sabato 21 settembre 2019

"L'attualità di Dante" secondo Lino Pertile in una conferenza tenuta a Firenze il 10 ottobre 2015


C’è qualcosa di prodigioso nella capacità che la Commedia ha di rinnovarsi e presentarsi con sempre maggior forza ad ogni nuova generazione di lettori. È un fenomeno particolarmente notevole ai nostri giorni. Dante non è mai stato così lodato, ammirato e famoso come ora; mai più pubblicato, declamato in pubblico e in privato, tradotto in ogni lingua, riciclato in ogni forma e riscaldato in ogni salsa.

In Italia non sorprende che, anche in tempi infausti per gli studi letterari, la ricerca dantesca fiorisca in ambito universitario: i poli principali sono Roma, Bologna-Ravenna, Pisa, Firenze, Verona, Napoli, Catania e Messina, ma anche Torino e Milano e Venezia e Padova. Ma si sono visti di recente fenomeni del tutto inediti. Per esempio, gruppi di studenti delle facoltà più diverse che si incaricano di organizzare a Milano, a Padova, a Torino e in altre città, cicli di lezioni dantesche dove i posti a sedere vanno a ruba e gli ascoltatori sono giovani, attenti, curiosi, informatissimi. Si aggiunga il diffondersi in tutta la penisola, anche in ambienti e a livelli meno scontati, di iniziative dantesche, spesso organizzate da comuni e associazioni popolari, specialmente in località in qualche modo associate con la vita del poeta. Senza dir nulla delle letture dantesche più strepitose, allestite nelle piazze e nei teatri dell’intero paese e animate da figure tra le più popolari del teatro, dello spettacolo e della TV italiana. 

Ma anche all’estero non si scherza. Nei paesi di lingua inglese, che sono quelli che conosco meglio, oltre alle continue, nuove traduzioni della Commedia e a una seria e cospicua presenza a livello universitario (in forma di corsi di lezioni, convegni, conferenze, seminari, recite, pubblicazioni di libri e riviste, siti online agguerritissimi), si è sviluppato tutto un sottobosco di attività secondarie che vanno da corsi estivi per non addetti ai lavori, a romanzi, videogiochi, fumetti, film, rifacimenti seri e faceti del grande poema o di parti di esso. Caratteristica del dantismo dei paesi anglosassoni è la sua continua capacità di coinvolgere in iniziative didattiche, critiche e creative docenti, studiosi, scrittori, traduttori, poeti non specializzati. In altre parole, Dante viene trattato come un grande classico da ‘viversi’ in traduzione, liberamente, come Omero, Virgilio, Platone e la Bibbia. 

In alcuni paesi europei come il Regno Unito e la Germania, la tradizione degli studi danteschi ha radici profonde e molto robuste, ma fa sempre impressione, per esempio, scoprire che esiste all’Università di Leeds, nello Yorkshire, un Centre for Dante Studies e un Leeds Dante Podcast, e all’antica Università di Saint Andrews in Scozia una Lectura Dantis ormai giunta al Paradiso. Ancor più spettacolare è lo sviluppo recente degli studi danteschi a Madrid e a Barcellona, dove si pubblicano riviste come Tenzone e Dante e l’arte, e si organizzano regolarmente convegni e seminari danteschi. La Francia ha dato in passato grandi studiosi come Gilson, Renaudet, Renucci e Pézard, ma chi pensasse che quella gloriosa stagione è ormai chiusa, consideri che proprio quest’anno si è fondata alla Sorbonne una Société dantesque de France. Non solo. Dante si sta infatti affermando anche in America Latina, in Giappone, in Corea, in Cina, paesi nelle cui culture le opere letterarie italiane sono quasi del tutto assenti. 

Insomma, Dante è indubbiamente molto letto, studiato, glossato verso per verso in Italia e all’estero, e perciò si direbbe quanto mai attuale. E tuttavia allo stesso tempo a me sembra che paradossalmente Dante non venga ascoltato, che non sia preso sul serio, e in questo senso sia inattuale. Mi spiego. Dell’attualità di Dante si parla da secoli, specialmente in tempi di anniversari. Prevedo quindi che per tutti i sei anni che separano il nostro 2015 (settecentocinquantesimo anniversario della nascita) dal 2021 (settecentesimo anniversario della morte), il discorso sull’attualità di Dante si farà ‘virale’ assumendo tutte le forme possibili e immaginabili, nonché alcune inimmaginabili. Ma bisogna intendersi: in che senso possiamo dire ‘attuale’ Dante oggi, o più precisamente quale aspetto del suo pensiero si merita questa qualifica? La visione religiosa? Il pensiero economico e sociale? Il sogno politico? Di primo acchito si direbbe di no. Il miracolo della sua lingua certamente, ma anche qui sarebbe necessario contestualizzare e storicizzare. Forse la visione dei rapporti interpersonali, e in particolare del rapporto d’amore? Non direi: quello che oggi passa per amore – etero, omo e trans – lungi dal capirlo, Dante lo caccerebbe nell’inferno più profondo. In questa prospettiva Dante era inattuale, o, per usare il termine di Gianfranco Contini, “intempestivo” anche ai suoi tempi, figurarsi ai nostri! In effetti, quando si rifletta sul ‘messaggio’ dantesco, ovvero sul pensiero espresso specialmente nella Commedia, si rimane colpiti dalla sua apparente inattualità e soprattutto da come la popolarità di Dante poeta sia sempre stata inversamente proporzionale alla popolarità di Dante ‘profeta’, cioè pensatore e critico severissimo della società italiana. 

Come tanti altri grandi poemi, la Commedia di Dante è certamente un’opera di invenzione poetica. C’è però una differenza fondamentale. Dante non scrive il suo poema per divertire, intrattenere o anche istruire in termini generali i suoi lettori. Dante dichiara esplicitamente che scrive la Commedia per cambiare il mondo “che mal vive” (Purg. XXXII 103, ma vedi anche Par. XVII 128 e XXVII 65). Questa è la sua missione. E che cosa fanno i suoi lettori? Lo leggono e lo applaudono, gli dicono bravo, bravissimo, geniale, ma a cambiare se stessi e il mondo non ci pensano nemmeno. Cioè non l’ascoltano. È il grande paradosso per cui si ama il sommo poeta, se ne riconosce e ammira il genio prodigioso, si gremiscono le piazze e i teatri in cui se ne recitano e spiegano i testi, ma non lo si prende sul serio. Per metterla in altri termini, Dante descrive la malattia e prescrive la cura che salverà i lettori da morte sicura; i lettori concordano pienamente, tanto che battono le mani e vanno in visibilio, ma l’idea di seguire le prescrizioni per curarsi non li sfiora neppure. Insomma Dante sarebbe un genio che sbaglia quasi tutto, uno straordinario poeta ossessionato da alcune idee, magari anche belle e buone, ma assolutamente inapplicabili alla vita ‘reale’. 

A pensarci bene, si deve riconoscere che nei quasi settecento anni che ci separano dalla morte del sommo poeta, la ben nota posizione di Firenze nei suoi confronti si è estesa a tutta l’Italia, se non al resto del mondo. Firenze bandì, anzi condannò il poeta come un criminale nel gennaio 1302, e non volle mai, mentre egli viveva, revocarne il bando o la condanna, in sostanza perché il pensiero di Dante era assolutamente avverso alla direzione in cui si muoveva la società fiorentina del tempo,e più Dante scriveva e più s’allargava il baratro ideologico che lo separava dalla sua città natale. Dopo la sua morte nel 1321 Dante venne lentamente accettato e riappropriato da Firenze,e, in seguito, anche pubblicamente rivendicato come grande fiorentino. Ma questo mutamento avvenne solo quando il passaggio del tempo rese possibile concentrarsi sul Dante poeta (e chi mai è contro la poesia?) minimizzandone il pensiero o sorvolando sul Dante‘profeta’, il Dante ideologo e appassionato polemista, se non come oggetto di attenzione accademica. 

Qualcosa del genere mi sembra che con il passare del tempo sia avvenuto in tutto il mondo e in particolare in un paese di tradizione cattolica come l’Italia. Come Firenze nel Trecento, noi tutti abbiamo neutralizzato il pensiero di Dante, privilegiandone la forza poetica, come se questa potesse esistere per se stessa. In realtà Dante si serve della poesia, ma il suo scopo è molto concreto, ed è la riforma della Chiesa e dell’Impero, della società civile, della città, dei costumi individuali. Ma proprio questa sua ambizione è stata nei secoli, e rimane tuttora più che mai inascoltata, frustrata. Anzi, si deve riconoscere che dei vizi umani stigmatizzati da Dante con le sue requisitorie più feroci, alcuni sono divenuti indiscussi valori della cultura e società occidentale. Si pensi soltanto all’‘ignavia’ dilagante nella vita politica, alla ricerca ossessiva del vantaggio privato a spese del bene comune, all’indifferenza nei confronti della vita religiosa, alla celebrazione della ‘diversità’ nella vita pubblica e privata, o alla liberalizzazione dei costumi sessuali. 

Ciascuno di questi temi meriterebbe un trattamento particolare, ma qui mi propongo di trattare, per quanto concisamente, un cosiddetto ‘valore’ sul quale si fondano in maniera ormai assiomatica molte delle principali attività umane. Mi riferisco all’ingegno, ovvero l’intelligenza operativa, quel talento che permette all’individuo, ai livelli più diversi dell’esperienza, di misurarsi con successo anche contro forze apparentemente schiaccianti o prendere sempre nuove iniziative allo scopo di migliorare le proprie condizioni di vita senza riguardo per il bene della comunità in cui vive. Dante condanna decisamente questo genere d’intelligenza. Si pensi al caso di Guido da Montefeltro, canto XXVII dell’Inferno. Preso tra i due fuochi della minaccia presente di papa Bonifacio e di quella futura, ma non meno grave, della giustizia divina, Guido trova una ingegnosa scappatoia che gli permette di soddisfare alle richieste papali senza compromettere – così almeno egli crede – i suoi rapporti col Padreterno. Il risultato di questa operazione è positivo, almeno a breve termine: Guido riesce a salvare la pelle e a mantenere pulita l’anima, o almeno così crede; tuttavia, sui tempi lunghi, la sua furbizia si rivela catastrofica perché per vincere la battaglia di un giorno Guido perde la guerra della vita, cioè brucia la sua possibilità di salvarsi l’anima, che finisce infatti dannata per sempre all’inferno. L’intelligenza di Guido ne provoca l’eterna rovina. Analogo, ma a un livello di esperienza molto più alto e nobile, è il caso di Ulisse. Anche Ulisse usa la propria intelligenza nel tentativo di giungere immediatamente e con le proprie forze dove non gli è permesso. Il risultato nel suo caso è il drammatico naufragio che ne finisce questa vita e lo condanna nell’altra. Di nuovo, l’intelligenza ha portato un grande personaggio a fare quel che non doveva, procurandone la rovina. In entrambi i casi, il problema morale fondamentale e tuttora vivo, che Dante rappresenta in forma simbolica, è il problema dell’intelligenza umana: come controllare l’intelligenza che Dio o madre natura ci ha dato, come vincere la tentazione di lasciarla correre e operare liberamente. Dante lo dichiara esplicitamente iniziando il canto XXVI dell’Inferno

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio 
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, 
e piú lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio, 
perché non corra che virtú nol guidi; 
sí che, se stella bona o miglior cosa
 m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 
(Inf. XXVI 19-24)

Dante mette avanti questo suo concetto fin dall’inizio del canto di Ulisse, ma la critica tradizionale non l’ha mai voluto porre al centro dell’interpretazione dei due personaggi che l’incarnano, Ulisse e Guido, appunto, preferendo invece focalizzarsi sul peccato di frode, secondo me secondario. Che frode ci sia non c’è dubbio, anche se non è quella che normalmente si indica; in verità la frode è il mezzo, la manifestazione dell’oltranza dell’intelligenza, mentre è proprio sull’abuso o l’oltranza dell’intelligenza che Dante vuol invece attrarre la nostra attenzione. 

Si tratta di un problema morale, che si andava diffondendo a macchia d’olio nelle più progredite e progressive città italiane tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, gli anni d’oro dello sviluppo socioeconomico fiorentino, ma è ancora attualissimo oggi. Per quanto riguarda il Due-Trecento basta pensare a certe storielle del Novellino o, ancor meglio, del Decameron per capire che cosa ha in mente Dante. Molti personaggi del Decameron fanno un uso spregiudicato, senza remore morali, della loro intelligenza allo scopo di ottenere il successo nelle loro imprese, siano esse erotiche, commerciali, religiose o altro. Basti pensare a un personaggio come Ser Ciappelletto che, pur essendo un farabutto senza scrupoli e un peccatore inveterato, riesce con la sua intelligenza a farsi passare per santo proprio in punto di morte. 

Il dato di fatto nuovo e rimarchevole è che l’uso immorale o, meglio, amorale dell’intelligenza non è privilegio dei forti e potenti, degli intellettuali, o dei personaggi maschili; anzi, nel Decameron, l’intelligenza è l’arma naturale propria dei personaggi in certo qual modo ‘inferiori’ o che vengono a trovarsi in una situazione che li rende tali: un’arma per eccellenza democratica. Prendiamo, per esempio, il caso della novella quarta della settima giornata. Vi ricordo la trama che è comunque notissima e deriva dal Novellino. Tofano, uomo ricco ma sempliciotto, è sposato con l’avvenente Monna Ghita di cui è molto geloso senza ragione alcuna, almeno inizialmente. Monna Ghita, risentita della gelosia del marito, incomincia a intendersi discretamente – scrive Boccaccio, ed è qualificazione cruciale – con un giovane e s’ingegna di trovare il modo per godere della sua compagnia. Fa ubriacare Tofano, al quale per altro piace bere,e quando egli è sbronzo, lo mette a dormire mentre lei va a spassarsela col suo amante. Ma a un certo punto Tofano s’insospettisce e decide di verificare. Una sera finge di essere ubriaco e di addormentarsi e, non appena la moglie esce,chiude a chiave la porta di casa e corre ad aspettarla alla finestra. Ghita, rientrando dal convegno adultero, si trova la porta sbarrata e il marito alla finestra che la svergogna ad alta voce minacciandola di non farla entrare. Lei – saviamente, direbbe Boccaccio – lo prega di non gridare e non rendere pubblica la loro vergogna, ma lui si rifiuta di cooperare. Ghita allora fa finta di gettarsi in un pozzo lì accanto e così costringe Tofano, preoccupato, a uscire di casa per verificare. Quando lui apre la porta, lei corre dentro e lo chiude fuori a sua volta. Va poi alla finestra e, tra lamenti e finte lacrime, lo svergogna accusandolo di passare la vita all’osteria a bere. Con il suo stratagemma Ghita riesce a capovolgere la situazione; ma la cosa non finisce lì: il marito viene picchiato di santa ragione dai parenti della donna. E la conclusione, degna di nota, è che Tofano ritorna a vivere con Ghita, dandole anzi licenza “che ogni suo piacer facesse, ma sì saviamente, che egli non se ne avvedesse”. 

Potrei offrire decine di altri esempi, ma si arriverebbe sempre alla stessa conclusione. Mentre nella Commedia l’uso dell’intelligenza è problematico e, in assenza di virtù, sfocia in questa o nell’altra vita nella tragedia, nel Decameron l’intelligenza di questo o quel personaggio, per quanto spregiudicata, non si costituisce mai in elemento di rottura; nel Decameron la trasgressione morale non è determinante per sé,ed è solo la repressione degli impulsi naturali e/o l'infrazione delle convenzioni sociali a portare alla sconfitta e alla tragedia; e ciò avviene o perché l'individuo agisce senza il sostegno di un'intelligenza mediatrice, o perché si scontra contro le forze imprevedibili dell'avversa fortuna. 

Un analogo uso amorale dell’intelligenza viene consigliato al principe anche da Machiavelli. Anche nel Principe la bontà dell’azione non si misura in termini morali, ma in base alla sua efficacia. E come nel Decameron l’immoralità privata ottiene l’approvazione dell’autore purché sia gestita discretamente, così nel Principe il male (frode, violenza, omicidio), è permesso e incoraggiato, quando necessario, specialmente se si può compiere in segreto. Machiavelli trasferisce alla vita politica e militare un codice di comportamento condannato da Dante ma ampiamente documentato e collaudato nella vita privata, nonché nella letteratura, dal Duecento in poi. Dopotutto, il modello dell’ibrido lione-golpe, che Niccolò consiglia al principe di adottare, è proprio quello esplicitamente perseguito nella sua vita da Guido di Montefeltro, le cui opere, a detta di Dante, furono appunto di volpe più che di leone. 

Ebbene, mi si perdoni l’inevitabile generalizzazione, ma mi sembra che, almeno per questo rispetto, la società italiana di ogni tempo e luogo non abbia seguito le indicazioni di Dante, ma quelle di Boccaccio e Machiavelli, e che l’uso spregiudicato dell’intelligenza sia diventato canonico nella nostra vita nazionale, tanto che, anche ai nostri giorni,chi non lo persegue per remore morali o mancanza appunto di intelligenza viene spesso considerato un ‘fesso’ o un inetto. Potrei raccontare casi o episodi, che so, di ciechi o defunti che ogni mese vanno a riscuotere la pensione alla guida della loro automobile, o di vigili urbani che marcano il cartellino e poi se ne vanno per i fatti loro a far quel che più gli garba, o di deputati che vanno in pensione senza aver servito un giorno, o funzionari piccoli e grandi che usano il denaro pubblico come risorsa privata, per non parlare delle avventure salaci di uomini di stato. Come scriveva Giuseppe Prezzolini già nel lontano 1921 nel suo Codice della vita italiana: "L'italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all'ammirazione di chi se ne serve a suo danno. Il furbo è in alto in Italia non soltanto per la propria furbizia, ma per la reverenza che l'italiano in generale ha della furbizia stessa". 

Ora, la possibilità di frodare lo stato o il prossimo senza pagare lo scotto né in questa vita né, grazie alla confessione, in quella eterna viene notevolmente incrementata nella cultura cattolica dall’accessibilità di una misericordia che rimane sempre disponibile, a norma di dottrina, finché si è in vita, epperò la responsabilità per le proprie azioni non è mai definitiva e irreversibile. Al contrario, che cosa suggeriva il cattolicissimo e intransigente Alighieri? 

“e piú lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio, 
perché non corra che virtú nol guidi” 

L’intelligenza, dice Dante, va sorvegliata e tenuta a freno dalla virtù – virtù intesa come responsabilità civile, sociale,etica; virtù perseguita in nome del bene comune,e dunque non esclusivamente religiosa. Consapevolezza che, una volta compiute, le azioni non si ‘s-compiono’, non si disfano, e i danni che esse fanno sono irrimediabili, e irreversibile la nostra colpa nel farli, checché ne dica la dottrina della Chiesa. Ora, il fatto che questa consapevolezza non si sia diffusa in Italia fino a diventare parte della cultura nazionale non la rende meno importante e auspicabile,e quindi attuale: è un caso tipico che dimostra come settecento anni di lettura della Commedia non sono stati sufficienti a far sì che il messaggio di Dante venga non soltanto recepito, ma anche messo in pratica.

Ma questo è solo il versante per così dire ‘guidesco’ o, se si vuole, ‘comico’ dell’attualità di Dante. Un altro versante, il versante, diciamo, ‘ulissico’ o tragico, è di ancor più impressionante attualità. Anzi in questo campo, con il passare del tempo, l’intuizione di Dante si rivela sempre più profeticamente attuale. Mi riferisco all’applicazione dell’intelligenza a fini non soltanto filosofici e speculativi, ma più propriamente scientifici. Che cos’è infatti la montagna altissima che Ulisse vede in mezzo all’oceano e a cui cerca di approdare con la sua nave? È chiaramente, e non per caso – sempre secondo la geografia dantesca – l’isola della montagna del Purgatorio, la montagna sulla cui cima si trova il paradiso terrestre, patria originale dei nostri primi parenti, perduta per sempre a causa della loro ambizione. È questa la meta che Ulisse vuole più o meno consciamente raggiungere. Avendo esplorato la terra intera, Ulisse è ora in cerca di qualcosa che può esistere solo oltre i limiti terrestri, il suo vero centro, la sua vera patria. È cioè in cerca del paradiso o della felicità in terra. Ma Ulisse è pagano e peccatore, in quanto autore di mitiche frodi; non sa che nessuno può ritornare al paradiso terrestre prima che Cristo lo riapra agli uomini. Pagano e peccatore, egli tenta di ritrovare il paradiso terrestre confidando soltanto su intelligenza, volontà e tecnologia navale. Per Dante questa è un’impresa impossibile e proibita: la salvezza eterna richiede un “altro viaggio” (Inf. I 91), fatto con mezzi diversi – un viaggio che passi attraverso l’umiltà e l’amore, e per essere più precisi la fede, la speranza e la carità, non attraverso l’intelligenza e la forza di volontà. Quello di Ulisse è dunque un tentativo immensamente nobile e intelligente in quanto, in tutta evidenza, nella direzione giusta, ma oggettivamente presuntuoso e superbo, in quanto sfida a un limite invalicabile. La sua tragedia è un monito agli uomini a non confidare troppo o soltanto nell’intelligenza, a non lasciarla correre senza il controllo della virtù – un monito che è diventato particolarmente opportuno e tempestivo negli anni recenti, da quando la nostra società si va dimostrando così tragicamente vulnerabile alle proprie invenzioni. “Che virtú nol guidi”: dicevo virtù come responsabilità civile, sociale, etica; consapevolezza che, una volta inventate, le cose non si disinventano e possono rivoltarsi proprio contro il loro inventore. Si pensi all’artefice Perillo, al suo ingegnosissimo, atroce bue, che proprio lui, che l’avea temperato con sua lima, è costretto a sperimentare per primo (Inf. XXVII 7-12). 

La questione morale che i canti XXVI e XXVII dell’Inferno mettono a fuoco è fondamentale per tutti i tempi e i luoghi. Che cosa è lecito fare con il nostro ingegno? Fino a che punto possiamo spingerci? Siamo giustificati a perseguire qualsiasi genere di ricerca, obiettivo scientifico, o ambizione intellettuale senza considerarne le conseguenze? La clonazione umana, la ricerca staminale, le armi chimiche o le armi di distruzione di massa, l’invenzione, produzione e l’uso di materiali praticamente indistruttibili che inquinano irreversibilmente la terra o riscaldano irreversibilmente l’atmosfera? Dove mettiamo le nostre Colonne d’Ercole, i confini oltre i quali non possiamo, non vogliamo andare? Questo è il dilemma che ispira il canto XXVI dell’Inferno. Ulisse esprime l’inquietudine dell’intelligenza laica – il bisogno, l’impulso umanissimo di cercare risposte, di andare oltre l’orizzonte della nostra esperienza; il poeta ne inventa la tragica fine per mettere in guardia chi ha troppa fiducia nel proprio ingegno. 

Ma di nuovo, chi lo ascolta Dante? Chi tarpa le ali alla propria intelligenza per paura che vada a far male a se stessa? Nel campo delle armi nucleari esiste la dottrina della spettacolare MAD, la mutually assured destruction, secondo la quale le intelligenze micidiali si controllano ed elidono a vicenda rendendo impossibile la obliterazione dell’una proprio perché comporterebbe la simultanea obliterazione dell’altra. Io non mi sento per niente sicuro che la diffusione delle armi di distruzione di massa ne impedisca per sempre l’impiego, volontario o accidentale che sia. In ogni caso il monito di Dante è buono anche per forme molto più insidiose e diffuse di tecnologia senza le quali non si riesce più a vivere. Basti pensare all’apparente mente innocua e comodissima busta di plastica che, moltiplicata per milioni di milioni, va a formare, insieme con altre immonde cianfrusaglie, non paradisi terrestri ma isole di spazzatura in mezzo agli oceani ... 

Ma, un momento: si possono veramente mettere i bastoni della virtù tra le ruote dell’intelligenza? La risposta è certo positiva sul versante, diciamo così, ‘guidesco’ dell’agire umano, nel quale la natura fraudolenta e immorale dell’azione è chiara fin dal momento in cui la si concepisce. Ma sul versante ‘ulissico’ il discorso è molto diverso. Non sempre si possono prevedere e immaginare le conseguenze delle scoperte dell’intelligenza. Il motore a scoppio non è certo stato inventato per inquinare l’atmosfera, né l’aereo per essere scagliato contro i grattacieli, né il gas per asfissiare milioni di esseri umani. 

La tragedia dell’Ulisse dantesco rispecchia e rivela in ultima analisi la condizione tragica dell’intelligenza umana. In termini molto semplici, l’innato desiderio di conoscere dell’uomo, acclamato da Dante fin dall’esordio del Convivio, lo espone a rischi imprevisti, imprevedibili e sempre più catastrofici. È la scoperta esaltante e allo stesso tempo terrificante che Primo Levi fa in Se questo è un uomo alla fine delle sue riflessioni sul canto di Ulisse. Ebbene, Dante ammonisce e consiglia, e il fatto che i suoi ammonimenti e i suoi consigli vadano inascoltati non lo rende meno attuale. Anzi. Aveva visto giusto Gianfranco Contini che, esattamente cinquant’anni fa, nel settecentesimo anniversario della nascita del poeta, concludeva un suo magistrale saggio con queste parole: “L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui”. L’attualità di Dante è di quelle che non sono legate a un tempo e a un luogo. Il che non significa che non sia perseguibile, ma piuttosto che settecento anni dopo la morte del poeta non abbiamo ancora incominciato a perseguirla, e forse proprio nella sfida e nell’ammonimento perenne che la Commedia propone sta il segreto della sua inestinguibile vitalità.


Testo preso da: www.ritoscozzese.it

Lino Pertile, nato nel 1940 nei pressi di Padova, è Professore di Lingue e Letterature Romanze all’Università di Harvard. Si è laureato in Lettere all’Università di Padova e ha insegnato nelle Università di Reading, Sussex e Edimburgo prima di giungere a Harvard. È l’attuale Rettore della Eliot House, il più prestigioso tra i colleges di Harvard. Nel 2005 è stato nominato Harvard College Professor, uno speciale riconoscimento assegnato a quei docenti che hanno investito la maggior parte del loro tempo e della loro energia nell’insegnamento universitario.
I suoi principali interessi di ricerca sono attualmente Dante, la cultura veneta del Cinquecento e il Novecento. È specializzato nello studio di Dante e della Commedia, un campo nel quale ha pubblicato ampiamente. I suoi studi riguardano inoltre il Medioevo latino, Bembo e la questione della lingua, la letteratura rinascimentale in Francia e in Italia, Foscolo, Leopardi e i romanzi italiani del XX secolo.
Ha pubblicato numerosi saggi e articoli sulla letteratura italiana (Bembo e Trifon Gabriele) e francese (Montaigne) del Cinquecento, sul Trecento, sull’Ottocento (Leopardi) e sul Novecento (Pavese, Moravia, Fo, la narrativa contemporanea).
Ha curato i seguenti volumi: La scena del mondo. Studi sul teatro per Franco Fido, con A. Oldcorn e R. Syska-Lamparska, Ravenna, Longo, 2006; In amicizia. Essays in Honour of Giulio Lepschy, con Z. G. Baranski, Reading 1998; The Cambridge History of Italian Literature, con C.P. Brand, Cambridge University Press, 1996, (revised paperback edition, 1999); The New Italian Novel, con Z. G. Baranski, Edinburgh University Press, 1993, (paperback ed. 1998).
Come dantista, oltre a molti articoli, ha pubblicato i volumi: La punta del disio. Semantica del desiderio nella ‘Commedia’ di Dante, Firenze, Cadmo, 2005; La puttana e il gigante: dal "Cantico dei cantici" al Paradiso terrestre di Dante, Ravenna, Longo, 1998. Ha inoltre curato l’edizione critica delle Annotationi nel Dante fatte con M. Trifon Gabriele in Bassano, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1993. Ha inoltre prestato la sua voce per la registrazione del testo dell'intera Commedia per il Pricenton Dante Project.

lunedì 9 settembre 2019

Omelia del Cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, pronunciata a Ravenna per la "Messa di Dante" nel 698° annuale della morte del sommo Poeta


Ravenna, Basilica di San Francesco
Domenica 8 settembre 2019, XXIII del tempo ordinario – anno C
[Sap 9,13-18; Sal 89; Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33]


La parola di Dio ci ha richiamati severamente al limite della condizione umana: 
«I ragionamenti dei mortali sono timidi 
e incerte le nostre riflessioni, 
perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima 
e la tenda d’argilla opprime una mente piena di preoccupazioni» 
(Sap 9,14-15). 

La riflessione sapienziale del tardo giudaismo, sotto l’influsso del pensiero greco, attribuisce alla componente corporea della persona umana, alla materia, la responsabilità del limite conoscitivo ed emozionale dell’uomo. 

Il pensiero contemporaneo condivide, per alcuni aspetti, questo pessimismo – seppure non lo leghi alla dimensione corporea, che viene piuttosto esaltata a scapito dello spirito –, distaccandosi in ciò dalle «magnifiche sorti e progressive» del «secol superbo e sciocco» da cui metteva in guardia già Giacomo Leopardi (La Ginestra). La presa di distanza dall’ottimismo illuminista ci rende sì vicini al sentimento del poeta, in particolare dopo le tragedie dell’umano che hanno segnato di orrore e di sangue il secolo breve, ma l’autore sacro ci aiuta a sfuggire gli esiti nichilistici che accompagnano il disincanto, cioè le predizioni sulla fine della storia come pure gli inviti a circoscrivere gli orizzonti sui piaceri immediati. Il limite dell’uomo sta nel non riuscire da sé ad aprirsi a una trascendenza che è nelle sue attese ma non nelle sue proprie possibilità: 
«A stento immaginiamo le cose della terra, 
scopriamo con fatica quelle a portata di mano; 
ma chi ha investigato le cose del cielo?» (Sap 9,16). 

Ne era ben consapevole Dante, che così si esprime per bocca di Virgilio: 
«Matto è chi spera che nostra ragione 
possa trascorrer la infinita via 
che tiene una sustanza in tre persone. 
State contenti, umana gente, al quia; 
ché se potuto aveste veder tutto, 
mestier non era parturir Maria» (Purg. III, 34-39). 

Un limite, quello creaturale, a cui pone rimedio Dio stesso, rivelandosi, comunicandosi, entrando in dialogo con l’umanità, come insegna il poeta, rinviando all’incarnazione del Figlio di Dio, e come suggerisce il sapiente, che assapora il mistero del Verbo già nel dono della legge: 
«Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, 
se tu non gli avessi dato la sapienza 
e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito? 
Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; 
gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito 
e furono salvati per mezzo della sapienza» (Sap 9,17-18). 

Al limite dell’uomo Dio risponde con il dono di sé. C’è speranza per la nostra esistenza e la storia umana, ed essa riposa su un Dio che ci ama e non si nega all’umanità. 

La pagina del vangelo di Luca mette però in guardia di fronte a una possibile comprensione consolatoria di questo messaggio, perché il sapere sull’uomo e sul mondo che la parola di Dio comunica mediante il suo Figlio rompe gli schemi della nostra logica e chiede una presa di posizione circa la vita, che viene a confliggere con il pensiero diffuso e con gli stessi traguardi istintivi della persona, quelli del possesso anzitutto ma anche quelli degli affetti. 

Il Dio della rivelazione ebraico-cristiana è «un Dio geloso» (Es 20,5): egli chiede un’adesione che non ammette parzialità o condivisioni. Egli è il tutto e chiede tutto, perché è così, nell’affidamento totale a lui che tutto in lui assume un volto nuovo. È una pretesa così radicale che non può essere raccolta con superficialità. Di qui l’invito di Gesù a misurarsi con ciò che significa accogliere il suo invito a seguirlo. Le immagini della torre da costruire e della guerra da intraprendere sono un severo ammonimento a chi crede di poter accogliere Gesù e seguirlo senza pagare un prezzo. 

Il primo prezzo da pagare è quello della rinuncia ai beni materiali come ciò su cui erigere le proprie sicurezze, meglio ancora ciò con cui elevare le barriere che ci separano dagli altri, visti come concorrenti che ci sottrarrebbero qualcosa nella condivisione, come un pericolo per il nostro egoismo. Lo stesso egoismo è quanto inficia normalmente i nostri affetti, rendendoli assai poco puri nel dono di sé e invece piuttosto dominati dall’istinto di possesso dell’altro come strumento di soddisfazione individuale. Ma al fondo, ci provoca Gesù, ciò che limita la nostra libertà è pensare alla vita come a un bene da difendere e non da donare, dimenticando che questa vita si scontra con un limite umanamente insuperabile che è la morte. Ciò che abbiamo di più caro, di più nostro, che difendiamo in tutti i modi è ciò che sicuramente perderemo. E, ci avverte Gesù, ci sono due modi di perdere la vita: lasciando che essa ci sfugga o donandola. Il secondo modo, il dono, è quello che ci ha mostrato il Figlio di Dio, perché reciprocità di dono è il mistero stesso delle tre persone nell’unico Dio, come lo canta il nostro sommo poeta: 
«Ne la profonda e chiara sussistenza 
de l’alto lume parvermi tre giri 
di tre colori e d’una contenenza; 
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri» (Par. XXXIII, 115-120). 

La sapienza di Gesù rompe gli schemi di questo mondo e ci insegna a guardare alla vita in modo nuovo, quello di Dio, in cui il limite dell’uomo è sanato dalla sua grazia, dal suo amore. Uno sguardo che permette anche di entrare nelle contraddittorie vicende sociali per trovare uno spazio di umanità anche là dove le costrizioni delle leggi umane e delle condizioni economiche sembrerebbero negarlo, come nello stato di schiavitù descritto nel testo paolino. A Filemone è chiesto qualcosa di più che la rottura di un vincolo di schiavitù con cui, secondo le strutture economiche del tempo, veniva garantito alla sua impresa il lavoro di Onesimo. Accogliere lo schiavo, Onemsimo, come fratello in Cristo ribalta di fatto ogni separazione di classe sociale, ogni possibile sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per chiedere a tutti di guardare agli altri, quale che sia la loro condizione, come a fratelli, figli di un unico Padre. Ripensare il mondo alla luce del principio dell’amore fraterno nega ogni sfruttamento oggi, e pone le premesse di un radicale cambiamento degli assetti sociali. Così sarà per la schiavitù nel mondo antico, svuotata progressivamente dall’esperienza della fraternità, in cui all’altro viene riconosciuta piena dignità. In tal senso il Vangelo si fa seme di un mondo nuovo e promotore di giustizia nel mondo. Non quella che scaturisce da astratti egualitarismi, ma quella che nasce dalla consapevolezza di avere tutti un Padre, da cui possiamo trarre un amore capace di cambiare il mondo: 
«E ’n la sua volontade è nostra pace» (Par. III, 85). 

In questo ci illumina e orienta l’opera di Dante, che Papa Francesco ha definito «profeta di speranza, annunciatore della possibilità del riscatto, della liberazione, del cambiamento profondo di ogni uomo e donna, di tutta l’umanità. Egli ci invita ancora una volta a ritrovare il senso perduto o offuscato del nostro percorso umano e a sperare di rivedere l’orizzonte luminoso in cui brilla in pienezza la dignità della persona umana» (Messaggio al Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura in occasione delle celebrazioni del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri, 4 maggio 2015). 

Sono parole che si pongono nella scia dell’insegnamento dei Pontefici sul magistero di Dante Alighieri, in particolare della profonda lettura che dell’opera dantesca ha fatto il Santo Papa Paolo VI nella Lettera apostolica Altissimi cantus, di cui merita qui ricordare un significativo passaggio: «Il fine della Divina Commedia è anzitutto pratico ed è volto a trasformare e a convertire. Essa in realtà non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma soprattutto di cambiare radicalmente l’uomo e di condurlo dal disordine alla sapienza, dal peccato alla santità, dalle sofferenze alla felicità, dalla considerazione terrificante dei luoghi infernali alle beatitudini del Paradiso» (Lettera apostolica Altissimi cantus nel settimo centenario della nascita di Dante Alighieri, 7 dicembre 1965, n. 18). Parole che ci orientano in questi giorni di così difficile lettura del cammino da aprire innanzi a noi, nella vita di ciascuno e nel Paese. Parole che ci ricordano come la dimensione della trascendenza sia un parametro irrinunciabile per ricostruire un volto autentico dell’umano, anche oggi, anche in questa nostra Italia. 

Non per nulla Thomas S. Eliot, contro le interpretazioni dantesche che inducevano a separare poesia e pensiero, affermava che Dante scrive la Commedia perché «convinto di aver fatto esperienze importanti» (Il bosco sacro), cioè come un uomo che, presa sul serio la propria esperienza, non fugge di fronte al pericolo, al rischio di vivere, all’interrogativo che la vita porta con sé – per Dante la morte di Beatrice –, ma vi si getta dentro, si incammina nella «selva oscura» (Inf. I, 2), e, attraverso il confronto con i testimoni della storia – da ultima Beatrice, che nel gesto delle mani chiuse in preghiera (Par XXXIII, 38-39) sancisce l’“amen”, il “sì” al proprio destino –, recupera un orizzonte alla vita, fino a cogliere il senso del tutto nel volto di Cristo. 

A questo progetto di piena umanità siamo oggi richiamati; sollecitati ad assumere fino in fondo la sfida che è la vita, senza lasciarci catturare dalla seduzione soporifera delle cose e dalla presunzione dell’autosufficienza, riconoscendo nel rischio della vita e nell’altro, che lo incarna, il solo futuro possibile. Il compito che ci attende va oltre una riforma sociale, o, meglio, giunge a questa attraverso una critica della cultura dominante, per trovare orientamenti certi a una riforma della vita di ciascuno, a un recupero personale e comunitario dell’umano, collocato su orizzonti di umiltà, condivisione, solidarietà, incontro, dedizione, trascendenza; «puro e disposto a salire a le stelle» (Purg. XXXIII, 145).