domenica 11 ottobre 2020

«Abbracciare Dante .Annotazioni in margine al Canto II del 'Purgatorio'». Intervento del Cardinale José Cardinale Tolentino de Mendonça a Ravenna in occasione del "Dantis poetae transitus" del 13 settembre 2020


È con grata emozione, e al tempo stesso, ve lo confesso, con un sottile sentimento d’inadeguatezza, che ho accettato l’invito a venire qui a Ravenna, a commemorare con voi la ricorrenza del settimo centenario della morte di Dante Alighieri, il «signore dell’altissimo canto», come lo chiamò, con formula di indimenticabile eleganza, il Santo Papa Paolo VI, nella Lettera Apostolica scritta in occasione del settimo centenario della nascita del poeta, nel 1965, e pubblicata il giorno prima della chiusura del Concilio Vaticano II.(1)

Come ogni non italiano, mi soffermo sempre di nuovo con ammirata meraviglia davanti a questo monumento della cultura italiana e, come ogni lettore, mi ritrovo piccolo e fragile davanti a tanta altezza, ma mai estraneo e indifferente, perché il miracolo della poesia dantesca è precisamente quello di far sentire a casa chiunque le vada incontro con animo aperto e recettivo, di portare ognuno di noi a riconoscersi nella umanità ferita e redenta che essa raffigura, con una verità e una profondità che ha pochi raffronti nella letteratura mondiale.

Per questo, malgrado l’esitazione iniziale, ho accettato con entusiasmo di venire a celebrare Dante insieme a voi, per testimoniare che anch’io, pur provenendo da una lingua e da una tradizione letteraria non italiane, non posso fare a meno di dire, come un numero sterminato di lettori che mi hanno preceduto, come il Santo Papa Paolo VI, che sì, «Dante è nostro», sì, Dante è anche mio. «Massimo poeta del popolo italiano» e massimo poeta cattolico, Dante ottiene il raro trionfo di essere massimo poeta dell’umanità tutta, poeta di cui tutti possono dire «nostro», perché dà voce con pari forza e autenticità al più fragile, al più concreto e al più sublime di questa interminabile domanda che l’essere umano è.(2)


Il poeta reinventa lo sguardo

Chi vi parla, è un sacerdote innamorato di Dio e dell’arte, che sin dall’infanzia si è alimentato umilmente e discretamente di fede e poesia, trovando in esse una ragione profonda di vita. Per questo so che, ravvisando nel mistero del mondo e dell’uomo il mistero di Dio, l’esperienza poetica non ha propriamente la pretesa di decifrarlo ma semplicemente di goderlo e comunicarlo, in un’esperienza di gioia e sofferenza, di appagamento e di sete, inestricabilmente connessi, che sin da ora, sin da qui, sono la testimonianza di una sete e di una gioia più grandi. Infatti, nella poesia non si devono cercare risposte, ma semplicemente una forma di contemplazione del mondo alla luce dello sguardo di Dio, che si dischiude nel nostro se solo abbiamo la pazienza e l’umiltà di attenderne la rivelazione, sorgiva e rigenerante, aperta dall’auto spoliazione da luoghi comuni, precomprensioni usurate, solipsismi narcisistici e strumentali. Il poeta reinventa la lingua perché reinventa lo sguardo, dandogli la profondità insondabile del senso, che è dono di Dio all’uomo, evento di bellezza, giustizia e verità.

Questa passione poetica della parola come specchio profetico del mistero dell’uomo e della storia contemplati nella luce dell’eternità, io la trovo in Dante mirabilmente, inestinguibilmente accesa e voglio condividerne insieme a voi un attimo di questo fulgore essenziale, che, mi sembra, evoca e rende discernibile in modo singolarmente pertinente sia la congiuntura storica che stiamo attraversando che un aspetto specifico di questo nostro incontro.


Come viaggiatori privi di mappa

Le pagine che intendo leggere con voi, che troviamo nel secondo canto della seconda cantica, ci collocano in una fase di transizione, nel passaggio perplesso e guardingo tra un ciclo appena concluso (la traversata infernale del male privo di redenzione) e l’inizio di uno nuovo (la purgatoriale ricostruzione del bene attraverso l’espiazione purificatrice). Dante e Virgilio, appena risaliti dalla voragine infernale, si aggirano nella riva dell’isola del Purgatorio per trovare l’ingresso della montagna penitenziale. La novità della situazione, la mancanza di direzioni tracciate, li sconcerta, li ritarda, li confonde. L’Antipurgatorio, spazio di somma indefinizione e spaesamento, cattura chi lo attraversa in uno stato di inerzia, di impasse:

“Noi eravam lunghesso mare ancora, 
come gente che pensa a suo cammino, 
che va col cuore e col corpo dimora.” (10-12) (3)

Come accade a tutti coloro che non sanno che strada prendere, il cuore dice ai due viandanti che devono avanzare, ma l’incertezza sul da farsi li frena: restano bloccati. Ben presto, scoprono di non essere soli in questo stato di indecisione. Traghettato da un angelo enigmatico e silenzioso, sbarca infatti sulla riva un gruppo di anime né beate né penitenti, anch’esse in cerca dell’accesso al percorso di purificazione e non meno disorientate dei due poeti:

[L]a turba che rimase lì, selvaggia 
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.” (Purg., II, 52-54)

Questa turba, agitata dalla novità di quello che sta sperimentando (è selvaggia del loco, assaggia cose nuove), si comporta come ogni viaggiatore privo di mappa, che chiede informazioni al primo sconosciuto in cui si imbatte, per ricevere la risposta così paradossalmente ricorrente quando si cercano indicazioni stradali: “non sono del posto, sono di passaggio anch’io”. Quando ci sentiamo persi, è difficile trovare chi ci possa guidare: 

[Q]uando la nova gente alzò la fronte 
ver’ noi, dicendo a noi: «Se voi sapete, 
mostratene la via di gire al monte».

E Virgilio rispuose: «Voi credete 
forse che siamo esperti d’esto loco; 
ma noi siam peregrin come voi siete.” (58-63)

Come tutta la geografia della Commedia, l’Antipurgatorio non raffigura un luogo ma uno stato, nello specifico la condizione di essere nuovi venuti, di trovarci in una situazione che ci coglie completamente impreparati, in cui le nostre coordinate usuali risultano insufficienti e fallibili, spazzate via da una crisi acuta, che abbiamo appena superato, ma incombe ancora su di noi (tutte le anime dell’Antipurgatorio sono marcate pesantemente, a vario titolo, dalle circostanze della propria morte):

Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, 
per altra via, che fu sì aspra e forte, 
che lo salire omai ne parrà gioco».” (64-66)


Il coraggio d’affrontare il purgatorio che ci mette in questione

Nel leggere questi versi, potente e irresistibile prende corpo, agli occhi di noi lettori, il parallelo tra la scena descritta da Dante e il momento storico che stiamo vivendo. Anche noi, in questo singolare settembre 2020, ormai oltre il giro di boa di un anno eccezionalmente doloroso e denso di domande ancora senza risposta (appena usciti da una via aspra e forte che ci ha profondamente provati come individui e come comunità), ci troviamo in una sorta di Antipurgatorio; anche noi assaggiamo cose nuove, come la turba selvaggia di anime incrociatasi con Dante e Virgilio, e nessuno se la sente di dirsi “esperto del loco” in cui la pandemia ci ha scaraventato in un batter d’ali (sì ratto, / che ‘l muover suo nessun volar pareggia, 17-18), cogliendoci del tutto alla sprovvista, aprendo scenari inediti, squassando certezze, consuetudini che sembravano incrollabili per quanto erano ovvie, la pigra routine della normalità. Ci guardiamo intorno, spaesati e perplessi, e non riconosciamo l’estate in questa stagione strana che sta per finire, segnata dal distanziamento sociale sulle spiagge, mascherine, e città d’arte deserte. Non sappiamo che autunno ci aspetta, se di isolamento o di presenza ritrovata, se torneremo a lavorare in mezzo agli altri o dovremo di nuovo restare confinati in casa, affacciati sul mondo dagli innumerevoli schermi (di computer, tablet, televisione, telefono) che oggi virtualizzano l’interazione con l’esterno in un rapporto audiovisivo senza contatto, senza possibilità dell’abbraccio, spoglio di tocco, sapore e profumo. Ci sentiamo bloccati, in questa terra incognita che pure vogliamo attraversare il più rapidamente possibile, guardandoci attorno senza sapere esattamente che strada prendere per uscirne. Nessuna persona sensata si azzarda ancora a disegnare mappe e battezzare percorsi, nessuno si azzarda a fare anticipazioni su quello che ci riservano i mesi a venire. Gli esperti si scoprono inesperti in questa fase forzosamente transitoria (perlomeno così si spera), in cui siamo tutti peregrini, appena arrivati e desiderosi di venir via quanto prima, se solo si sapesse come…

Una cosa sola, però, è certa nell’incertezza totale del momento: la crisi del coronavirus, che fu sì aspra e forte, ci ha trasportato in un mondo sconosciuto, niente sarà più come prima, e la novità è tanto grande che esitiamo, preoccupati per quello che ci aspetta, sapendo che sarà comunque una strada di faticosa reinvenzione, di ridefinizione purificatrice. Se vogliamo un futuro per la nostra società, dobbiamo affrontare il purgatorio della messa in questione di errori, eccessi ed omissioni. In quel momento straordinario di preghiera che Papa Francesco ha celebrato da solo sul Sagrato della Basilica di San Pietro, in marzo scorso, ci ha ricordato: «è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine… Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai Tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».(4) Dobbiamo ora accettare il doloroso esercizio delle «correzioni», come ha coraggiosamente proposto, recentemente, un autore americano.(5)

Ovviamente, resistiamo. Ci attardiamo, rinviando, più o meno coscientemente, il momento di prendere congedo dal mondo che ci lasciamo alle spalle per addentrarci in quello che segue. Come gente che pensa a suo cammino, / che va col cuore e col corpo dimora, ragioniamo all’infinito sul da farsi, ma tergiversiamo, aggrappandoci al dejà vu. Il pensiero della purificazione purgatoriale è intimidatorio, ed è stato estirpato dalla nostra autocoscienza di moderni, illusoriamente sostituito per forme secolarizzate di auto perfezionamento, che finiscono per rinforzare il narcisismo e la solitudine. Il Purgatorio, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, ci ricorda che siamo «imperfettamente purificati» e che dobbiamo sottoporci «ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo».(6) Anche nel piano storico dobbiamo intraprendere il difficile cammino purgatoriale della correzione del nostro modo di vivere, delle nostre abitudini, dell’inerzia in cui ci siamo adagiati troppo a lungo, lasciando che la terra corresse incontro al collasso ecologico, le differenze economiche si approfondissero in modo iniquo, il tessuto comunitario si degradasse nella sterile cecità dell’individualismo.


Un impegno comune, una sintonia corale

Ne saremo capaci? Questa domanda pesa su di noi come una grande sfida, segnata dalla consapevolezza che quello che abbiamo davanti è un cammino che non si percorre da soli. Richiede un impegno comune, una sintonia corale:

                    “‘Isräel de Aegypto’
cantavan tutti insieme ad una voce” (46-48)

Solo cantando ad una sola voce si esce dall’Egitto del male per ritrovare la libertà di una convivenza di giustizia e di pace, per raggiungere la terra promessa di una società in cui la dignità di ognuno fiorisce nella messa in comune di risorse e opportunità, in cui la solidarietà ha la meglio sulla competizione, l’attenzione reciproca sull’indifferenza, il rispetto e la fiducia sulla violenza e la diffidenza. Sono cose semplici, che appartengono intrinsecamente alla nostra umanità, ma le dobbiamo costantemente reimparare, disintossicandoci dalla piaga del consumismo selvaggio, dalla burocratizzazione e commercializzazione crescenti dei rapporti sociali e personali, dalla solitudine e l’estraneazione in cui ci fa precipitare una società desertificata dal punto di vista comunitario.

Molteplici sono i luoghi in cui andare a scuola di umanità, i contesti di questo riapprendimento purgatoriale, correzionale, di quello che siamo più autenticamente, ma nel quadro specifico di questo canto dantesco siamo invitati a soffermarci in uno in particolare, che coincide precisamente con l’intento profondo del nostro ritrovarci qui, intorno a un autore antico, morto da settecento anni, ma che noi non possiamo fare a meno di considerare interlocutore potente e autorevole, voce interamente viva e attuale al di là della distanza storica che ci separa. I classici sono coloro che non riusciamo a considerare morti, con cui cerchiamo incessantemente il dialogo, interrogandoli prima che su di loro su noi stessi e sul nostro cammino, e soprattutto lasciandoci interrogare da loro, in una conversazione in cui la differenza tra morte e vita non viene relativizzata, ma al contrario esposta nella profondità tragica e misteriosa che ce la rende tanto urgente quanto inaccettabile. Il dialogo ermeneutico con i testi, con la poesia, con le testimonianze di umanità lasciateci da chi ci ha preceduto sono un luogo fondamentale di riapprendimento correzionale di noi stessi, “viaggio” imprescindibile verso la chiarezza ritrovata della verità.


La lettura come luogo purgatoriale di riapprendimento di noi stessi

Il meraviglioso incontro tra i due poeti e la turba selvaggia, ancora inesperta di aldilà, dei morti prepurgatoriali, alle falde del monte della purificazione, ci colloca infatti nel cuore dell’esperienza della lettura come forma privilegiata di rapporto con il passato. Anche noi siamo ‘nuovi venuti’ quando ci sediamo di fronte a un testo che ci raggiunge da lontano, quando lo apriamo per conversare con lui, lo ‘ascoltiamo’ e ci facciamo ascoltare, sollecitando la sua reazione alla nostra presenza. Il testo non è inerte, indifferente alla nostra interlocuzione: la sua voce cambia al cambiare del lettore, come ha insegnato Gadamer una volta per tutte. Il testo si ‘accorge’ di chi lo legge, entrando in rapporto di attenzione e reazione con lui:

L’anime, che si fuor di me accorte, 
per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo, 
maravigliando diventaro smorte."

Il vero lettore conosce bene quest’esperienza, in cui si trova a dover rendere conto al testo, in cui si sente interrogato, scoprendo che anche i morti possono chiedere informazioni ai vivi, che il passato non è una condizione di definitività e compimento, ma una condizione di non soluzione, incompletezza e ignoranza, sempre di nuovo condivisa e incessantemente riaperta. I morti aspettano da noi la giustizia della verità, questo lungo percorso in cui tutta l’umanità si trova a camminare ‘contemporaneamente’, perché ognuno di noi vi è coinvolto per intero, nessuno di noi ne dispone esclusivamente, esaustivamente:

E come a messagger che porta ulivo 
tragge la gente per udir novelle, 
e di calcar nessun si mostra schivo,

così al viso mio s’affisar quelle 
anime fortunate tutte quante, 
quasi oblïando d’ire a farsi belle.”

Il testo si dirige al lettore che l’ha raggiunto, aspettando che il suo senso si compia e si rinnovi alla luce della novità (le novelle) che egli porta dal proprio tempo, messaggero ermeneutico che dischiude un nuovo processo di comprensione e di illuminazione della verità. Ogni lettore, ogni generazione, incontra così una nuova Divina Commedia, testo che si trasforma nel contemplare chi lo legge, traducendosi in visione del volto, dell’anima che si china su di lui.

Nel leggere la Divina Commedia, ne siamo e ce ne sentiamo contemplati (al viso mio s’affisar quelle), interpellati (la nova gente alzò la fronte ver’ noi, dicendo a noi), interrogati («Se voi sapete, mostratene la via di gire al monte»), riconosciuti, perché il classico ci conosce meglio di quanto noi conosciamo lui e ci anticipa nell’identificazione del punto di contatto in cui si consuma la condivisione della nostra umanità, in cui l’incontro si scioglie in abbraccio:

Io vidi una di lor trarresi avante 
per abbracciarmi con sì grande affetto, 
che mosse me a far lo somigliante.(76-78)


Abbracciare Dante

L’autore ama il lettore, della cui umanità è andato alla scoperta, e il lettore, a sua volta, nel sentirsi così amato in quanto essere umano, in quanto destinatario della proposta di senso formulata dal testo, che si offre gratuitamente alla comprensione, all’unico costo dell’impegno d’ascolto e attenzione, non può che corrispondere a questo gesto di carità ermeneutica, ricambiando l’abbraccio, accogliendo il patto di mutuo riconoscimento e solidarietà intrinseco alla condivisione del senso, come spazio di apprendimento di umanità e verità, celebrando la promessa d’immortalità custodita in questo affetto. Quella che è in gioco, in questo mutuo abbraccio, non è infatti l’immortalità della fama, della memoria postuma, di cui i morti non si fanno un bel nulla, ma la promessa d’immortalità personale affidata alla radicale incompatibilità con la morte testimoniata dall’amore:

Rispuosemi: «Così com’ io t’amai 
nel mortal corpo, così t’amo sciolta” (88-89)

Uno sconosciuto, uscito dalla turba delle anime per abbracciare Dante e rivelarsi come l’amico Casella, il musicista, dirige al poeta una dichiarazione d’affetto tanto semplice quanto straordinaria nel suo rovesciamento della condizione abituale del lutto, in cui è il vivo che dichiara al morto d’amarlo, promettendogli memoria imperitura: qui il morto accoglie il vivo nella raggiunta eternità (sciolto dal corpo mortal), cancellando la distanza intrinseca al ricordo (che postula una differenza insormontabile) nel presente immutabile del vero amore. Il così comparativo ripetuto due volte declina l’iterazione del passato (t’amai) in un presente (t’amo) che circoscrive con limpida precisione il nucleo dell’eternità personale nella capacità d’amore da parte del soggetto e apre una finestra di luce vertiginosa nel muro oscuro del ‘dopo’. Chi di noi non ha messo virtualmente sulla bocca dei propri cari defunti questa dichiarazione di Casella, non accontentandosi di continuare ad amarli, ma desiderando intensamente di continuare ad esserne amati, avendone disperatamente bisogno? È doloroso continuare ad amare chi è morto. È entusiasmante e consolante pensare che egli continua ad amarci e che un giorno potremo sentircelo dire direttamente da lui, e questa consolazione è argomento potente per non pensare al ‘dopo’ come una legge d’abisso (Purg. I, 46), l’inferno di una fine inesorabile e totale, ma come un ritrovarsi di inestinguibile affetto, di rinnovata familiarità.

Certo, è inevitabile paventare, ansiosamente, che questo pensiero sia mera illusione:

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto! 
tre volte dietro a lei le mani avvinsi, 
e tante mi tornai con esse al petto.” (79-81)

Qual è la frontiera tra l’autoinganno emotivo e l’intuizione spirituale che sgorga dall’amore come verità potente che spezza le ombre vane dell’apparenza? Che credito dare all’abbraccio con cui ci sentiamo accolti dall’antico autore, che ci viene incontro per aiutarci a ritrovare noi stessi (a tornare dove siamo) nella condivisione della verità e della bellezza che l’hanno illuminato poeticamente e che ci dichiara che questo momento di condivisione è per sempre, che è genuina intimazione di immortalità,(7) che riunisce vivi e morti in un’unica assorta attenzione? L’evidenza di verità del proprio senso che il testo assicura è unicamente l’autenticità dell’esperienza associata alla sua fruizione, un’evidenza tutta interna al processo ermeneutico dell’incontro tra opera e lettore, ma capace di fecondare l’esistenza di chi ne è stato partecipe, irrigandola di una visione e di una pace che consolano, rafforzano, rinnovano, aiutando a ripartire:

E io: «Se nuova legge non ti toglie 
memoria o uso a l’amoroso canto 
che mi solea quetar tutte mie doglie,

di ciò ti piaccia consolare alquanto 
l’anima mia, che, con la sua persona 
venendo qui, è affannata tanto!».

`Amor che ne la mente mi ragiona’ 
cominciò elli allor sì dolcemente, 
che la dolcezza ancor dentro mi suona.

Lo mio maestro e io e quella gente 
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.” (112-117)


Non perdere la speranza dell’altezza

Casella intona il suo canto e si consuma l’incantesimo sempre nuovo dell’arte: i viaggiatori disorientati e in affanno dell’Antipurgatorio si fermano, dimentichi della destinazione da trovare, dimentichi del viaggio penitenziale che li attende, del prima e del poi, assorbiti in un istante di perfetta concentrazione.(8) È l’esperienza di presente assoluto donata dall’arte, donata dal senso, in cui vivi e morti, maestri e discepoli, autori e lettori, creatori e fruitori (Lo mio maestro e io e quella gente / ch’eran con lui) si trovano uniti in una esperienza di gioia e verità talmente piena che sembra non poter contenere nient’altro (parevan sì contenti, / come a nessun toccasse altro la mente).

Tutti si fermano al canto di Casella, e anche noi ci fermiamo, turba selvaggia e sperduta che assaggia cose nuove e non sa che cammino seguire nella condizione di incertezza e spaesamento storico in cui la crisi del Coronavirus ci ha precipitato, in questa terra incognita antipurgatoriale, fase preliminare al cammino correzionale necessario alla ricostruzione della nostra convivenza civile e della nostra esistenza personale, alla guarigione dalle ferite economiche, sociali e individuali arrecate dalla pandemia. Anche noi ci fermiamo ad ascoltare la dolcezza dell’antica canzone che risuona attraverso i secoli con immutata bellezza e appassionata umanità, bisognosi di consolare l’anima tanto affannata dal duro viaggio che ci ha portato sin qui. Non mancherà chi considererà questo indugiare un lusso frivolo, una negligenza, un censurabile sottrarsi all’urgenza tragica delle responsabilità storiche immediate. Non mancherà un veglio onesto ed accigliato che verrà a rimproverarci di essere spiriti lenti, che perdono tempo con le cose del passato, con l’oblio indotto dalla contemplazione della bellezza, invece di correre speditamente al monte del fare.(9) Ma io sono convinto che solo chi è capace di fermarsi ad ascoltare la voce che aduna i vivi e morti nell’unisono spirituale della pura contemplazione della propria umanità troverà la via del monte, la strada della correzione e della purificazione che ci restituisce alla verità di quello che siamo, alla pace e alla giustizia sociali che scaturiscono dal mutuo riconoscimento della nostra comune dignità.

Certamente non è a Dante che dobbiamo chiedere istruzioni sul cammino da prendere in questo doloroso, ancora irrisolto e insidioso, arduamente penitenziale 2020, ma raccoglierci intorno a lui, per ascoltare il suo «poema di perdono e di salvezza»(10), ci aiuta a riconoscere il senso del viaggio e a non perdere la speranza dell’altezza (Inf. I,54), verso la promessa del bene, della verità e della bellezza.

Note

(1) Paolo VI, Litterae Apostolicae Motu proprio datae "Altissimi cantus" septimo exeunte saeculo a Dantis Aligherii ortu , in Acta Apostolicae Sedis. Commentarium officiale, anno e vol. LVIII, 1966, Città del Vaticano, 22-37.
(2) Nelle “sue misure più profonde di degradazione” e nei “massimi culmini della sublimazione”, come osservato da uno dei suoi più grandi commentatori, il poeta americano Thomas S.Eliot (Thomas. S.Eliot, Dante. A cura di L. Berti. Guanda, Modena, 1942, 67).
(3) Le citazioni dalla Divina Commedia sono tratte da La Commedia secondo l’antica vulgata di Dante Alighieri, a cura di Giorgio Petrocchi, A. Mondadori Editore, Milano, 1966-67.
(5) Jonathan Franzen, The Corrections (2001).
(6) Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2018, n.1030.
(7) William Wordsworth, “Ode: Intimations of Immortality” (1804).
(8) Michael Fried, Absorption and Theatricality: Painting and Beholder in the Age of Diderot, The University of Chicago Press, Chicago and London, 1980.
(9) “[Ed ] ecco il veglio onesto / gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? / qual negligenza, quale stare è questo? / Correte al monte a spogliarvi lo scoglio / ch’esser non lascia a voi Dio manifesto»”. (119-123)
(10) Carlo Ossola, Introduzione alla Divina Commedia, Marsilio, Venezia, 2012, 24.

Omelia del Cardinale José Tolentino de Mendonça, archivista e bibliotecario di S.R.C., pronunciata a Ravenna per la "Messa di Dante" nel 699° annuale della morte del sommo Poeta


Ravenna, Basilica di San Francesco
Domenica 13 settembre 2020, XXIV del tempo ordinario – anno A
[Sir 27,30-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35]

Nel Vangelo di oggi, in questo impressionante affresco sul «regno dei cieli» che Gesù creativamente dichiara «simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi», è possibile distinguere due fili esistenziali che, intrecciati, tessono la trama della nostra umanità e che ci permettono di regolare i conti con la nostra vita in profondità. Vale a dire il filo della memoria e quello della dimenticanza. È vero che sia uno sia l’altro ci richiedono un lavoro sincero, alle volte arduo, ma fondamentale. Noi siamo ciò che ricordiamo e ciò che dimentichiamo, chi ricordiamo e chi dimentichiamo, il bene e il male che ci sforziamo di mantenere vivo o di cancellare. Nella memoria e nella dimenticanza si gioca così l’impatto del Regno in noi, si attiva o blocca la circolazione della Grazia, si concretizza o no l’esperienza del perdono e della pace. Per esempio, la lingua custodisce il fatto che memoria e dimenticanza non si limitino a operazioni esclusivamente mentali, come segnalato dai verbi “rammentare” e “dimenticare”, ma coinvolgono l’uomo intero, il suo cuore. Si dice infatti anche: “ricordare”, “scordare”, cioè “avere a cuore”, “cancellare dal cuore”. Il verbo “rimembrare”, inoltre, assegna alla memoria la capacità di “tenere assieme le membra” di una persona e di una comunità, quasi che la dimenticanza comportasse lo smembramento, la divisione e la dispersione delle parti di un corpo vivo.

Generalmente, nella lunga vicenda umana, la memoria ha goduto una reputazione migliore rispetto alla dimenticanza che toglie e consuma quanto il ricordo tenta di custodire con cura. Eppure nessuna delle due è chiara e distinta. Entrambe hanno ombre e spigoli. Certo, senza memoria risultano impossibili la fedeltà e la gratitudine. Tuttavia essa è anche la materia prima del rancore, del risentimento, della vendetta, di tutto quanto impedisce l’avvio di un processo di riconciliazione. Non solo: l’ossessione di “farsi ricordare” – caratteristica dei dannati dell’inferno dantesco, assillati dall’urgenza di non essere dimenticati dai vivi – sembra la mossa maldestra per ottenere una “risurrezione fai da te”, un vano tentativo di vincere la morte. D’altro canto, se è vero che la dimenticanza è la radice dell’infedeltà, dell’ingratitudine e della superficialità, essa è pure lo spunto iniziale del perdono, come mostra la parabola che oggi Gesù ci racconta. Se l’oblio non stende delicatamente il suo velo sulle offese ricevute, difficilmente si comincerà a perdonare. Inoltre “la dimenticanza di sé”, quella qualità spirituale che un discepolo di Cristo prende come suo compito personale per potere inseguire il Divino Maestro, conferisce al nostro cuore la libertà, l’amplitudine d’amore, il distacco dei propri interessi per mettere in primo luogo la volontà di Dio e non la nostra.

Insomma: memoria e dimenticanza concorrono entrambe al bene degli uomini e delle donne. Separandole, diventano dannose e fanno ammalare l’anima. Perciò, con genuino colpo di genio, Dante colloca al compimento del proprio cammino di conversione, sulla vetta del Purgatorio, sia il fiume Lete che porta le acque della dimenticanza, sia l’Eunoè, il torrente della memoria. Per il Poeta si tratta di due rivi che nascono dalla medesima sorgente e da essa se ne dipartono come «amici» (Purgatorio, XXXIII,114). Nel Lete il Fiorentino s’immerge completamente (Purgatorio, XXXI, 94-96) e dall’altro torrente beve (Purgatorio, XXXIII, 138) o, forse, anche in esso si bagna. Sembra un doppio battesimo dentro le acque dell’oblio e della memoria, senza il quale è impossibile passare al Paradiso. Grazie al Lete è dimenticato tutto il male commesso e il male subìto. L’Eunoè permette di ricordare tutto il bene compiuto e il bene ricevuto. Alla fine rimane solo il bene.

Con questi spunti ritorniamo alla pagina del Vangelo. Di fatto, la cifra spropositata che il servo deve al re non è restituibile. Si tratta di un debito dalle proporzioni quasi inimmaginabili. La condanna è ormai certa: il servo sarà venduto e in tal modo la corona verrà risarcita. Ma le suppliche del poveretto muovono a pietà il sovrano che subito condona e dimentica il debito. L’amnesia del signore diviene amnistia a favore del servo. Il racconto prosegue sottolineando che la scena successiva ha luogo immediatamente dopo l’incontro tra il servo e il re: «appena uscito», il servo incontra un collega, «un altro servo come lui». È pressoché ripetuta la prima scena, ma il servo che allora era nella posizione di debitore adesso si arrocca nel ruolo di creditore. La somma dovutagli dal socio non è poca cosa, ma irrisoria rispetto a quanto spettava al re. Egli ricorda perfettamente quanto gli è dovuto e, vista l’impossibilità di restituire da parte del debitore, lo fa gettare in carcere. È un paradosso: lo fa rinchiudere proprio nel luogo dove al collega sarà impossibile trovare il denaro per saldare il debito. Il primo servo costringe il secondo a restare debitore e, così facendo, la memoria del credito permane incancellabile.

Ciò che muove la parabola di Gesù è l’articolazione tra memoria e oblio, il loro intreccio. Il re dimentica il debito del primo servo e così lo perdona. Il servo dimentica immediatamente che la propria insolvenza è stata scordata, ma non intende obliare il debito del collega (forse perché altrimenti perderebbe la propria posizione di creditore?). Qualora egli avesse ricordato la dimenticanza del re, avrebbe dimenticato il debito dell’altro. La dimenticanza, segno della bontà del re, si camuffa in ingratitudine e cattiveria nel servo. Se questi avesse ricordato la bontà ricevuta, la sua memoria non sarebbe divenuta ossessiva e chiusa. Tenute insieme, memoria e dimenticanza sono le condizioni di legami giusti ed effettivamente evangelici; divise divengono mortificanti e inutili, come passioni tristi.

La pagina evangelica ci offre per questo l’opportunità di domandarci: Qual è il portamento della mia memoria? Come ricordo? E cosa ricordo? Qual è l’andatura della mia dimenticanza? Mi è facile o difficile cancellare la memoria di debiti e offese? Percorro un cammino spirituale di trasformazione?

Scrivendo la Commedia, Dante vuole fissare nella memoria propria e altrui quanto ha visto. Eppure, all’inizio del Paradiso, avverte il lettore: avvicinandosi al traguardo di ogni desiderio, l’intelletto sprofonda a tal punto «che dietro la memoria non può ire» (Paradiso, I, 7-9), la memoria non regge il passo e deve mollare la presa. La penna dell’Alighieri favorisce l’amicizia di memoria e oblio; anche per questa ragione il suo gesto è pienamente poetico e squisitamente evangelico.

Anche per questo, Dante è poeta e profeta, capace di parlare al nostro presente storico. È un necessario maestro della parola umana e della parola di Dio, di cristianesimo e di umanità. Che questo centenario che stiamo incominciando ci permetta di ascoltarlo, portandolo all’attualità delle nostre vite.

sabato 10 ottobre 2020

Discorso del Santo Padre Francesco alla delegazione dell'Arcidiocesi di Ravenna-Cervia in occasione dell'anno dantesco, 10 ottobre 2020



Cari fratelli e sorelle!

Vi do il benvenuto e vi ringrazio di essere venuti a condividere con me la gioia e l’impegno di aprire le celebrazioni del 7° centenario della morte di Dante Alighieri. Ringrazio in particolare l’Arcivescovo Mons. Ghizzoni per le parole introduttive.

Ravenna, per Dante, è la città dell’“ultimo rifugio” (cfr C. Ricci, L'ultimo rifugio di Dante Alighieri, Hoepli, Milano 1891) – il primo era stato Verona –; infatti, nella vostra città il poeta trascorse i suoi ultimi anni e portò a compimento la sua opera: secondo la tradizione furono composti là i canti finali del Paradiso.

Dunque, a Ravenna egli concluse il suo cammino terreno; e concluse quell’esilio che tanto segnò la sua esistenza e anche ispirò il suo scrivere. Il poeta Mario Luzi ha messo in evidenza il valore dello sconvolgimento e del superiore ritrovamento che l’esperienza dell’esilio ha riservato a Dante. Questo ci fa pensare subito alla Bibbia, all’esilio del popolo d’Israele in Babilonia, che costituisce, per così dire, una delle “matrici” della rivelazione biblica. In maniera analoga per Dante l’esilio è stato talmente significativo, da diventare una chiave di interpretazione non solo della sua vita, ma del “viaggio” di ogni uomo e donna nella storia e oltre la storia.

La morte di Dante a Ravenna avvenne – come scrive il Boccaccio – «nel dì che la esaltazione della Santa Croce si celebra dalla Chiesa» (Trattatello in laude di Dante, Garzanti 1995, p. XIV). Il pensiero va a quella croce d’oro che certamente il Poeta vide nella piccola cupola color blu notte, disseminata di novecento stelle, del Mausoleo di Galla Placidia; o a quella, gemmata e “lampeggiante” Cristo – per usare l’immagine del Paradiso – (cfr XIV, 104), del catino absidale di Sant’Apollinare in Classe.

Nel 1965, in occasione del VII centenario della nascita, San Paolo VI fece dono a Ravenna di una croce d’oro per la sua tomba, rimasta fino ad allora – come egli disse – «priva d’un tale segno di religione e di speranza» (Discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura Romana, 23 dicembre 1965). Quella stessa croce, in occasione di questo centenario, tornerà a splendere nel luogo che conserva le spoglie mortali del Poeta. Che possa essere un invito alla speranza, quella speranza di cui Dante è profeta (cfr Messaggio nel 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri, 4 maggio 2015).

L’auspicio è dunque che le celebrazioni per il VII centenario della morte del sommo Poeta, stimolino a rivisitare la sua Commedia così che, resi consapevoli della nostra condizione di esuli, ci lasciamo provocare a quel cammino di conversione «dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell’inferno a quella beatificante del paradiso» (S. Paolo VI, Lett. ap. m.p. Altissimi cantus, 7 dicembre 1965). Dante, infatti, ci invita ancora una volta a ritrovare il senso perduto o offuscato del nostro percorso umano.

Potrebbe sembrare, a volte, che questi sette secoli abbiano scavato una distanza incolmabile tra noi, uomini e donne dell’epoca postmoderna e secolarizzata, e lui, straordinario esponente di una stagione aurea della civiltà europea. Eppure qualcosa ci dice che non è così. Gli adolescenti, ad esempio – anche quelli di oggi –, se hanno la possibilità di accostarsi alla poesia di Dante in una maniera per loro accessibile, riscontrano, da una parte, inevitabilmente, tutta la lontananza dell’autore e del suo mondo; e tuttavia, dall’altra, avvertono una sorprendente risonanza. Questo avviene specialmente là dove l’allegoria lascia lo spazio al simbolo, dove l’umano traspare più evidente e nudo, dove la passione civile vibra più intensa, dove il fascino del vero, del bello e del bene, ultimamente il fascino di Dio fa sentire la sua potente attrazione.

Allora, approfittando di questa risonanza che supera i secoli, anche noi – come ci invitava a fare San Paolo VI – potremo arricchirci dell’esperienza di Dante per attraversare le tante selve oscure della nostra terra e compiere felicemente il nostro pellegrinaggio nella storia, per giungere alla meta sognata e desiderata da ogni uomo: “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Par. XXXIII, 145) (cfr Messaggio nel 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri, 4 maggio 2015).

Grazie ancora per questa visita, e auguri di ogni bene per le celebrazioni centenarie. Con l’aiuto di Dio, l’anno prossimo mi propongo di offrire a tale riguardo una riflessione più ampia. Benedico di cuore ciascuno di voi, i vostri collaboratori e l’intera comunità ravennate. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

Fonte:
pagina di w2.vatican.va