna Michele de Pascale, tutte le autorità, e tutti coloro che, in questa città, custodiscono le spoglie e la memoria di Dante Alighieri, il sommo poeta della nostra Italia. La comunità ravennate, ben consapevole del loro valore affettivo, le ha difese nei secoli, dopo la sua morte, avvenuta in questa stessa notte, nel 1321, cui seguirono le esequie nella chiesa oggi di San Francesco. Dante scelse Ravenna e l’ospitalità della sua gente come epilogo del suo ‘esilio terreno’. Possiamo usare questa espressione, «esilio», nel duplice senso, sia politico sia biblico-liturgico.
Saluto tutti gli intervenuti, e in particolare il professor Giuseppe Ledda, studioso specialista di aspetti fondamentali dell’esegesi dantesca. Queste mie riflessioni non hanno pretesa di esegesi o di ermeneutica; sono, prima di tutto, pensieri di un lettore-ammiratore, nato e cresciuto in una terra, la Toscana, nella quale Dante Alighieri fa parte quasi dell’humus: la sua Commedia si recita a memoria, scorre nelle vene, sgorga nel cuore e te la ritrovi sulle labbra quasi come se fosse tua, espressione del tuo preciso pensiero. [Esempio della pastora…] Ogni volta che cito a memoria i suoi versi, mi sembrano stampati in un ricordo che ha radici più profonde dei banchi di scuola e dei libri di testo.
Non volendo addentrarmi in argomentazioni critiche o scientifiche, posso però avanzare e proiettare su uno sfondo teologico una constatazione in apparenza semplice: pur essendosi già detto e scritto tanto, è ancora molto ciò che resta da dire. Soprattutto, è straordinario quanto ancora Dante sappia dire, di nuovo e sorprendente, parlando a questo nostro tempo apparentemente disincantato e smaliziato, nel quale si ha talora la sensazione di poter fare a meno non solo di Dio, ma anche dell’uomo. Dopo sette secoli, dopo profondi e radicali cambiamenti sociali e culturali, la sua parola densa di significati, che non si finisce mai di esplorare, riesce ancora a illuminarci la strada, a renderla non un cammino sterile, privo di senso e di meta, ma un pellegrinaggio, come fu il suo, denso di speranza e di futuro.
Avere, come Dante Alighieri, argomenti inesauribili, che continuano a inserirsi perfettamente nell’attualità personale e sociale, è il segno non solo della grande poesia, ma anche, in senso ampio, della profezia, specialmente in quanto la sua vita e la sua opera sono state illuminate dalla fede, dalla volontà di credere e sperare in Dio, pur nella fragilità della condizione umana.
  
Del resto l’antica celebrazione del Transitus, la rievocazione del passaggio dalla terra al cielo, voluta dai francescani per Dante, lo assimila a san Francesco e ad altri santi, e queste cerimonie in corso non sembrano e non sono una pura commemorazione culturale, ma si avvicinano a quelle di un dies natalis, anche se, per tanti motivi, non c’è una canonizzazione. Sono molti i semi di speranza che ha lasciato, e alcuni non finiscono ancora di affiorare. Nella mia Perugia, per esempio, nel rione di Porta Sole, vi è un angolo discreto, quasi sconosciuto agli stessi perugini, a cui si accede dopo una ripida salita. In questa piazzetta nascosta, da cui si vede però tutto il monte Subasio con Assisi, una lapide riporta i versi del canto XI del Paradiso:

«Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole» … [fin qui la lapide (Par XI, 43-48)]

«…e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto…».

È san Tommaso d’Aquino che, nel Paradiso, parla di san Francesco, mentre Dante, ormai alleggerito di ciò che lo appesantiva, si approssima alla meta. Ma non sarà sufficiente arrivarci: una volta raggiunta, il poeta, a cui è stato concesso questo privilegio, la dovrà condividere con gli altri viventi, narrando al ritorno il suo percorso di speranza consolidata.
Ancora oggi, dopo secoli, le sue scale, le sue salite che ‘sanno di sale’, sono quelle di ognuno di noi. Ho letto con interesse alcuni saggi del professor Ledda, nei quali il viaggio personale di Dante viene confrontato a modelli biblici, attraverso i quali il suo percorso diventa quello di tutti. Il tema dell’esilio, autobiografico e dolorosissimo per lui, diventa il tema del pellegrinaggio, passando dal modello dell’esodo a quello dell’ascesi. Da Adamo al nuovo Adamo, Gesù Cristo, il quale consente a ogni uomo, con la sua incarnazione, di “ritornare” alla patria celeste. La Commedia è come un giubileo all’ennesima potenza, rispetto a quello del 1300 che Dante ebbe ben presente e che influenza tutto il suo poema. Ma anche i suoi riferimenti umani furono molteplici: Dante non solo mise a frutto la propria variegata esperienza, ma seppe attingere a una miriade di testimonianze vissute e raccontate, nonché a modelli letterari e filosofici rielaborati in modo originale.  
«Nel mezzo del cammin di nostra vita»: il primo verso è anche il primo passo. Meditatissimo verso, di uno che sa bene quale effetto produrrà in chi legge, ma, ancora prima, scava in se stesso, nella sostanza dell’umanità. Così la sua esperienza diventa universale, e così prende il volo e acquista un senso: quello della missione, oltre a quello della redenzione. Ma non per questo smette di essere poesia: e proprio questo dà, alla ‘missione’, un carattere laico nel senso migliore, cioè universale, aperto, assimilabile, capace di parlare a tutti al di là delle appartenenze.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita». Versi che metton voglia di fermarsi a meditare ogni passo, come si narra facesse san Francesco, che recitando il Paternoster si soffermava su due sole parole: «Padre», «nostro».
Quasi fosse una preghiera, capace di comunicazione con l’ineffabile, ogni parola di Dante ha un peso, affonda nella nostra densità, nella profondità della nostra stessa vita, e s’incide in neretto nella mente e nella coscienza: «Nel mezzo del cammin di nostra vita…». E qui ci siamo davvero tutti.
Il poema è già tutto lì. Partono già lì i cerchi, i gironi, ma anche le orbite che ricondurranno all’unico vero centro: «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Là dove tutto è cominciato, tutto si conclude, tutto riparte. Questo è un poema scritto da un uomo per centrare il cuore dell’uomo, ricondurlo a se stesso, ai suoi abissi, e poi risollevarlo, verso la purificazione e verso l’incontro con Colui che dà senso a tutti i nostri versi e a tutta la nostra prosa.
Il «mezzo del cammin di nostra vita» viene glossato normalmente, scolasticamente, come riferito alla ‘mezza età’. Quel tempo della nostra vita mortale, per parafrasare l’altro grande poeta Giacomo Leopardi [A Silvia: «Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale…»], in cui si comincia a pensare alla tanta esistenza già accumulata, si fanno i primi bilanci, e non di rado ci si ritrova nella selva oscura della confusione, dell’incertezza riguardo al futuro, del ‘peccato’ – diciamola pure questa parola, non tanto con il significato di singolo gesto o evento, quanto di quel grigiore dell’anima che allontana dallo stato di grazia.
Il guaio del nostro tempo, diceva Giovanni Papini, è che non esiste più il nero né il bianco, ma solo una uniformità di grigio. Il «mezzo del cammino» dantesco, in effetti, può essere anche la mediocrità nel senso peggiore: non l’aurea mediocritas raccomandata dai filosofi, ma l’accomodamento in una selva di autocompiacimento e autogiustificazione, nella quale, smarrite le coordinate di un cammino elevato, ci si accontenta di mezzi valori, mezze verità, mezze bugie, mezzi ragionamenti, per amore di un presunto quieto vivere, per non rischiare di perdere posizioni acquisite, per non dover combattere battaglie sfavorevoli, perché disillusi. In una parola: perché non si crede più nelle beatitudini evangeliche, nello sperare contra spem, attraverso la croce.
È stato notato dagli studiosi che il tema del pellegrinaggio è ovunque nella Commedia, in tutte e tre le cantiche. Ma nell’Inferno prende la forma di atroci illusioni di movimento, che in realtà implicano la stasi o la parodia: la rincorsa degli ignavi dietro un vessillo inconsistente, la marcia dei sodomiti nel sabbione rovente, la paradossale andatura retrograda degli indovini, l’avanzata impossibile degli ipocriti sotto cappe di piombo. Non si va più da nessuna parte. Così la singolare dote di profezia dei dannati è solo apparente: la loro conoscenza si concluderà – verso terribile – quando «del futuro fia chiusa la porta». Canto X dell’Inferno (v. 108): Farinata spiega la particolare conoscenza dei dannati, che prevede l’evento ma svanisce man mano che esso si avvicina, e cesserà del tutto alla fine dei tempi. La perdita di ogni sapienza coincide con la perdita di ogni speranza: la ratifica della tremenda condanna scritta all’ingresso dell’Inferno.
Invece, nel Purgatorio ogni pena è finalizzata ed elevante, una ascesi: ciò che dovrebbe accadere al cristiano nel corso della sua esistenza, se è illuminato dalla luce della fede. Il Paradiso, infine, è la sintesi ineffabile tra la stabilità dell’appagamento e l’eterno dinamismo di comunione e bellezza espresso al massimo grado nella Trinità.
Vorrei riallacciarmi al tema della conoscenza (quella vera e quella presunta) per associare il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse e Diomede, culminante nella celeberrima terzina, che a volte mi ritrovo a declamare:

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza (If XXVI, 118-120).

L’occasione è nota: Ulisse sprona i compagni a fare appello a tutte le loro risorse e alla loro stessa natura umana, che li distingue dagli animali, per slanciarsi oltre le colonne d’Ercole, il limite allora tradizionalmente segnato e invalicabile. Lo sforzo di Ulisse è quello di sfidare questa stessa contraddizione: andare oltre l’umano con le forze umane. Ma lo fa confidando ‘solo’ in esse, ed è questo, e non le colonne d’Ercole, il suo vero limite.
Il resto è noto: con un simile incitamento, i remi diventano «ali» per il «folle volo», e dopo cinque mesi appare in lontananza una montagna misteriosa, altissima. È il Purgatorio. A una breve esultanza segue subito il pianto: da quella terra «un turbo nacque», sballottando l’imbarcazione ormai impotente e ingovernabile, «infin che ’l mar fu sovra noi richiuso», altro verso magistrale e celeberrimo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (If XXVI vv. 130-142)

 È evidente la partecipazione emotiva di Dante, che già nella prima frase del Convivio diceva: «Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Il poeta, sia nella sua personale simpatia, sia nella sua investitura in qualche modo ‘missionaria’ e ‘profetica’, non condanna certo la sete di «virtute e canoscenza», ma non la vuole né la professa a tutti i costi. Anche in questo, Dante anticipa i tempi, i secoli. Oggi, come allora, occorre precisare, proprio facendo appello a tutte le nostre risorse di umanità, la qualità del ‘progresso’ e del ‘progredire’, il vero movimento che ci fa avanzare rispetto a quello che invece ci tradisce, ci blocca, ci fa retrocedere, sia come singoli sia come comunità.
Forse alludeva a tutto questo Primo Levi nel romanzo Se questo è un uomo, dedicando un intero capitolo proprio al canto di Ulisse. In un campo di prigionia, un internato cerca di spiegare tali versi a un altro, anche se li ricorda male e a spezzoni; l’altro però capisce molto bene: c’è quasi una urgenza di capire, di afferrare i contenuti autentici del canto dantesco, prima che sia troppo tardi per tutti.
[L’autentico progresso non è nella Torre di Babele: ciò che rende l’uomo impotente non è la volontà di superare i propri limiti, ma la presunzione di farlo solo ‘grazie’ a se stesso e alle proprie forze. La speranza umana si contrappone in tal modo alla speranza data dalla fiducia in Dio]
Qualche mese fa abbiamo festeggiato il 50° anniversario dell’arrivo dell’uomo sulla Luna (20 luglio 1969). Abbiamo rivisto, insieme alle immagini di Neil [Niil] Armstrong che appoggia il primo piede esitante sul suolo lunare, il Santo Padre Paolo VI mentre seguiva l’evento in diretta alla TV, come la maggior parte delle persone del mondo. Era un’altra delle ‘colonne d’Ercole’ che veniva abbattuta. Ma su questo sforzo umano – culturale e scientifico – si stendeva la benedizione del Signore. Mi ha molto colpito, nelle rievocazioni che sono state fatte il 20 luglio 2019, il commento di alcuni sulle missioni attuali nello spazio, che vengono ormai fatte, prevalentemente, non più con spirito di pura competizione ma di collaborazione tra le nazioni del mondo. Il bene è bene quando è per tutti. Ed è questo il vero, autentico progresso.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita» sta tutto questo. C’è continuamente il bivio che ci pone di fronte alle nostre stesse colonne d’Ercole, sia come comunità sia come individui: i limiti che vanno affrontati e superati, non solo facendo appello alle nostre forze umane o individuali, né dibattendosi dietro vani ideali in una illusione di progresso egoistico. In tutti i suoi passi, iniziando dal primo, la Commedia di Dante è un viaggio straordinario al centro dell’uomo, nel cuore di Dio. Un viaggio di grande speranza, l’unico possibile. Perciò oggi resta più che mai Divina, e più che mai attuale: proprio perché continua ad additare il cammino della trascendenza e del sommo Bene «nel mezzo del cammin di nostra vita», di questa «nostra» stessa umanità.