Il nostro progresso non consiste nel presumere di essere arrivati, ma nel tendere continuamente alla meta
22-28 agosto
Venerdì, 27 agosto, ore 11.15
La storia dell'eternità.
La Divina Commedia, il canto dell'uomo che torna a Dio
Relatore:
Anna Maria CHIAVACCI LEONARDI *
professore ordinario di Filologia e critica dantesca all’Università degli Studi di Siena
Moderatore:
Davide RONDONI, poeta e scrittore
Videoregistrazione dal canale youtube di meetingdirimini e trascrizione dalla pagina di www.meetingrimini.it
RONDONI: Buongiorno. Come sapete questo è un appuntamento oramai tradizionale, se così si può dire, nella vita del Meeting ed è anche uno dei momenti di più alto magistero, come direbbero i retori, cioè un momento in cui c’è un approfondimento e una lezione delle più interessanti e profonde.
Volevo solo introdurre dicendo due cose: la prima è una cosa che mi è venuta in mente l’altro giorno la mattina presto, molto presto. Avevo la televisione accesa e c’era la pubblicità del Mulino Bianco, non so se l’avete mai vista, quella con le donne… avete presente? Insomma c’era questa pubblicità: “ah le donne!”, inizia così e c’è questo bambino piccolissimo, poi un po’ più grande e c’è un momento in cui dice: “Le donne all’inizio non ti guardano neanche, insomma quando sei piccolino non sai cosa sono”; poi c’è un momento, un po’ più grande, in cui dice: “Le donne non ti guardano” e si vedono queste bambine che parlano fra di loro in macchina, con un maschietto in mezzo, e non se lo filano; poi c’è un momento, ed è il momento della giovinezza in cui dice: “Le guarderesti sempre”, dice la pubblicità, e si vede il ragazzino che studia e la ragazzina che ha in mano la Divina Commedia. Ecco, la pubblicità dice a volte anche cose intelligenti, non solo strumentali, ed è vero che in qualche modo questo “le guarderesti sempre” è perché un uomo vorrebbe sempre guardare l’eterno nella storia; e la bellezza è uno di quei segni in cui qualche cosa di smisurato entra nella misura e non a caso la Divina Commedia è nata per una donna, per guardare sempre una donna. Perché questa è una esigenza che abbiamo tutti e anche la pubblicità se ne accorge.
La seconda cosa che non credo non si possa dire oggi, è che il fatto che la storia c’entri con l’eterno, che l’eterno entri nella storia e che la storia entri nell’eterno è esattamente il problema. È la questione alla quale ci troviamo di fronte quando vediamo, appunto, troncare ingiustamente la vita di qualcuno come è successo per il giornalista italiano, oppure, come molti di noi hanno nel cuore oggi, per la morte di malattia di un ragazzo giovane di Milano, un nostro amico di 21 anni. Ci sono dei momenti, dei punti inevitabili, come dice Eliot in I cori dalla rocca, in cui uno si chiede che cosa vuol dire che l’eterno entri nella storia.
Scusate per le citazioni che sembrano non avere nulla a che fare con Dante, ma Dante serve per capire meglio la vita. Come, per esempio, una notizia sul giornale di oggi di un uomo, Prandelli - conoscete l’allenatore della Roma? - che rinuncia appunto all’incarico di allenare la Roma - potete immaginare cosa significa rinunciare ad un incarico così, cioè l’apice della carriera - perché deve stare accanto alla moglie malata. Questi sono i momenti in cui capisci che l’eterno deve entrare nella storia, perché la storia abbia un sapore, perché la storia non sia solo una vaniloquio di vite e di parole che vanno via. La storia deve entrare nell’eterno e l’eterno deve entrare nella storia. In Dante noi sentiamo un maestro in questo sguardo, in questo problema e sentiamo nella professoressa Chiavacci una guida sicura nel leggerlo e nel capirlo. Per questo la ringrazio di essere ancora con noi e voglio con voi ascoltare le sue parole.
CHIAVACCI LEONARDI: Ringrazio l’amico Rondoni della presentazione e ringrazio voi dell’affluenza e del generoso applauso. Bisognerebbe aspettare la fine, tuttavia, per vedere se va bene.
Dunque, nella conversazione che si svolse qui al Meeting proprio qualche anno fa, ci fermammo a considerare un aspetto del poema di Dante su cui in genere non si parla, non si discute, ma in realtà lo caratterizza in modo rilevante. Il viaggio che esso racconta, viaggio della vita umana, come dice il suo primo verso, è un cammino non affidato al caso, ma diretto ad una meta stabilita.
La vita del singolo, come quella dell’umanità intera ha un inizio e un termine, termine predisposto di pace e felicità. E la strada scelta per questo cammino può dunque essere diritta o sbagliata. La “diritta via era smarrita”, già la prima terzina ci dice che la via può essere diritta o meno, quindi c’è un termine e un termine felice. Ora questa prima idea, che per noi è scontata, di un fine fissato alla vita e alla storia non è ritrovabile invece nelle culture e nelle religioni che appartengono all’oriente. Essa caratterizza in modo specifico l’epos occidentale, sia classico che biblico. Le altre culture vedono la fine della vita come qualcosa di incerto: o si va in forme di vita ciclica, continui ritorni, o si perde nel caos, non c’è questa sicurezza di una meta. Nell’epos occidentale, nei suoi due filoni sia classico che biblico, questo è evidente: ricordiamo brevemente qualcuno di questi grandi personaggi. Mosè, con ispirazione divina, fidando solo sulla parola divina conduce i suoi dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra dei padri.
Abramo, anche lui fidando sulla parola di Dio, lascia il suo paese, lascia la sua terra per una destinazione sconosciuta dove troverà prosperità e discendenza, l’abbondanza.
Non diversamente nell’epos classico, Enea lascia Troia in fiamme, fidando nella parola della dea madre per fondare in un luogo ignoto, sulle coste del Lazio, un regno di giustizia e di pace.
Infine ricordiamo Ulisse che, attraversando mille pericoli, perché sono percorsi sempre difficili, come è appunto la vita, torna alla propria casa, il luogo del riposo per eccellenza, configurando così, questa volta il viaggio, come un ritorno. Cosa che del resto accade anche agli ebrei che tornano nella terra dei padri, a Canaan.
Ora però questa terra di arrivo lontana promessa dagli dei e faticosamente raggiungibile è una evidente figura di un luogo di felicità anelato dopo i dolori e i tormenti della vita. Speranza che appare propria dei popoli mediterranei.
Dopo più di un millennio, la Divina Commedia porta in questo modello che pure esplicitamente segue, perché si ispira all’Eneide, una novità fondamentale. Il luogo d’arrivo non è più sulla terra, ma oltre il tempo e lo spazio, nell’eternità. Non più Gerusalemme né Roma, ma la dimora stessa di Dio. Tra quei poemi e questo, qualcosa è infatti accaduto. Qualcosa ha cambiato le sorti dell’umanità. Dio stesso è intervenuto nella storia, prendendo la carne umana, nascendo da una donna, morendo sulla terra e risorgendo nella gloria dove ha innalzato la natura mortale dell’uomo. Egli ha posto così nel tempo un seme, potremmo dire un germe di eternità, per cui la meta di ogni uomo e della storia intera è situato ormai nella realtà ultraterrena.
Quei poemi che i poeti cristiani e la stessa Bibbia soltanto prefigurano in città felici della terra, Gerusalemme o Roma, è ora fuori della portata dei carri e delle navi oltre il tempo e lo spazio in una dimensione che ci sovrasta. Tale termine ultraterreno dà significato, come osservammo appunto qualche anno fa, ad ogni atto terreno; visto dall’altra sponda tutti gli uomini della terra vedono la loro vita all’indietro e dal luogo eterno dove sono ne comprendono il senso e ne misurano il valore. Nessun gesto, anche minimo, è perduto e tutto ciò che fu caro e buono resta per l’eternità dove il corpo stesso, il caduco per eccellenza, risplende nella gloria.
Ma qual è la forza che conduce l’uomo a questo suo fine? Su questo vorremmo oggi riflettere ispirandoci anche al tema proposto nel Meeting, sull’elemento traente che presiede a quel cammino e che di fatto governa tutto il poema dantesco.
C’è nell’uomo qualcosa, come un anelito, un sospiro che lo attrae verso quella meta e non si placa fino a che non l’ha raggiunta. Questo interno sospiro del cuore umano, questa aspirazione sempre desta ha nell’opera di Dante un nome che la definisce: questo nome è desiderio. Il desiderio come tensione verso ciò che attrae l’uomo per natura cioè il bene che è definito nel grande discorso sull’amore nel Purgatorio (canto XVIII): “così l'animo preso entra in disire ch’è moto spiritale, e mai non posa finché la cosa amata il fa gioire”. Questo disire è moto spiritale, moto spirituale quindi, tuttavia è già un movimento di per sé. Il desiderio è movimento. Ed è il movimento di cui vive l’universo per opera di quel Dio in cui Dante crede. E così lo definisce infatti: “Io credo in un Iddio solo ed eterno che tutto il cel move, non moto, con amore e con disio”. Questo movimento dell’universo tutto improntato da questo desiderio verso Dio è detto nel I canto del Paradiso che canta l’ordine del mondo e il fine posto ad ogni creatura.
Quell’ordine appunto che dicevamo in principio. Tutte quante le cose hanno ordine fra loro. C’è una regola, un qualcosa di fissato. Questo porta tutte le creature “per lo gran mar dell’essere”, come si esprime appunto Dante. Tuttavia è diverso il movimento della creatura della natura dalle creature dotate, come dice Dante, “di intelletto e d’amore”. In loro c’è una cosa diversa, diversa la meta, come abbiamo ora detto, diversa la coscienza che ne hanno. Diversa la libertà di perseguirla o meno. Quella libertà che fa la grandezza della natura umana.
Questo desiderio, o disio, è una forza che dominò tutta la vita di Dante. È lui, infatti, il protagonista di quel cammino, del cammino del desiderio che nel poema si compie, come sarà detto, negli ultimi versi, insomma nell’introduzione dell’ultimo canto “E io ch’al fin di tutt’i disii appropinquava, si com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii”.
C’è una pagina del Convivio abbastanza nota - sembra quasi scritto in contemporanea con quel I canto di quel cammino, appunto, iniziato sbagliato - dove si parla di questa situazione dell’uomo. “Il sommo desiderio di ciascuna cosa e prima della natura data è ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio delle nostre anime e fattore di quelle simili a sé, quando disse facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra, essa anima desidera massimamente tornare a quello. E si come peregrino che va per una via ed ogni casa crede che sia quella dove arrivare e poi si sbaglia e prosegue” e così c’è l’immagine dell’uomo che cammina per una strada, “così l’uomo cerca il suo bene”. Comincia da piccoli beni, come i bambini che desiderano un frutto, una caramella, e continua con desideri sempre più grandi. Qui Dante definisce quasi una piramide dei desideri dai piccoli ai grandi e crede sempre di trovarne uno più alto, sembra che l’uno stia dinanzi all’altro per modo quasi piramidale, il minimo li copre prima tutti ed è quasi punta dell’ultimo desiderabile che è Dio.
Questa ricerca dell’ultimo desiderabile è quella che poi conduce il poema, quella fine di tutti i disii. Sempre nel Convivio aggiunge: “veramente questo cammino si può perdere per errore come le strade della terra”, appunto come è accaduto a lui nell’inizio dell’Inferno. Quel finale, “io ch’al fin di tutt’i disii appropinquava, si com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii”, ci porta questa parola, ardore, che è caratteristica del desiderio dantesco e sempre molto facilmente si trova nel poema unito al desio, al desiderio. L’ardore, questo desiderio ardente dell’amore e di ogni altra cosa trascina l’uomo. Difatti lo ritroviamo nell’uomo che è nell’Inferno, nella controfigura di Dante stesso, cioè Ulisse. Vi ricordate certamente nella “dolcezza di figlio”, nella “pieta del vecchio padre, pel debito amor lo qual dovea Penelope far lieta, vincer potero dentro di me l’ardor ch’i ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”.
Questo ardore di conoscenza che affronta l’oceano, l’alto mare aperto, cioè l’infinito, figura dell’infinità divina, presumendo di raggiungere ciò che è proprio di Dio stesso con le sue sole forze, presunzione che perse Ulisse, è lo stesso che porterà alla nave di Dante, affidata ora alla guida divina sul mare del Paradiso: “l’acqua ch’io prendo giammai non si corse”. Però aggiunge: “Minerva ispira e conducimi Apollo”, c’è una conduzione divina. Le parole di questo inizio del II canto, con quest’ “acqua ch’io prendo…” somigliano in grande parte a quelle usate da Ulisse nel suo breve discorso. C’è questo desiderio, dunque, che arde nel cuore umano, e che lo porta verso la meta ultraterrena posta da Dio alla vita dell’uomo. Per questo niente di ciò che è terreno può saziarlo. Questo è un punto importante della Divina Commedia che, come sempre non si trova in un discorso teologico, ma nella concreta esperienza di una vita.
Questo è in genere il sistema, potremmo dire dantesco, che nei piccoli casi della vita umana nella sua concretezza, si scopre la grandezza, diciamo teologica, di queste idee che governano il mondo cristiano, che è poi il mondo dantesco. Ecco, qui si tratta del Papa Adriano V che si incontra nel Purgatorio nella cornice degli avari. Questo era un papa della nobile famiglia dei Fieschi che ebbe un pontificato brevissimo ovvero di poco più di un mese, alla fine del Duecento, quindi tempi ben noti a Dante; inserito tra gli avari, non per sete di denaro - di cui non c’è notizia nelle cronache né Dante ne parla - ma di potere come appare dalle sue parole. A Dante, infatti, che gli chiede chi fosse e perché fosse così punito, egli risponde con parole brevi ma profonde – dunque lui arriva al pontificato, come abbiamo detto e poi vi rimane per breve tempo – e arriva… “Vidi che lì non si quetava il core, né più salir poteasi in quella vita; onde di questa in me s’accese amore”. Come tutti i lettori hanno riconosciuto, ci sono dietro questi versi, le grandi parole delle Confessioni di Agostino “fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te”, traduco per chi non sapesse un po’ di latino, “tu ci facesti per te ed inquieto è il nostro cuore finché non riposi che in te”. L’uso dello stesso verbo, inquietum, è un sicuro rimando al testo, ben noto allora, del Vescovo di Ippona. C’è proprio un incontro, come molto spesso accade nel poema, fra Dante e Agostino, due dei più grandi spiriti dell’Occidente.
Qui interviene un altro tema anch’esso ben noto a tutta la tradizione cristiana: se il luogo dove l’uomo possa trovare riposo non si trova sulla terra, l’uomo su di essa è come ospite e pellegrino. L’uomo appartiene in realtà ad un altro mondo, discende dall’animo stesso, dal cuore stesso di Dio, al quale sospira di ritornare. È questo il grande motivo dell’esilio. Già definito del resto da san Paolo nella seconda Lettera ai Corinti: "dum sumus in corpore peregrinamur a Domino", “finché viviamo nel corpo siamo come esuli di fronte a Dio”. Come disse già Sapia, anche questa volta in una situazione concreta come accade per Adriano, come i più vivi degli incontri purgatoriali, ciascun uomo è cittadino della sola vera città, cioè del cielo. Nella patria terrena egli vive soltanto come pellegrino, cioè come esule, secondo un significato che il termine pellegrino aveva. A Dante, che le chiede se tra gli spiriti della cornice – qui siamo tra gli invidiosi, forse qualcuno ha letto questo episodio di Sapia – vi sia qualche latino, cioè qualche italiano come allora voleva dire latino, la donna senese con una fine correzione, che fa parte del suo carattere sottile e acuto, spiega: “O frate mio, ciascuna è cittadina d’una vera città ma tu vuoi dire che vivesse in Italia peregrina”. Cioè tu quando chiedi se c’è un italiano, non dici una cosa proprio esatta, tu vuoi intendere che vivesse in Italia pellegrino, cioè esule perché la sua vera città è una sola. Il viaggio della vita terrena è di fatto un ritorno, un ritorno alla casa, al luogo della propria origine dove il cuore può riposare.
Un’espressione di questo genere c’è nell’Inferno, più precisamente nell’incontro con Brunetto Latini, quando quest’ultimo gli chiede di questo che l’accompagna e lui risponde che gli è apparso nella valle dove si era smarrito “e reducemi a ca’ per questo calle”, mi riconduce a casa. Ecco, è la sola volta che viene detta questa espressione per Dante che torna a casa, quindi in questo suo lungo cammino. Ora, non è certo un caso che il doloroso destino dell’esule sia per l’appunto quello che fu dato a Dante nella storia. Per cui le due voci vengono a sovrapporsi nel poema con lo stesso struggente tono di rimpianto. Non si distinguono a volte l’una dall’altra. Non è un caso che il più grande testo dove si canta il dolente sentimento di chi è lontano dalla propria terra e dai propri cari porti, quasi nel titolo, la parola che definisce nel poema la condizione dell’uomo lontano dal cielo e cioè il disio. Più che desiderio, Dante usa l’accezione di disio nel poema che ha una altissima presenza fino all’ultimo appunto. Tutti ricordano l’attacco dell’VIII del Purgatorio: “era già l’ora che volge il disio ai naviganti e ’ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici, addio”. Ecco, in quel momento, in cui partono e si distaccano dalla propria terra ecco che si volge il loro desiderio, il loro disio verso quella patria. Il momento serale della tristezza, diciamo così, ma esprime il sentimento dell’uomo che è quello poi provato da Dante verso la sua cara Firenze e provato da tutti verso la patria del cielo.
La stessa parola è usata – faccio due o tre esempi tanto per capire un po’ il quadro – per definire la condizione degli abitanti del limbo i quali sono appunto in esilio dal cielo. Loro dicono infatti: “per tai difetti semo perduti e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in disio”. Ecco tornare la stessa parola, anche gli abitanti del limbo vivono in eterno disio della loro patria che non avranno mai; la stessa espressione è usata per Adamo che aspettò per lunghe migliaia di anni la venuta di Cristo; altra situazione di esilio e dice appunto: “per morder quella” – la famosa mela, appunto – “in pena e in disio cinquemilanni e più l’anima prima bramò colui che il morso che in sé punio”, cioè la venuta di Cristo che punì su se stesso quel morso.
La situazione dell’esule, come vedete, è espressa da questa parola fondamentale del disio. Su tutto il secondo regno del Purgatorio, è posto su questa condizione, perché è quella simile a quella della terra, cioè gli abitanti del purgatorio sono in qualche modo nella stessa situazione degli abitanti della terra; anche loro sospirano la liberazione, sono in movimento. È l’unica cantica dove gli abitanti non sono fissati per sempre nella loro condizione come l’inferno e il paradiso, dove non si cambia. Nel purgatorio camminano, progrediscono, devono arrivare fino alla liberazione.
Nel II canto del Purgatorio la nave che porta dei salvati risuona di un canto, tutti cantano dentro questa barca, che è appunto il salmo dell’esodo, in exitu Israhel de Aegypto, il salmo dell’esilio per eccellenza. Dante si ritrova quindi fra di loro proprio come uno di loro. Infatti, quando gli spiriti discesi sulla spiaggia si rivolgono a Virgilio a chiedere la strada, Virglio risponde così: “Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco, ma noi siamo peregrin come voi siete”. Noi siamo come voi, nella stessa condizione. E lo stesso, quando Dante dopo l’ultima notte passata nel purgatorio, si sveglia sulla montagna al mattino e vede le luci dell’alba, queste gli appaiono gradite come all’esule che vede prossima la patria: “E già per li splendori antelucani, che tanto a pellegrin surgon più grati, quanto, tornando albergan men lontani le tenebre fuggian da tutti i lati”. Vedete la situazione opposta dell’inizio del canto VIII: là è la sera, sono appena partiti, c’è questo disio pieno di uno struggente rimpianto, di melanconia; qua stiamo per arrivare, gli splendori dell’alba invece annunciano la terra vicina e danno gioia. Vedete questa doppia situazione inizio/fine di quello che è l’esilio.
Il rapporto fra i due destini d’esilio, quello terreno e quello celeste di Dante tocca il suo culmine nel canto XXV del Paradiso, canto poco letto – a parte che non si legge quasi più niente, non si sa più quali sono quelli letti – ma insomma diciamo nella tradizione poco letto, ma molto bello. È il canto dedicato alla virtù della speranza. Nel celebre attacco che ora ricorderemo, Dante esprime come mai altrove, il desiderio mai sopito nel cuore di poter ritornare nella sua città che crudelmente lo chiude fuori dalle sue mura. E comincia con un “semmai” che già ci fa capire che lui stesso sa che non potrà mai accadere: “Semmai continga che il poema sacro al quale ha posto mano e Cielo e Terra, sì che m’ha fatto per più anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra dal bell’ovile ov’io dormii agnello, nimico ai lupi”. Questo “semmai continga”, semmai possa accadere, già dice che ciò, lui lo sa bene, non accadrà mai. Ma ecco che al centro del canto, gli viene fatta la domanda sulla virtù teologale della speranza - non so se molti di voi sanno che ci sono tre domande, tre interrogazioni, sulla fede fatta da Pietro, sulla speranza fatta da Giacomo, sulla carità fatta da Giovanni, a cui il pellegrino deve rispondere prima di entrare - e gli viene chiesto quale sia l’oggetto specifico di questa virtù, che distingue le anime dei beati del paradiso. Dante risponde che essi appariranno nella loro patria rivestiti nel corpo ora sepolto nella terra. Lui dice così: “Dice Isaia, che ciascuna vestita ne la sua terra fia di doppia vesta e la sua terra è questa dolce vita”. Isaia parla degli ebrei, quindi di un rientro terreno, in patria, mentre Dante lo prende, come poi gli interpreti cristiani, come la patria vera e propria cioè il cielo. “Che ciascuna sarà rivestita di doppia vesta” che viene interpretato, sempre dagli interpreti cristiani, anima e corpo, che sono le due vesti che ricoprono l’uomo in patria. Ed ecco l’esulo è costretto a salire e scendere le sale dei potenti entrerà rivestito del suo corpo divenuto immortale nella sua vera terra, la città celeste, in quella vita dolce, questa dolce vita, dolce per sempre, che non conosce amarezze. Tuttavia già prima di morire, in questo viaggio raccontato, viaggio sognato, l’esule della storia farà l’esperienza dell’entrare nella patria, nella vera patria, quando entrerà fuori dal tempo nel cielo divino. Infatti finché Dante attraversa i cieli tolemaici rimane su un terreno abbastanza sicuro perché è comunque un terreno storico. Ma qui egli tentò una sfida - per un poeta la massima sfida quando entra nell’empireo - perché in questi quattro canti finali, dal XXX al XXXIII, egli vuole narrare cose di per sé non narrabili, come egli stesso dice nel primo canto: “nel ciel che più della sua luce prende”, cioè nel cielo dell’empireo, “fui io che vidi cose che ridire nè sa, nè può chi di lassù discende”. Ma egli racconterà qualcosa, quel poco che è rimasto nella sua mente, come l’impressione lasciata da un sogno.
Nell’ultimo canto c’è quella grandissima similitudine, “qual è colui che sognando vede, che dopo il sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede, cotal son io, che quasi tutta cessa mia visione, ed ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa”. Ecco, quello che gli è rimasto è questa impressione di chi si sveglia da un sogno. Ora, nel canto XXXI c’è già un primo saggio di questo conforto: è la gioia del pellegrino arrivato nel tempio del suo voto. Lui si paragona al pellegrino arrivato nella chiesa dove ha fatto voto di andare. Egli guarda con tutta pace, “passeggiando”, come dice, “attraverso la luce che si estende al centro della grande rosa dei beati”, dove vede i volti finalmente visibili di quei beati fin ad ora chiusi nelle loro fiamme. Già si vedono questi corpi, gli unici veri corpi del poema, gli altri sono fittizi come sapete. Questo disteso guardare segna l’arrivo dell’esule in patria dopo tante pene e fatiche; ma questa non è la fine del viaggio, e del poema. L’esperienza suprema dell’uomo è sempre fatta nell’intimo del cuore, l’uomo in questo non può essere che solo. Cor ad cor loquitor, è la bellissima insegna scelta dal cardinale Newman - che voi forse conoscete, comunque io non so se l’ha inventata o l’ha trovata da qualche parte, non sono riuscita a trovare la fonte, comunque me la ricordo spesso. Cor ad cor loquitor, il cuore parla al cuore. L’incontro è sempre fra due persone, il rapporto con Dio passa da persona a persona. Ora Dante, dopo la grande preghiera elevata da Bernardo a Maria, si ritrova solo nell’ultimo canto come solo era nella selva all’inizio del poema. Sparisce la rosa che si contemplava prima, non si vede più niente; è il momento in cui tocca il fine di tutti i disii. E porta al culmine quell’ardor di desiderio che ha consumato la sua vita.
Ma se l’esperienza della realtà divina non può essere che solitaria, ad essa segue, immediata, l’appassionata richiesta per gli altri, per le persone umane. “O somma luce, che tanto ti levi dai concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, una favilla sol della tua gloria, possa lasciare alla futura gente”. È ciò che di fatto egli ha compiuto, lasciando a noi, la “futura gente”, questo suo grande racconto.
Di ciò che vide in questo estremo incontro ci dà solo brevi e lampeggianti ricordi di tre grandi misteri, tutti raffigurati con rapidissime immagini: il primo è l’unità del molteplice nel creato, la figura del libro che era riconosciuta ai suoi tempi, legato con amore in un volume “ciò che nell’Universo si squaderna” - sono fogli tenuti insieme in un volume - così per la Trinità c’è la grande immagine dei tre cerchi uguali e distinti, un’immagine descrivibile a parole, ma non disegnabile, perché sono di “tre colori e una continenza”, e non si possono distinguere, in fondo, l’uno dall’altro. Ora, date queste due brevi pennellate, resta l’ultimo mistero, non rappresentabile né descrivibile: quello dove egli fissa lo sguardo affascinato. Egli scorge, infatti, nel secondo cerchio, cioè nel Figlio, quella che lui chiama la nostra effige: “mi parve pinta della nostra effige”, la nostra immagine umana, cioè il volto dell’uomo da Dante tanto amato e descritto in ogni suo minimo particolare. Egli ne conosce ogni moto e ogni sospiro, si potrebbe dire; dal lattante che si sveglia prima per fame, il piccolino che si sveglia e cerca il latte per la fame, all’epilettico riavuto, ai due amanti di Rimini, a Francesco innamorato della povertà. Dante fissa il mistero, ma non può intenderlo, finché un raggio divino non lo illumina; l’uomo è, dunque, in Dio, l’esule ha raggiunto la patria. Come dice la fine dell’epistola a Cangrande, “Invento principio, seu primo, videlicet Deo, nihil est quod ulterius quaeratur”: “trovato il principio, cioè Dio, non c’è altro che si possa cercare”. Finito. Lasciamo un po’ di posto a qualche eventuale domanda!
RONDONI: Sì, perché credo che la sottolineatura del tema del desìo e del suo rapporto con la speranza, siano due sottolineature importanti per comprendere meglio, non tanto di come si possa parlare di Dante, ma di come Dante parla di noi. Perché come già ho avuto occasione di dire in questi giorni l’interesse per un autore come Dante è, come abbiamo avuto occasione di ascoltare adesso, non perché parla di lui, ma perché parla di come siamo fatti. Come la professoressa ha appena spiegato, questo mettere come forza traente del viaggio il desìo, significa parlare della condizione in cui noi viviamo e da cui ci distraiamo, perché normalmente pensiamo che il carburante della vita possa essere altro. Per questo Dante continua ad essere un padre, un grande maestro. C’è tempo ancora un quarto d’ora e se c’è qualcuno di voi che vuole fare una domanda; lì c’è un microfono.
DOMANDA: Innanzitutto volevo ringraziare di questa lezione per la chiarezza e la profondità con cui lei ci ha introdotto in questo tema. Mi ha colpito molto soprattutto l’ultimo accenno a Dante come conoscitore dell’uomo, che conosce ogni sospiro, ogni moto. Che cosa lo rende così esperto conoscitore dell’uomo?
Volevo solo introdurre dicendo due cose: la prima è una cosa che mi è venuta in mente l’altro giorno la mattina presto, molto presto. Avevo la televisione accesa e c’era la pubblicità del Mulino Bianco, non so se l’avete mai vista, quella con le donne… avete presente? Insomma c’era questa pubblicità: “ah le donne!”, inizia così e c’è questo bambino piccolissimo, poi un po’ più grande e c’è un momento in cui dice: “Le donne all’inizio non ti guardano neanche, insomma quando sei piccolino non sai cosa sono”; poi c’è un momento, un po’ più grande, in cui dice: “Le donne non ti guardano” e si vedono queste bambine che parlano fra di loro in macchina, con un maschietto in mezzo, e non se lo filano; poi c’è un momento, ed è il momento della giovinezza in cui dice: “Le guarderesti sempre”, dice la pubblicità, e si vede il ragazzino che studia e la ragazzina che ha in mano la Divina Commedia. Ecco, la pubblicità dice a volte anche cose intelligenti, non solo strumentali, ed è vero che in qualche modo questo “le guarderesti sempre” è perché un uomo vorrebbe sempre guardare l’eterno nella storia; e la bellezza è uno di quei segni in cui qualche cosa di smisurato entra nella misura e non a caso la Divina Commedia è nata per una donna, per guardare sempre una donna. Perché questa è una esigenza che abbiamo tutti e anche la pubblicità se ne accorge.
La seconda cosa che non credo non si possa dire oggi, è che il fatto che la storia c’entri con l’eterno, che l’eterno entri nella storia e che la storia entri nell’eterno è esattamente il problema. È la questione alla quale ci troviamo di fronte quando vediamo, appunto, troncare ingiustamente la vita di qualcuno come è successo per il giornalista italiano, oppure, come molti di noi hanno nel cuore oggi, per la morte di malattia di un ragazzo giovane di Milano, un nostro amico di 21 anni. Ci sono dei momenti, dei punti inevitabili, come dice Eliot in I cori dalla rocca, in cui uno si chiede che cosa vuol dire che l’eterno entri nella storia.
Scusate per le citazioni che sembrano non avere nulla a che fare con Dante, ma Dante serve per capire meglio la vita. Come, per esempio, una notizia sul giornale di oggi di un uomo, Prandelli - conoscete l’allenatore della Roma? - che rinuncia appunto all’incarico di allenare la Roma - potete immaginare cosa significa rinunciare ad un incarico così, cioè l’apice della carriera - perché deve stare accanto alla moglie malata. Questi sono i momenti in cui capisci che l’eterno deve entrare nella storia, perché la storia abbia un sapore, perché la storia non sia solo una vaniloquio di vite e di parole che vanno via. La storia deve entrare nell’eterno e l’eterno deve entrare nella storia. In Dante noi sentiamo un maestro in questo sguardo, in questo problema e sentiamo nella professoressa Chiavacci una guida sicura nel leggerlo e nel capirlo. Per questo la ringrazio di essere ancora con noi e voglio con voi ascoltare le sue parole.
CHIAVACCI LEONARDI: Ringrazio l’amico Rondoni della presentazione e ringrazio voi dell’affluenza e del generoso applauso. Bisognerebbe aspettare la fine, tuttavia, per vedere se va bene.
Dunque, nella conversazione che si svolse qui al Meeting proprio qualche anno fa, ci fermammo a considerare un aspetto del poema di Dante su cui in genere non si parla, non si discute, ma in realtà lo caratterizza in modo rilevante. Il viaggio che esso racconta, viaggio della vita umana, come dice il suo primo verso, è un cammino non affidato al caso, ma diretto ad una meta stabilita.
La vita del singolo, come quella dell’umanità intera ha un inizio e un termine, termine predisposto di pace e felicità. E la strada scelta per questo cammino può dunque essere diritta o sbagliata. La “diritta via era smarrita”, già la prima terzina ci dice che la via può essere diritta o meno, quindi c’è un termine e un termine felice. Ora questa prima idea, che per noi è scontata, di un fine fissato alla vita e alla storia non è ritrovabile invece nelle culture e nelle religioni che appartengono all’oriente. Essa caratterizza in modo specifico l’epos occidentale, sia classico che biblico. Le altre culture vedono la fine della vita come qualcosa di incerto: o si va in forme di vita ciclica, continui ritorni, o si perde nel caos, non c’è questa sicurezza di una meta. Nell’epos occidentale, nei suoi due filoni sia classico che biblico, questo è evidente: ricordiamo brevemente qualcuno di questi grandi personaggi. Mosè, con ispirazione divina, fidando solo sulla parola divina conduce i suoi dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra dei padri.
Abramo, anche lui fidando sulla parola di Dio, lascia il suo paese, lascia la sua terra per una destinazione sconosciuta dove troverà prosperità e discendenza, l’abbondanza.
Non diversamente nell’epos classico, Enea lascia Troia in fiamme, fidando nella parola della dea madre per fondare in un luogo ignoto, sulle coste del Lazio, un regno di giustizia e di pace.
Infine ricordiamo Ulisse che, attraversando mille pericoli, perché sono percorsi sempre difficili, come è appunto la vita, torna alla propria casa, il luogo del riposo per eccellenza, configurando così, questa volta il viaggio, come un ritorno. Cosa che del resto accade anche agli ebrei che tornano nella terra dei padri, a Canaan.
Ora però questa terra di arrivo lontana promessa dagli dei e faticosamente raggiungibile è una evidente figura di un luogo di felicità anelato dopo i dolori e i tormenti della vita. Speranza che appare propria dei popoli mediterranei.
Dopo più di un millennio, la Divina Commedia porta in questo modello che pure esplicitamente segue, perché si ispira all’Eneide, una novità fondamentale. Il luogo d’arrivo non è più sulla terra, ma oltre il tempo e lo spazio, nell’eternità. Non più Gerusalemme né Roma, ma la dimora stessa di Dio. Tra quei poemi e questo, qualcosa è infatti accaduto. Qualcosa ha cambiato le sorti dell’umanità. Dio stesso è intervenuto nella storia, prendendo la carne umana, nascendo da una donna, morendo sulla terra e risorgendo nella gloria dove ha innalzato la natura mortale dell’uomo. Egli ha posto così nel tempo un seme, potremmo dire un germe di eternità, per cui la meta di ogni uomo e della storia intera è situato ormai nella realtà ultraterrena.
Quei poemi che i poeti cristiani e la stessa Bibbia soltanto prefigurano in città felici della terra, Gerusalemme o Roma, è ora fuori della portata dei carri e delle navi oltre il tempo e lo spazio in una dimensione che ci sovrasta. Tale termine ultraterreno dà significato, come osservammo appunto qualche anno fa, ad ogni atto terreno; visto dall’altra sponda tutti gli uomini della terra vedono la loro vita all’indietro e dal luogo eterno dove sono ne comprendono il senso e ne misurano il valore. Nessun gesto, anche minimo, è perduto e tutto ciò che fu caro e buono resta per l’eternità dove il corpo stesso, il caduco per eccellenza, risplende nella gloria.
Ma qual è la forza che conduce l’uomo a questo suo fine? Su questo vorremmo oggi riflettere ispirandoci anche al tema proposto nel Meeting, sull’elemento traente che presiede a quel cammino e che di fatto governa tutto il poema dantesco.
C’è nell’uomo qualcosa, come un anelito, un sospiro che lo attrae verso quella meta e non si placa fino a che non l’ha raggiunta. Questo interno sospiro del cuore umano, questa aspirazione sempre desta ha nell’opera di Dante un nome che la definisce: questo nome è desiderio. Il desiderio come tensione verso ciò che attrae l’uomo per natura cioè il bene che è definito nel grande discorso sull’amore nel Purgatorio (canto XVIII): “così l'animo preso entra in disire ch’è moto spiritale, e mai non posa finché la cosa amata il fa gioire”. Questo disire è moto spiritale, moto spirituale quindi, tuttavia è già un movimento di per sé. Il desiderio è movimento. Ed è il movimento di cui vive l’universo per opera di quel Dio in cui Dante crede. E così lo definisce infatti: “Io credo in un Iddio solo ed eterno che tutto il cel move, non moto, con amore e con disio”. Questo movimento dell’universo tutto improntato da questo desiderio verso Dio è detto nel I canto del Paradiso che canta l’ordine del mondo e il fine posto ad ogni creatura.
Quell’ordine appunto che dicevamo in principio. Tutte quante le cose hanno ordine fra loro. C’è una regola, un qualcosa di fissato. Questo porta tutte le creature “per lo gran mar dell’essere”, come si esprime appunto Dante. Tuttavia è diverso il movimento della creatura della natura dalle creature dotate, come dice Dante, “di intelletto e d’amore”. In loro c’è una cosa diversa, diversa la meta, come abbiamo ora detto, diversa la coscienza che ne hanno. Diversa la libertà di perseguirla o meno. Quella libertà che fa la grandezza della natura umana.
Questo desiderio, o disio, è una forza che dominò tutta la vita di Dante. È lui, infatti, il protagonista di quel cammino, del cammino del desiderio che nel poema si compie, come sarà detto, negli ultimi versi, insomma nell’introduzione dell’ultimo canto “E io ch’al fin di tutt’i disii appropinquava, si com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii”.
C’è una pagina del Convivio abbastanza nota - sembra quasi scritto in contemporanea con quel I canto di quel cammino, appunto, iniziato sbagliato - dove si parla di questa situazione dell’uomo. “Il sommo desiderio di ciascuna cosa e prima della natura data è ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio delle nostre anime e fattore di quelle simili a sé, quando disse facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra, essa anima desidera massimamente tornare a quello. E si come peregrino che va per una via ed ogni casa crede che sia quella dove arrivare e poi si sbaglia e prosegue” e così c’è l’immagine dell’uomo che cammina per una strada, “così l’uomo cerca il suo bene”. Comincia da piccoli beni, come i bambini che desiderano un frutto, una caramella, e continua con desideri sempre più grandi. Qui Dante definisce quasi una piramide dei desideri dai piccoli ai grandi e crede sempre di trovarne uno più alto, sembra che l’uno stia dinanzi all’altro per modo quasi piramidale, il minimo li copre prima tutti ed è quasi punta dell’ultimo desiderabile che è Dio.
Questa ricerca dell’ultimo desiderabile è quella che poi conduce il poema, quella fine di tutti i disii. Sempre nel Convivio aggiunge: “veramente questo cammino si può perdere per errore come le strade della terra”, appunto come è accaduto a lui nell’inizio dell’Inferno. Quel finale, “io ch’al fin di tutt’i disii appropinquava, si com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii”, ci porta questa parola, ardore, che è caratteristica del desiderio dantesco e sempre molto facilmente si trova nel poema unito al desio, al desiderio. L’ardore, questo desiderio ardente dell’amore e di ogni altra cosa trascina l’uomo. Difatti lo ritroviamo nell’uomo che è nell’Inferno, nella controfigura di Dante stesso, cioè Ulisse. Vi ricordate certamente nella “dolcezza di figlio”, nella “pieta del vecchio padre, pel debito amor lo qual dovea Penelope far lieta, vincer potero dentro di me l’ardor ch’i ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”.
Questo ardore di conoscenza che affronta l’oceano, l’alto mare aperto, cioè l’infinito, figura dell’infinità divina, presumendo di raggiungere ciò che è proprio di Dio stesso con le sue sole forze, presunzione che perse Ulisse, è lo stesso che porterà alla nave di Dante, affidata ora alla guida divina sul mare del Paradiso: “l’acqua ch’io prendo giammai non si corse”. Però aggiunge: “Minerva ispira e conducimi Apollo”, c’è una conduzione divina. Le parole di questo inizio del II canto, con quest’ “acqua ch’io prendo…” somigliano in grande parte a quelle usate da Ulisse nel suo breve discorso. C’è questo desiderio, dunque, che arde nel cuore umano, e che lo porta verso la meta ultraterrena posta da Dio alla vita dell’uomo. Per questo niente di ciò che è terreno può saziarlo. Questo è un punto importante della Divina Commedia che, come sempre non si trova in un discorso teologico, ma nella concreta esperienza di una vita.
Questo è in genere il sistema, potremmo dire dantesco, che nei piccoli casi della vita umana nella sua concretezza, si scopre la grandezza, diciamo teologica, di queste idee che governano il mondo cristiano, che è poi il mondo dantesco. Ecco, qui si tratta del Papa Adriano V che si incontra nel Purgatorio nella cornice degli avari. Questo era un papa della nobile famiglia dei Fieschi che ebbe un pontificato brevissimo ovvero di poco più di un mese, alla fine del Duecento, quindi tempi ben noti a Dante; inserito tra gli avari, non per sete di denaro - di cui non c’è notizia nelle cronache né Dante ne parla - ma di potere come appare dalle sue parole. A Dante, infatti, che gli chiede chi fosse e perché fosse così punito, egli risponde con parole brevi ma profonde – dunque lui arriva al pontificato, come abbiamo detto e poi vi rimane per breve tempo – e arriva… “Vidi che lì non si quetava il core, né più salir poteasi in quella vita; onde di questa in me s’accese amore”. Come tutti i lettori hanno riconosciuto, ci sono dietro questi versi, le grandi parole delle Confessioni di Agostino “fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te”, traduco per chi non sapesse un po’ di latino, “tu ci facesti per te ed inquieto è il nostro cuore finché non riposi che in te”. L’uso dello stesso verbo, inquietum, è un sicuro rimando al testo, ben noto allora, del Vescovo di Ippona. C’è proprio un incontro, come molto spesso accade nel poema, fra Dante e Agostino, due dei più grandi spiriti dell’Occidente.
Qui interviene un altro tema anch’esso ben noto a tutta la tradizione cristiana: se il luogo dove l’uomo possa trovare riposo non si trova sulla terra, l’uomo su di essa è come ospite e pellegrino. L’uomo appartiene in realtà ad un altro mondo, discende dall’animo stesso, dal cuore stesso di Dio, al quale sospira di ritornare. È questo il grande motivo dell’esilio. Già definito del resto da san Paolo nella seconda Lettera ai Corinti: "dum sumus in corpore peregrinamur a Domino", “finché viviamo nel corpo siamo come esuli di fronte a Dio”. Come disse già Sapia, anche questa volta in una situazione concreta come accade per Adriano, come i più vivi degli incontri purgatoriali, ciascun uomo è cittadino della sola vera città, cioè del cielo. Nella patria terrena egli vive soltanto come pellegrino, cioè come esule, secondo un significato che il termine pellegrino aveva. A Dante, che le chiede se tra gli spiriti della cornice – qui siamo tra gli invidiosi, forse qualcuno ha letto questo episodio di Sapia – vi sia qualche latino, cioè qualche italiano come allora voleva dire latino, la donna senese con una fine correzione, che fa parte del suo carattere sottile e acuto, spiega: “O frate mio, ciascuna è cittadina d’una vera città ma tu vuoi dire che vivesse in Italia peregrina”. Cioè tu quando chiedi se c’è un italiano, non dici una cosa proprio esatta, tu vuoi intendere che vivesse in Italia pellegrino, cioè esule perché la sua vera città è una sola. Il viaggio della vita terrena è di fatto un ritorno, un ritorno alla casa, al luogo della propria origine dove il cuore può riposare.
Un’espressione di questo genere c’è nell’Inferno, più precisamente nell’incontro con Brunetto Latini, quando quest’ultimo gli chiede di questo che l’accompagna e lui risponde che gli è apparso nella valle dove si era smarrito “e reducemi a ca’ per questo calle”, mi riconduce a casa. Ecco, è la sola volta che viene detta questa espressione per Dante che torna a casa, quindi in questo suo lungo cammino. Ora, non è certo un caso che il doloroso destino dell’esule sia per l’appunto quello che fu dato a Dante nella storia. Per cui le due voci vengono a sovrapporsi nel poema con lo stesso struggente tono di rimpianto. Non si distinguono a volte l’una dall’altra. Non è un caso che il più grande testo dove si canta il dolente sentimento di chi è lontano dalla propria terra e dai propri cari porti, quasi nel titolo, la parola che definisce nel poema la condizione dell’uomo lontano dal cielo e cioè il disio. Più che desiderio, Dante usa l’accezione di disio nel poema che ha una altissima presenza fino all’ultimo appunto. Tutti ricordano l’attacco dell’VIII del Purgatorio: “era già l’ora che volge il disio ai naviganti e ’ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici, addio”. Ecco, in quel momento, in cui partono e si distaccano dalla propria terra ecco che si volge il loro desiderio, il loro disio verso quella patria. Il momento serale della tristezza, diciamo così, ma esprime il sentimento dell’uomo che è quello poi provato da Dante verso la sua cara Firenze e provato da tutti verso la patria del cielo.
La stessa parola è usata – faccio due o tre esempi tanto per capire un po’ il quadro – per definire la condizione degli abitanti del limbo i quali sono appunto in esilio dal cielo. Loro dicono infatti: “per tai difetti semo perduti e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in disio”. Ecco tornare la stessa parola, anche gli abitanti del limbo vivono in eterno disio della loro patria che non avranno mai; la stessa espressione è usata per Adamo che aspettò per lunghe migliaia di anni la venuta di Cristo; altra situazione di esilio e dice appunto: “per morder quella” – la famosa mela, appunto – “in pena e in disio cinquemilanni e più l’anima prima bramò colui che il morso che in sé punio”, cioè la venuta di Cristo che punì su se stesso quel morso.
La situazione dell’esule, come vedete, è espressa da questa parola fondamentale del disio. Su tutto il secondo regno del Purgatorio, è posto su questa condizione, perché è quella simile a quella della terra, cioè gli abitanti del purgatorio sono in qualche modo nella stessa situazione degli abitanti della terra; anche loro sospirano la liberazione, sono in movimento. È l’unica cantica dove gli abitanti non sono fissati per sempre nella loro condizione come l’inferno e il paradiso, dove non si cambia. Nel purgatorio camminano, progrediscono, devono arrivare fino alla liberazione.
Nel II canto del Purgatorio la nave che porta dei salvati risuona di un canto, tutti cantano dentro questa barca, che è appunto il salmo dell’esodo, in exitu Israhel de Aegypto, il salmo dell’esilio per eccellenza. Dante si ritrova quindi fra di loro proprio come uno di loro. Infatti, quando gli spiriti discesi sulla spiaggia si rivolgono a Virgilio a chiedere la strada, Virglio risponde così: “Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco, ma noi siamo peregrin come voi siete”. Noi siamo come voi, nella stessa condizione. E lo stesso, quando Dante dopo l’ultima notte passata nel purgatorio, si sveglia sulla montagna al mattino e vede le luci dell’alba, queste gli appaiono gradite come all’esule che vede prossima la patria: “E già per li splendori antelucani, che tanto a pellegrin surgon più grati, quanto, tornando albergan men lontani le tenebre fuggian da tutti i lati”. Vedete la situazione opposta dell’inizio del canto VIII: là è la sera, sono appena partiti, c’è questo disio pieno di uno struggente rimpianto, di melanconia; qua stiamo per arrivare, gli splendori dell’alba invece annunciano la terra vicina e danno gioia. Vedete questa doppia situazione inizio/fine di quello che è l’esilio.
Il rapporto fra i due destini d’esilio, quello terreno e quello celeste di Dante tocca il suo culmine nel canto XXV del Paradiso, canto poco letto – a parte che non si legge quasi più niente, non si sa più quali sono quelli letti – ma insomma diciamo nella tradizione poco letto, ma molto bello. È il canto dedicato alla virtù della speranza. Nel celebre attacco che ora ricorderemo, Dante esprime come mai altrove, il desiderio mai sopito nel cuore di poter ritornare nella sua città che crudelmente lo chiude fuori dalle sue mura. E comincia con un “semmai” che già ci fa capire che lui stesso sa che non potrà mai accadere: “Semmai continga che il poema sacro al quale ha posto mano e Cielo e Terra, sì che m’ha fatto per più anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra dal bell’ovile ov’io dormii agnello, nimico ai lupi”. Questo “semmai continga”, semmai possa accadere, già dice che ciò, lui lo sa bene, non accadrà mai. Ma ecco che al centro del canto, gli viene fatta la domanda sulla virtù teologale della speranza - non so se molti di voi sanno che ci sono tre domande, tre interrogazioni, sulla fede fatta da Pietro, sulla speranza fatta da Giacomo, sulla carità fatta da Giovanni, a cui il pellegrino deve rispondere prima di entrare - e gli viene chiesto quale sia l’oggetto specifico di questa virtù, che distingue le anime dei beati del paradiso. Dante risponde che essi appariranno nella loro patria rivestiti nel corpo ora sepolto nella terra. Lui dice così: “Dice Isaia, che ciascuna vestita ne la sua terra fia di doppia vesta e la sua terra è questa dolce vita”. Isaia parla degli ebrei, quindi di un rientro terreno, in patria, mentre Dante lo prende, come poi gli interpreti cristiani, come la patria vera e propria cioè il cielo. “Che ciascuna sarà rivestita di doppia vesta” che viene interpretato, sempre dagli interpreti cristiani, anima e corpo, che sono le due vesti che ricoprono l’uomo in patria. Ed ecco l’esulo è costretto a salire e scendere le sale dei potenti entrerà rivestito del suo corpo divenuto immortale nella sua vera terra, la città celeste, in quella vita dolce, questa dolce vita, dolce per sempre, che non conosce amarezze. Tuttavia già prima di morire, in questo viaggio raccontato, viaggio sognato, l’esule della storia farà l’esperienza dell’entrare nella patria, nella vera patria, quando entrerà fuori dal tempo nel cielo divino. Infatti finché Dante attraversa i cieli tolemaici rimane su un terreno abbastanza sicuro perché è comunque un terreno storico. Ma qui egli tentò una sfida - per un poeta la massima sfida quando entra nell’empireo - perché in questi quattro canti finali, dal XXX al XXXIII, egli vuole narrare cose di per sé non narrabili, come egli stesso dice nel primo canto: “nel ciel che più della sua luce prende”, cioè nel cielo dell’empireo, “fui io che vidi cose che ridire nè sa, nè può chi di lassù discende”. Ma egli racconterà qualcosa, quel poco che è rimasto nella sua mente, come l’impressione lasciata da un sogno.
Nell’ultimo canto c’è quella grandissima similitudine, “qual è colui che sognando vede, che dopo il sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede, cotal son io, che quasi tutta cessa mia visione, ed ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa”. Ecco, quello che gli è rimasto è questa impressione di chi si sveglia da un sogno. Ora, nel canto XXXI c’è già un primo saggio di questo conforto: è la gioia del pellegrino arrivato nel tempio del suo voto. Lui si paragona al pellegrino arrivato nella chiesa dove ha fatto voto di andare. Egli guarda con tutta pace, “passeggiando”, come dice, “attraverso la luce che si estende al centro della grande rosa dei beati”, dove vede i volti finalmente visibili di quei beati fin ad ora chiusi nelle loro fiamme. Già si vedono questi corpi, gli unici veri corpi del poema, gli altri sono fittizi come sapete. Questo disteso guardare segna l’arrivo dell’esule in patria dopo tante pene e fatiche; ma questa non è la fine del viaggio, e del poema. L’esperienza suprema dell’uomo è sempre fatta nell’intimo del cuore, l’uomo in questo non può essere che solo. Cor ad cor loquitor, è la bellissima insegna scelta dal cardinale Newman - che voi forse conoscete, comunque io non so se l’ha inventata o l’ha trovata da qualche parte, non sono riuscita a trovare la fonte, comunque me la ricordo spesso. Cor ad cor loquitor, il cuore parla al cuore. L’incontro è sempre fra due persone, il rapporto con Dio passa da persona a persona. Ora Dante, dopo la grande preghiera elevata da Bernardo a Maria, si ritrova solo nell’ultimo canto come solo era nella selva all’inizio del poema. Sparisce la rosa che si contemplava prima, non si vede più niente; è il momento in cui tocca il fine di tutti i disii. E porta al culmine quell’ardor di desiderio che ha consumato la sua vita.
Ma se l’esperienza della realtà divina non può essere che solitaria, ad essa segue, immediata, l’appassionata richiesta per gli altri, per le persone umane. “O somma luce, che tanto ti levi dai concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, una favilla sol della tua gloria, possa lasciare alla futura gente”. È ciò che di fatto egli ha compiuto, lasciando a noi, la “futura gente”, questo suo grande racconto.
Di ciò che vide in questo estremo incontro ci dà solo brevi e lampeggianti ricordi di tre grandi misteri, tutti raffigurati con rapidissime immagini: il primo è l’unità del molteplice nel creato, la figura del libro che era riconosciuta ai suoi tempi, legato con amore in un volume “ciò che nell’Universo si squaderna” - sono fogli tenuti insieme in un volume - così per la Trinità c’è la grande immagine dei tre cerchi uguali e distinti, un’immagine descrivibile a parole, ma non disegnabile, perché sono di “tre colori e una continenza”, e non si possono distinguere, in fondo, l’uno dall’altro. Ora, date queste due brevi pennellate, resta l’ultimo mistero, non rappresentabile né descrivibile: quello dove egli fissa lo sguardo affascinato. Egli scorge, infatti, nel secondo cerchio, cioè nel Figlio, quella che lui chiama la nostra effige: “mi parve pinta della nostra effige”, la nostra immagine umana, cioè il volto dell’uomo da Dante tanto amato e descritto in ogni suo minimo particolare. Egli ne conosce ogni moto e ogni sospiro, si potrebbe dire; dal lattante che si sveglia prima per fame, il piccolino che si sveglia e cerca il latte per la fame, all’epilettico riavuto, ai due amanti di Rimini, a Francesco innamorato della povertà. Dante fissa il mistero, ma non può intenderlo, finché un raggio divino non lo illumina; l’uomo è, dunque, in Dio, l’esule ha raggiunto la patria. Come dice la fine dell’epistola a Cangrande, “Invento principio, seu primo, videlicet Deo, nihil est quod ulterius quaeratur”: “trovato il principio, cioè Dio, non c’è altro che si possa cercare”. Finito. Lasciamo un po’ di posto a qualche eventuale domanda!
RONDONI: Sì, perché credo che la sottolineatura del tema del desìo e del suo rapporto con la speranza, siano due sottolineature importanti per comprendere meglio, non tanto di come si possa parlare di Dante, ma di come Dante parla di noi. Perché come già ho avuto occasione di dire in questi giorni l’interesse per un autore come Dante è, come abbiamo avuto occasione di ascoltare adesso, non perché parla di lui, ma perché parla di come siamo fatti. Come la professoressa ha appena spiegato, questo mettere come forza traente del viaggio il desìo, significa parlare della condizione in cui noi viviamo e da cui ci distraiamo, perché normalmente pensiamo che il carburante della vita possa essere altro. Per questo Dante continua ad essere un padre, un grande maestro. C’è tempo ancora un quarto d’ora e se c’è qualcuno di voi che vuole fare una domanda; lì c’è un microfono.
DOMANDA: Innanzitutto volevo ringraziare di questa lezione per la chiarezza e la profondità con cui lei ci ha introdotto in questo tema. Mi ha colpito molto soprattutto l’ultimo accenno a Dante come conoscitore dell’uomo, che conosce ogni sospiro, ogni moto. Che cosa lo rende così esperto conoscitore dell’uomo?
CHIAVACCI LEONARDI: È una domanda da milioni e milioni, perché come facciamo a sapere che cosa lo rende così? Certamente il suo animo pieno di attenzione e di amore, perché ciò che fa conoscere è l’attenzione: se uno passa accanto a una persona dieci volte e non ne sa nulla, c’è chi passandole accanto una sola volta, la guarda con amore e la capisce. Però la risposta è generica, ma che dentro l’animo di Dante c’era questa amorosa attenzione per l’uomo, per l’essere umano, del resto il poema lo dimostra. Questa è l’unica risposta che si può dare.
DOMANDA: Volevo chiedere se per Dante già nel desiderio dell’uomo è già presente la grazia di Dio, se la grazia di Dio si manifesta anche nel desiderio dell’uomo.
CHIAVACCI LEONARDI: Certamente. In origine è presente nell’uomo un desiderio della natura senza bisogno della grazia. Occorre distinguere: già nella natura umana è posto questo, è nato con questo fine e c’è in lui il desiderio di tornare alla propria patria, come c’è in tutti. Tuttavia la grazia è importantissima, come noi sappiamo, per lo meno nei cristiani, in quanto la grazia viene sempre incontro, viene data sempre all’uomo, basta che ci sia un minimo, un briciolo di buona volontà. Nell’uomo che ha un minimo di disposizione scende la grazia e talvolta anche gratis, come sappiamo, anche se quello non la vuole, poi tocca a noi accettarla, naturalmente. Quindi credo che questo desìo può essere il semplice desiderio naturale, che può perdersi, può sbagliarsi, come dice lo stesso Convivio “cammino che si perde per errore” – uno crede che quello è il bene e invece non è – e va sempre un po’ vacillante, come la natura; poi c’è il soccorso della grazia, che deve, però, essere accettato. Questo poi è un mistero per ogni animo umano, non possiamo scendere fino in fondo.
DOMANDA: Io sono un appassionato lettore di Dante. Una cosa che mi colpisce personalmente è che di Dante normalmente è molto più conosciuto, anche a livello popolare, l’Inferno, un po’ meno, diciamo così, il Purgatorio, ma il Paradiso è semisconosciuto. Ora, Dante è apprezzato anche da molti laici, ma perché in Dante vedono l’esaltazione dell’uomo, però di quello che sta all’inferno, un uomo che ha rifiutato, in qualche modo, di alzare lo sguardo verso il cielo? Ho detto bene?
CHIAVACCI LEONARDI: Ma non si tratta soltanto di posizione “politica” diciamo, largamente, questo accantonare il Paradiso; questo accade un po’ a tutti, per la sua grande difficoltà, perché tutte le cose grandi, come dicevo anche ai miei scolari, richiedono fatica. Anche la grande musica di Bach, se viene ascoltata la prima volta, viene spesso rifiutata, perché si “stufa”. Ci vuole un allenamento, una fatica, uno sforzo per conquistare ciò che è veramente molto grande e così avviene per il Paradiso. Il Paradiso, a parte la sua connotazione squisitamente cristiana, ha, però, questa difficoltà intrinseca di lettura, di comprensione del testo stesso, per cui è stato quasi sempre penalizzato, non da tutti, ma quasi: sono pochissimi i grandi estimatori, i rivalutatori del Paradiso, così pochi che forse si contano sulle dita di una mano.
Perché l’immagine dell’Inferno attrae tutti? Perché tutti vi si riconoscono facilmente, siamo tutti un po’ come questi infernali; tuttavia, questa grande attrazione dipende anche dalla grande dignità che Dante ha voluto lasciare all’uomo infernale. È un uomo, infatti, non come si vede tante volte nelle rappresentazioni dell’iconografia antica, quasi bestia, travolto dai diavoli, che non hanno carattere, non hanno dignità. Dante ha lasciato la dignità umana, che del resto fa parte della persona; non si può togliere l’immagine dall’uomo, l’immagine di Dio. Quindi l’uomo infernale di Dante ha una sua dignità, che diminuisce sempre più verso la fine. Nonostante ciò quello che non viene afferrato normalmente, è che l’uomo stesso nella sua dignità riconosce la giustizia della sua pena: questo è in tutti i dannati danteschi, cosa singolare, che fa parte della loro dignità di uomini.
Naturalmente, l’uomo normale somiglia di più a quello infernale, o per meglio dire a quello purgatoriale che a quello del Paradiso e per questo è come più attratto. Ma niente ci vieta di approfondire la nostra stessa vita interiore, le nostre conoscenze e camminare piano piano verso la fine e afferrare e gustare questa, che è una delle più grandi pagine dell’umanità proprio perché parla di quella famosa meta posta all’uomo, quella dove soltanto l’uomo si sazia e difatti, come poesia, come testo poetico, certo, il Paradiso dà una sazietà che altri testi non si sognano nemmeno. Una risposta un po’ così, ma credo d’altra parte che non si possa fare molto di più.
Ho dimenticato di dire una cosa: c’è un po’ di mancanza da parte dei cristiani, di sostenere questo Paradiso, di spiegare, di far capire, di parlarne. Tacciono, in genere; o non sanno, o non vogliono; ma qui ci vuole qualcosa. Qualcosa si sta tentando - vero Davide? - comunque c’è una mancanza nella cultura cristiana, del resto piuttosto debole dappertutto. Perché non mettersi a studiare, appassionarsi al Paradiso, cercare di capirlo e farlo capire? Scusate questa aggiunta.
DOMANDA: Chiedo se Beatrice incarna, in un certo senso, la meta del viaggio dantesco.
CHIAVACCI LEONARDI: No, Beatrice di per sé non può incarnarlo, perché è una creatura. Beatrice è una via, è la controfigura di Maria, si potrebbe dire così. È la via che porta, chiama, attira con la sua bellezza, con la sua dolcezza – che sono caratteristiche della Madre di Dio – è la via che Dante segue. E questo appare chiarissimo alla fine del Paradiso quando Beatrice lo lascia, all’ultimo, alla rosa dei beati, va a sedere al suo posto e lui non la vede più vicino a sé. Quando è arrivato e lei, l’ultima guida lo lascia – Bernardo non è neppure una guida, introduce con la preghiera, ma ormai Dante è arrivato – lui allora le rivolge una preghiera: “O donna in cui la mia speranza vige, che soffristi per la mia salute in inferno a lasciar le tue vestige …” , si ritrova quasi con le stesse parole che poi verranno usate da san Bernardo per la preghiera alla Vergine, in molte delle espressioni, in modo da far intendere che Beatrice ha anticipato la figura di Maria stessa, che è la vera motrice della stessa salvezza di Dante. Beatrice scende nel limbo, è lei che si muove e viene a chiamare Virgilio. Ma Beatrice è mandata a sua volta e lo dice: “Donna gentil nel ciel che si compiange di questo impedimento, io ti mando”; si compiange a pietà. Da qui parte tutto il poema. Beatrice si muove mandata da colei che ha pietà. Questa donna pietosa è quella che chiude, che farà l’ultimo atto, perché sarà lei che, pregata da Bernardo, indirizza Dante alla vista suprema di Dio. Per rispondere brevemente: Beatrice colei che lo trascina, che serve per chiamare, portare e avviare sulla strada; questa è la sua funzione principale.
DOMANDA: Sono americano e la stimo molto. Ho letto molte sue cose e la ringrazio per quello che lei ha detto oggi. Volevo chiedere se c’è una differenza fra i due fini dell’uomo, la monarchia l’impero i due soli e come invece Dante vede l’uomo e il suo destino nella Commedia. In America si parla tanto del fatto che la chiesa ha un suo ruolo, cioè portare l’uomo in paradiso dopo la morte; invece, l’impero, lo stato, la politica, hanno un altro ruolo, quello di portare l’uomo in questo mondo, al paradiso terrestre. Volevo sapere che cosa ne pensa lei.
CHIAVACCI LEONARDI: Un argomento molto grosso su cui c’è stato molta discussione. Io modestamente penso che oltre la Monarchia stia la Commedia. Non sono lo stesso discorso. Lì c’è questa distinzione fra i due poteri: esiste la distinzione fra i due tipi di legislazione, e per fortuna che c’è distinzione. Questa, fatta da Gregorio VII, per cui in Occidente c’è questa separazione ben chiara, che non c’è in quasi nessun altra religione, dove una cosa è sempre unita all’altra. Però quello che è sbagliato anche dal punto di vista cristiano, è che la giurisdizione ecclesiastica pensi solo a portare anime in paradiso e non si preoccupino assolutamente di quello che fanno sulla terra. Questo è un errore dal punto di vista teologico: Dante, infatti, nel Paradiso ha oltrepassato quella distinzione.
Mentre alla fine della Monarchia c’è quel “quodammodo” che “in qualche modo l’uno è soggetto all’altro” - sembra quasi una piccola correzione che poi viene sviluppata più avanti nel suo pensiero - ma chiaramente dopo la cosa è cambiata. Segue quella che è la posizione di Tommaso e di tutta la tradizione teologica cristiana, fino ad oggi almeno, cioè che la chiesa non ha poteri di un esercito e di un regno direttamente sulla società civile; ma il suo compito è quello di guidare gli uomini non solo a pensare al paradiso, ma ad agire bene sulla terra, quindi in tutte le circostanze terrene in cui l’uomo si trova. Questo è un compito che le perviene, che Dio stesso ha affidato ai suoi; altrimenti avremmo questa chiesa “volante”, che non si occupa di quello che succede, ma sta solo a pregare nei chiostri, nei monasteri; che era il tentativo di fuga dal mondo fatto da tutti i movimenti monastici, che allora aveva le sue ragioni, ne avrebbe molte meno questa che piuttosto prende un carattere di chiamata personale di alcuni. Quindi la chiesa non deve fuggire nei monasteri, deve occuparsi del mondo, ma sempre con un occhio rivolto a Dio. Non so se sono stata abbastanza chiara, perché il problema è grosso, ma, insomma, qualcosa ho detto.
DOMANDA: Sono insegnante e lettore dilettante della Commedia. Se e quanto una fede personale aiuta un’intelligenza profonda della Commedia?
CHIAVACCI LEONARDI: Credo di sì, credo che sia sicuro che la fede è un aiuto. Per quanto uno possa spogliarsi dei propri convincimenti e mettersi davanti al testo con tutta verginità culturale, certamente parte svantaggiato, rispetto a chi parte già con quel tesoro di pensiero di idee sul mondo e sull’uomo che è proprio del cristiano. Certo, non sono molti quelli che oggi, oltre alla fede, possiedono quell’insieme di dottrina che regge la Commedia. Bisogna rendersi conto che c’è dietro un grande patrimonio teologico, da san Paolo, che Dante conosceva perfettamente, e si vede dalle continue citazioni, ad Agostino, Tommaso, Bonaventura… Sono tutti testi che lui ben conosceva, e che sostanziano tutto il poema, non solo il Paradiso, ma qualunque passo della vita umana. C’è questo grande corpus di pensiero sulla vita umana anche teologicamente svolto, che rende più facile la comprensione e la penetrazione del testo dantesco a chi già lo possiede. Questo non toglie che non si possa acquisire sul piano della cultura, ma non è la stessa cosa che viverlo, e forse per questo è più facile al commentatore che lo vive mettersi in sintonia con il verso di Dante. Singleton disse che bisognava rifarsi, reimmergersi in questa cultura, rifare questo animo cristiano. Di fatto lui è uno di quelli che più è riuscito a commentare e ad avvicinare la comprensione di questo mondo, ma quasi nessuno lo fa.
DOMANDA: La ringrazio molto perché mi commuove sempre quando la ascolto. Quello che lei ha descritto attraverso Dante è la dimensione, che per me sento molto vera, di essere pellegrina. È una dimensione che uno sente più sua; eppure, parlo per me, quando a uno capita di perdere le persone, il primo sentimento che vive dentro di sé è quello della perdita, non quello del pellegrino arrivato alla meta. Non so se è una domanda opportuna, però Dante - così come lei lo ha colto - come vive ed esprime questo sentimento della perdita?
CHIAVACCI LEONARDI: Ci sono pochissimi casi in cui quando qualcuno muore lo vedono veramente arrivato e ne godono, ma sono eccezioni. Questo non toglie che il sentimento umano non si possa togliere dal cuore, come Gesù stesso pianse quando morì Lazzaro. È un dolore che appartiene alla natura dell’uomo che non si può togliere. Questo cristiano va oltre la nostra natura, certamente. In molte persone di grande fede spesso affiora e riesce a vincere l’altro, ma che non si possa eliminare questo sentimento è una cosa evidente, fa parte di quella natura che non viene mai abolita; viene oltrepassata ma non abolita. Uno che non piangesse o non si rattristasse per la morte di un proprio caro sarebbe un po’ strano, ma ciò non toglie che l’altro sentimento possa convivere con il primo. Cioè la fede che vede la persona partita, arrivata nel luogo della gioia, della pace, della felicità, spesso accompagna il sentimento di perdita: i due aspetti della natura umana e della grazia divina che accompagnano e confortano il fedele. Alcuni riescono a sopportare con tanta serenità e calma dei dolori che per altri sono insopportabili; quella fede serve a lenire il dolore della natura. Credo che sarà capitato a tutti voi di conoscere questo doppio sentimento che addolcisce per quanto sia crudele per l’altro.
DOMANDA: Una domanda sulla figura di Maria. Perché la figura di Maria è molto cara al Dante pellegrino? Nella cantica del pellegrino, cioè nel Purgatorio, a ogni cornice c’è un esempio della Madonna; è come se Dante ad ogni passo guardasse la Madonna, e volevo capire perché è così importante.
CHIAVACCI LEONARDI: È una bella domanda, perché la risposta illumina ampiamente una zona della poesia dantesca non molto celebrata. Questo rapporto con Maria è altissimo, perché in tutta la Commedia – ho scritto un articoletto su questa cosa – Maria è una presenza molto discreta, non è così invadente. Nell’Inferno c’è quella prima terzina, ma è tanto discreta quanto potente, come si vede c’è un rapporto molto delicato, lei apre e chiude il poema, è lei che dà il movimento di salvezza: “Donna e gentil nel ciel che si compiange sicché duro giudicio lassù frange”, cioè con la sua pietà è capace di rompere il giudizio divino, cosa da non sottovalutare. Poi alla fine è lei che va a chiudere la storia dopo che San Bernardo la prega con un solo sguardo assente – perché non parla mai – dà con il suo sguardo dolce “li occhi da Dio diletti e venerati” – diletti come di sposa e venerati come di figlio, è stato giustamente commentato – “fissi ne l'orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati, indi l’eterno lume s'addrizzaro”. C’è questo movimento dello sguardo prima verso Bernardo, come ad accogliere la preghiera, poi si rialza verso Dio e crea questo passaggio, lei stessa quasi la strada aperta con lo sguardo; lei quindi apre e chiude. Nell’interno della Commedia c'è solo la grande sequenza purgatoriale che lei ricordava, per cui ad ogni balza il primo esempio della beatitudine che viene celebrata è preso da Maria. Questo indica, ancora una volta, la grande importanza di questa figura nella storia cristiana, nella storia del cristiano. Le beatitudini sono tutte vissute in maniera suprema nella figura di Maria, che per questo è la guida del Purgatorio. A lei bisogna guardare come dice san Bernardo. Non per niente Dante sceglie Bernardo per il finale, non tanto per i suoi scritti, ma per la sua grande devozione a Maria. Del resto Bernardo si presenta così: “Io sono la regina del cielo, ond’io ardo tutta d’amor ne farà ogni grazia. Però ch’io sono il suo fedel Bernardo”. Lui si definisce così, non come mistico, come politico, fondatore di grandi ordini, lui è il fedele Bernardo. Per questo la figura di Maria, pur così discretamente introdotta, è così potente nel poema. Questo lo è chiaramente nell’animo di Dante.
DOMANDA: Sono stata molto colpita dall’accenno sulla speranza e poi dalla sua osservazione: come anche la chiesa trascuri il bagaglio positivo del Paradiso. Volevo chiederle se l’approfondimento della speranza non può essere la strada per ritrovare tutto l’impegno responsabile di Dante nella vita e nel mondo e quindi per noi. L’accenno alla speranza che lei ha fatto, può essere una strada per rivivere tutto il messaggio di Dante nel Paradiso?
CHIAVACCI LEONARDIi: Non saprei rispondere. Secondo me può essere la speranza, come anche qualunque altro punto. La speranza è una strada maestra, ma ce ne sono altre. Non saprei proprio risponderle, mi dispiace.
DOMANDA: Ritorno per il secondo anno a sentire parole molto commuoventi ed emozionanti sulla Commedia. Devo dire che se sono qui oggi è per amor di Dante, che mi vince! Nella mia lettura scolastica e ora universitaria della Commedia mi ha sempre profondamente colpito la forte consapevolezza di Dante, del suo ruolo e della sua missione di poeta, come lei stessa citava nell’ultima cantica “fa’ la lingua mia tanto possente sì ch’io possa tramandare alla futura gente” tutto ciò che io ho di fronte a me. Ancora è consapevolezza che già si evince nel colloquio che già nell’Inferno Dante ha con Brunetto Latini, quando gli dice: “Tu sei colui che m’insegnasti in terra com’uom s’etterna” e in questo vediamo la fiducia e la fede in Dante, nella possibilità che la scrittura possa lasciare la memoria ed eternare l’uomo. D’altra parte, però, c’è un Dante più umile, quando vediamo nel Purgatorio, nella cornice dei superbi che dice che la fama non è altro che un “mondan romor, fiato di vento che or vien quinci, or vien quindi, muta nome come muta lato”. Questi due atteggiamenti come si possono conciliare? Da una parte orgoglio nella propria missione di poeta; dall’altra consapevolezza del limite umano.
CHIAVACCI LEONARDI: Non c’è contraddizione fra le due cose. Lei dice che lui ha consapevolezza altissima di questo compito, ed infatti lui si sente profeta, lo dice più volte. Era convinto, e difatti lo è, perché se c’è una voce che gira tutto il mondo portando la fede cristiana, è la Divina Commedia. Del resto lo dice papa Benedetto XV nella sua grande enciclica: il più grande araldo della fede cristiana nel mondo è Dante, che viene letto e tradotto dappertutto. Sapeva, si sentiva profeta, lo dice più volte; poi se fosse o non fosse, di questo si può discutere all’infinito, ma di fatto c’è una realtà dietro al suo pensiero. Ora, l’altro aspetto della superbia – superbia dell’intellettuale che sa che dovrà pagare e restare un bel pezzo in quella cornice – non è in contraddizione con questo primo punto; uno può essere superbo o umile nel compito che gli è affidato o di cui è cosciente; ma sono due cose diverse, non sono sullo stesso piano. Lui ha questa coscienza, che può essere vissuta umilmente; nello stesso tempo lui ha coscienza di essere un grande scrittore – cosa fra l’altro vera – ma che giunga alla superbia, è fatto questo del tutto personale, ma che non viene in contraddizione con l’altro. Può dominare o abbandonarsi a questo sentimento pericoloso, che, evidentemente ha già superato, perché se scrive la Divina Commedia…Non vedrei contraddizione così esplicita.
RONDONI: Due note per concludere questa ricchissima occasione che la professoressa ci ha regalato. Questa lettura della Commedia come viaggio, come qualcosa che si muove per il desìo, quindi questa lettura che Dante ci fa e ci fa fare della nostra vita. Il desìo, il desiderio non è una cosa automatica, non è come la corda dello ski-lift o della seggiovia comoda per salire. Non è una cosa che automaticamente conduce. C’è anche una saggezza popolare falsa, “siam qui provvisori” si direbbe in Lombardia, e allora si desidera andare da un’altra parte. Questo desiderio non è una cosa che insorge e può guidare l’uomo in modo automatico, tanto è vero – come è stato detto, meglio e più chiaramente – che Dante conduce questo viaggio continuamente andando con la memoria a ciò che rimette in moto questo desiderio, che lo fa concentrare sul desiderio di felicità, del suo principio. Il suo è un viaggio pericoloso, non è un viaggio automatico, non procede in maniera necessaria, ha continuamente bisogno di qualcuno – Virgilio, certe presenze, persone che gli parlano – che lo richiami a quello che veramente può muovere il viaggio, al desiderio di una felicità compiuta. Come ricordate, egli si ferma di fronte ad una barriera di fuoco, ma gli dicono: “guarda che là c’è il sorriso di Beatrice, e allora va, rischia, perché il desiderio non è automatico, non muove automaticamente”. Per questo, come è stato giustamente notato, Beatrice è il miracolo, cioè è la Madonna, il punto in cui l’incarnazione avviene: “sei, come donna, venuta dal cielo in terra a mostrare un miracolo. Sei un miracolo”. E guardando questo miracolo, facendone memoria che il desiderio si ridesta. Non si ridesta automaticamente solo perché siamo provvisori, solo perché sappiamo che qui non c’è qualcosa che ci compie, non basta questo. Occorre un miracolo che continuamente ridesti il desiderio come regola di un cammino. Petrarca, grande invidioso di Dante, nella sua preghiera dice: “la vera Beatrice è la Madonna”, polemizzando dice la verità. Per questo la memoria del miracolo è quello che muove il camminino e lo rende certo, e rende il desiderio non appena qualche cosa di confuso. Il desiderio che ti costituisce non è un feeling che c’è o non c’è, ma è la regola del cammino, e questo carburante del cammino è richiamato dalla memoria del miracolo. Questo è ciò che continuamente ci fa vedere Dante con la sua grande poesia, avendo rischiato in proprio questa questione e avendocela raccontata per nostra fortuna. Grazie e al prossimo appuntamento.
DOMANDA: Volevo chiedere se per Dante già nel desiderio dell’uomo è già presente la grazia di Dio, se la grazia di Dio si manifesta anche nel desiderio dell’uomo.
CHIAVACCI LEONARDI: Certamente. In origine è presente nell’uomo un desiderio della natura senza bisogno della grazia. Occorre distinguere: già nella natura umana è posto questo, è nato con questo fine e c’è in lui il desiderio di tornare alla propria patria, come c’è in tutti. Tuttavia la grazia è importantissima, come noi sappiamo, per lo meno nei cristiani, in quanto la grazia viene sempre incontro, viene data sempre all’uomo, basta che ci sia un minimo, un briciolo di buona volontà. Nell’uomo che ha un minimo di disposizione scende la grazia e talvolta anche gratis, come sappiamo, anche se quello non la vuole, poi tocca a noi accettarla, naturalmente. Quindi credo che questo desìo può essere il semplice desiderio naturale, che può perdersi, può sbagliarsi, come dice lo stesso Convivio “cammino che si perde per errore” – uno crede che quello è il bene e invece non è – e va sempre un po’ vacillante, come la natura; poi c’è il soccorso della grazia, che deve, però, essere accettato. Questo poi è un mistero per ogni animo umano, non possiamo scendere fino in fondo.
DOMANDA: Io sono un appassionato lettore di Dante. Una cosa che mi colpisce personalmente è che di Dante normalmente è molto più conosciuto, anche a livello popolare, l’Inferno, un po’ meno, diciamo così, il Purgatorio, ma il Paradiso è semisconosciuto. Ora, Dante è apprezzato anche da molti laici, ma perché in Dante vedono l’esaltazione dell’uomo, però di quello che sta all’inferno, un uomo che ha rifiutato, in qualche modo, di alzare lo sguardo verso il cielo? Ho detto bene?
CHIAVACCI LEONARDI: Ma non si tratta soltanto di posizione “politica” diciamo, largamente, questo accantonare il Paradiso; questo accade un po’ a tutti, per la sua grande difficoltà, perché tutte le cose grandi, come dicevo anche ai miei scolari, richiedono fatica. Anche la grande musica di Bach, se viene ascoltata la prima volta, viene spesso rifiutata, perché si “stufa”. Ci vuole un allenamento, una fatica, uno sforzo per conquistare ciò che è veramente molto grande e così avviene per il Paradiso. Il Paradiso, a parte la sua connotazione squisitamente cristiana, ha, però, questa difficoltà intrinseca di lettura, di comprensione del testo stesso, per cui è stato quasi sempre penalizzato, non da tutti, ma quasi: sono pochissimi i grandi estimatori, i rivalutatori del Paradiso, così pochi che forse si contano sulle dita di una mano.
Perché l’immagine dell’Inferno attrae tutti? Perché tutti vi si riconoscono facilmente, siamo tutti un po’ come questi infernali; tuttavia, questa grande attrazione dipende anche dalla grande dignità che Dante ha voluto lasciare all’uomo infernale. È un uomo, infatti, non come si vede tante volte nelle rappresentazioni dell’iconografia antica, quasi bestia, travolto dai diavoli, che non hanno carattere, non hanno dignità. Dante ha lasciato la dignità umana, che del resto fa parte della persona; non si può togliere l’immagine dall’uomo, l’immagine di Dio. Quindi l’uomo infernale di Dante ha una sua dignità, che diminuisce sempre più verso la fine. Nonostante ciò quello che non viene afferrato normalmente, è che l’uomo stesso nella sua dignità riconosce la giustizia della sua pena: questo è in tutti i dannati danteschi, cosa singolare, che fa parte della loro dignità di uomini.
Naturalmente, l’uomo normale somiglia di più a quello infernale, o per meglio dire a quello purgatoriale che a quello del Paradiso e per questo è come più attratto. Ma niente ci vieta di approfondire la nostra stessa vita interiore, le nostre conoscenze e camminare piano piano verso la fine e afferrare e gustare questa, che è una delle più grandi pagine dell’umanità proprio perché parla di quella famosa meta posta all’uomo, quella dove soltanto l’uomo si sazia e difatti, come poesia, come testo poetico, certo, il Paradiso dà una sazietà che altri testi non si sognano nemmeno. Una risposta un po’ così, ma credo d’altra parte che non si possa fare molto di più.
Ho dimenticato di dire una cosa: c’è un po’ di mancanza da parte dei cristiani, di sostenere questo Paradiso, di spiegare, di far capire, di parlarne. Tacciono, in genere; o non sanno, o non vogliono; ma qui ci vuole qualcosa. Qualcosa si sta tentando - vero Davide? - comunque c’è una mancanza nella cultura cristiana, del resto piuttosto debole dappertutto. Perché non mettersi a studiare, appassionarsi al Paradiso, cercare di capirlo e farlo capire? Scusate questa aggiunta.
DOMANDA: Chiedo se Beatrice incarna, in un certo senso, la meta del viaggio dantesco.
CHIAVACCI LEONARDI: No, Beatrice di per sé non può incarnarlo, perché è una creatura. Beatrice è una via, è la controfigura di Maria, si potrebbe dire così. È la via che porta, chiama, attira con la sua bellezza, con la sua dolcezza – che sono caratteristiche della Madre di Dio – è la via che Dante segue. E questo appare chiarissimo alla fine del Paradiso quando Beatrice lo lascia, all’ultimo, alla rosa dei beati, va a sedere al suo posto e lui non la vede più vicino a sé. Quando è arrivato e lei, l’ultima guida lo lascia – Bernardo non è neppure una guida, introduce con la preghiera, ma ormai Dante è arrivato – lui allora le rivolge una preghiera: “O donna in cui la mia speranza vige, che soffristi per la mia salute in inferno a lasciar le tue vestige …” , si ritrova quasi con le stesse parole che poi verranno usate da san Bernardo per la preghiera alla Vergine, in molte delle espressioni, in modo da far intendere che Beatrice ha anticipato la figura di Maria stessa, che è la vera motrice della stessa salvezza di Dante. Beatrice scende nel limbo, è lei che si muove e viene a chiamare Virgilio. Ma Beatrice è mandata a sua volta e lo dice: “Donna gentil nel ciel che si compiange di questo impedimento, io ti mando”; si compiange a pietà. Da qui parte tutto il poema. Beatrice si muove mandata da colei che ha pietà. Questa donna pietosa è quella che chiude, che farà l’ultimo atto, perché sarà lei che, pregata da Bernardo, indirizza Dante alla vista suprema di Dio. Per rispondere brevemente: Beatrice colei che lo trascina, che serve per chiamare, portare e avviare sulla strada; questa è la sua funzione principale.
DOMANDA: Sono americano e la stimo molto. Ho letto molte sue cose e la ringrazio per quello che lei ha detto oggi. Volevo chiedere se c’è una differenza fra i due fini dell’uomo, la monarchia l’impero i due soli e come invece Dante vede l’uomo e il suo destino nella Commedia. In America si parla tanto del fatto che la chiesa ha un suo ruolo, cioè portare l’uomo in paradiso dopo la morte; invece, l’impero, lo stato, la politica, hanno un altro ruolo, quello di portare l’uomo in questo mondo, al paradiso terrestre. Volevo sapere che cosa ne pensa lei.
CHIAVACCI LEONARDI: Un argomento molto grosso su cui c’è stato molta discussione. Io modestamente penso che oltre la Monarchia stia la Commedia. Non sono lo stesso discorso. Lì c’è questa distinzione fra i due poteri: esiste la distinzione fra i due tipi di legislazione, e per fortuna che c’è distinzione. Questa, fatta da Gregorio VII, per cui in Occidente c’è questa separazione ben chiara, che non c’è in quasi nessun altra religione, dove una cosa è sempre unita all’altra. Però quello che è sbagliato anche dal punto di vista cristiano, è che la giurisdizione ecclesiastica pensi solo a portare anime in paradiso e non si preoccupino assolutamente di quello che fanno sulla terra. Questo è un errore dal punto di vista teologico: Dante, infatti, nel Paradiso ha oltrepassato quella distinzione.
Mentre alla fine della Monarchia c’è quel “quodammodo” che “in qualche modo l’uno è soggetto all’altro” - sembra quasi una piccola correzione che poi viene sviluppata più avanti nel suo pensiero - ma chiaramente dopo la cosa è cambiata. Segue quella che è la posizione di Tommaso e di tutta la tradizione teologica cristiana, fino ad oggi almeno, cioè che la chiesa non ha poteri di un esercito e di un regno direttamente sulla società civile; ma il suo compito è quello di guidare gli uomini non solo a pensare al paradiso, ma ad agire bene sulla terra, quindi in tutte le circostanze terrene in cui l’uomo si trova. Questo è un compito che le perviene, che Dio stesso ha affidato ai suoi; altrimenti avremmo questa chiesa “volante”, che non si occupa di quello che succede, ma sta solo a pregare nei chiostri, nei monasteri; che era il tentativo di fuga dal mondo fatto da tutti i movimenti monastici, che allora aveva le sue ragioni, ne avrebbe molte meno questa che piuttosto prende un carattere di chiamata personale di alcuni. Quindi la chiesa non deve fuggire nei monasteri, deve occuparsi del mondo, ma sempre con un occhio rivolto a Dio. Non so se sono stata abbastanza chiara, perché il problema è grosso, ma, insomma, qualcosa ho detto.
DOMANDA: Sono insegnante e lettore dilettante della Commedia. Se e quanto una fede personale aiuta un’intelligenza profonda della Commedia?
CHIAVACCI LEONARDI: Credo di sì, credo che sia sicuro che la fede è un aiuto. Per quanto uno possa spogliarsi dei propri convincimenti e mettersi davanti al testo con tutta verginità culturale, certamente parte svantaggiato, rispetto a chi parte già con quel tesoro di pensiero di idee sul mondo e sull’uomo che è proprio del cristiano. Certo, non sono molti quelli che oggi, oltre alla fede, possiedono quell’insieme di dottrina che regge la Commedia. Bisogna rendersi conto che c’è dietro un grande patrimonio teologico, da san Paolo, che Dante conosceva perfettamente, e si vede dalle continue citazioni, ad Agostino, Tommaso, Bonaventura… Sono tutti testi che lui ben conosceva, e che sostanziano tutto il poema, non solo il Paradiso, ma qualunque passo della vita umana. C’è questo grande corpus di pensiero sulla vita umana anche teologicamente svolto, che rende più facile la comprensione e la penetrazione del testo dantesco a chi già lo possiede. Questo non toglie che non si possa acquisire sul piano della cultura, ma non è la stessa cosa che viverlo, e forse per questo è più facile al commentatore che lo vive mettersi in sintonia con il verso di Dante. Singleton disse che bisognava rifarsi, reimmergersi in questa cultura, rifare questo animo cristiano. Di fatto lui è uno di quelli che più è riuscito a commentare e ad avvicinare la comprensione di questo mondo, ma quasi nessuno lo fa.
DOMANDA: La ringrazio molto perché mi commuove sempre quando la ascolto. Quello che lei ha descritto attraverso Dante è la dimensione, che per me sento molto vera, di essere pellegrina. È una dimensione che uno sente più sua; eppure, parlo per me, quando a uno capita di perdere le persone, il primo sentimento che vive dentro di sé è quello della perdita, non quello del pellegrino arrivato alla meta. Non so se è una domanda opportuna, però Dante - così come lei lo ha colto - come vive ed esprime questo sentimento della perdita?
CHIAVACCI LEONARDI: Ci sono pochissimi casi in cui quando qualcuno muore lo vedono veramente arrivato e ne godono, ma sono eccezioni. Questo non toglie che il sentimento umano non si possa togliere dal cuore, come Gesù stesso pianse quando morì Lazzaro. È un dolore che appartiene alla natura dell’uomo che non si può togliere. Questo cristiano va oltre la nostra natura, certamente. In molte persone di grande fede spesso affiora e riesce a vincere l’altro, ma che non si possa eliminare questo sentimento è una cosa evidente, fa parte di quella natura che non viene mai abolita; viene oltrepassata ma non abolita. Uno che non piangesse o non si rattristasse per la morte di un proprio caro sarebbe un po’ strano, ma ciò non toglie che l’altro sentimento possa convivere con il primo. Cioè la fede che vede la persona partita, arrivata nel luogo della gioia, della pace, della felicità, spesso accompagna il sentimento di perdita: i due aspetti della natura umana e della grazia divina che accompagnano e confortano il fedele. Alcuni riescono a sopportare con tanta serenità e calma dei dolori che per altri sono insopportabili; quella fede serve a lenire il dolore della natura. Credo che sarà capitato a tutti voi di conoscere questo doppio sentimento che addolcisce per quanto sia crudele per l’altro.
DOMANDA: Una domanda sulla figura di Maria. Perché la figura di Maria è molto cara al Dante pellegrino? Nella cantica del pellegrino, cioè nel Purgatorio, a ogni cornice c’è un esempio della Madonna; è come se Dante ad ogni passo guardasse la Madonna, e volevo capire perché è così importante.
CHIAVACCI LEONARDI: È una bella domanda, perché la risposta illumina ampiamente una zona della poesia dantesca non molto celebrata. Questo rapporto con Maria è altissimo, perché in tutta la Commedia – ho scritto un articoletto su questa cosa – Maria è una presenza molto discreta, non è così invadente. Nell’Inferno c’è quella prima terzina, ma è tanto discreta quanto potente, come si vede c’è un rapporto molto delicato, lei apre e chiude il poema, è lei che dà il movimento di salvezza: “Donna e gentil nel ciel che si compiange sicché duro giudicio lassù frange”, cioè con la sua pietà è capace di rompere il giudizio divino, cosa da non sottovalutare. Poi alla fine è lei che va a chiudere la storia dopo che San Bernardo la prega con un solo sguardo assente – perché non parla mai – dà con il suo sguardo dolce “li occhi da Dio diletti e venerati” – diletti come di sposa e venerati come di figlio, è stato giustamente commentato – “fissi ne l'orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati, indi l’eterno lume s'addrizzaro”. C’è questo movimento dello sguardo prima verso Bernardo, come ad accogliere la preghiera, poi si rialza verso Dio e crea questo passaggio, lei stessa quasi la strada aperta con lo sguardo; lei quindi apre e chiude. Nell’interno della Commedia c'è solo la grande sequenza purgatoriale che lei ricordava, per cui ad ogni balza il primo esempio della beatitudine che viene celebrata è preso da Maria. Questo indica, ancora una volta, la grande importanza di questa figura nella storia cristiana, nella storia del cristiano. Le beatitudini sono tutte vissute in maniera suprema nella figura di Maria, che per questo è la guida del Purgatorio. A lei bisogna guardare come dice san Bernardo. Non per niente Dante sceglie Bernardo per il finale, non tanto per i suoi scritti, ma per la sua grande devozione a Maria. Del resto Bernardo si presenta così: “Io sono la regina del cielo, ond’io ardo tutta d’amor ne farà ogni grazia. Però ch’io sono il suo fedel Bernardo”. Lui si definisce così, non come mistico, come politico, fondatore di grandi ordini, lui è il fedele Bernardo. Per questo la figura di Maria, pur così discretamente introdotta, è così potente nel poema. Questo lo è chiaramente nell’animo di Dante.
DOMANDA: Sono stata molto colpita dall’accenno sulla speranza e poi dalla sua osservazione: come anche la chiesa trascuri il bagaglio positivo del Paradiso. Volevo chiederle se l’approfondimento della speranza non può essere la strada per ritrovare tutto l’impegno responsabile di Dante nella vita e nel mondo e quindi per noi. L’accenno alla speranza che lei ha fatto, può essere una strada per rivivere tutto il messaggio di Dante nel Paradiso?
CHIAVACCI LEONARDIi: Non saprei rispondere. Secondo me può essere la speranza, come anche qualunque altro punto. La speranza è una strada maestra, ma ce ne sono altre. Non saprei proprio risponderle, mi dispiace.
DOMANDA: Ritorno per il secondo anno a sentire parole molto commuoventi ed emozionanti sulla Commedia. Devo dire che se sono qui oggi è per amor di Dante, che mi vince! Nella mia lettura scolastica e ora universitaria della Commedia mi ha sempre profondamente colpito la forte consapevolezza di Dante, del suo ruolo e della sua missione di poeta, come lei stessa citava nell’ultima cantica “fa’ la lingua mia tanto possente sì ch’io possa tramandare alla futura gente” tutto ciò che io ho di fronte a me. Ancora è consapevolezza che già si evince nel colloquio che già nell’Inferno Dante ha con Brunetto Latini, quando gli dice: “Tu sei colui che m’insegnasti in terra com’uom s’etterna” e in questo vediamo la fiducia e la fede in Dante, nella possibilità che la scrittura possa lasciare la memoria ed eternare l’uomo. D’altra parte, però, c’è un Dante più umile, quando vediamo nel Purgatorio, nella cornice dei superbi che dice che la fama non è altro che un “mondan romor, fiato di vento che or vien quinci, or vien quindi, muta nome come muta lato”. Questi due atteggiamenti come si possono conciliare? Da una parte orgoglio nella propria missione di poeta; dall’altra consapevolezza del limite umano.
CHIAVACCI LEONARDI: Non c’è contraddizione fra le due cose. Lei dice che lui ha consapevolezza altissima di questo compito, ed infatti lui si sente profeta, lo dice più volte. Era convinto, e difatti lo è, perché se c’è una voce che gira tutto il mondo portando la fede cristiana, è la Divina Commedia. Del resto lo dice papa Benedetto XV nella sua grande enciclica: il più grande araldo della fede cristiana nel mondo è Dante, che viene letto e tradotto dappertutto. Sapeva, si sentiva profeta, lo dice più volte; poi se fosse o non fosse, di questo si può discutere all’infinito, ma di fatto c’è una realtà dietro al suo pensiero. Ora, l’altro aspetto della superbia – superbia dell’intellettuale che sa che dovrà pagare e restare un bel pezzo in quella cornice – non è in contraddizione con questo primo punto; uno può essere superbo o umile nel compito che gli è affidato o di cui è cosciente; ma sono due cose diverse, non sono sullo stesso piano. Lui ha questa coscienza, che può essere vissuta umilmente; nello stesso tempo lui ha coscienza di essere un grande scrittore – cosa fra l’altro vera – ma che giunga alla superbia, è fatto questo del tutto personale, ma che non viene in contraddizione con l’altro. Può dominare o abbandonarsi a questo sentimento pericoloso, che, evidentemente ha già superato, perché se scrive la Divina Commedia…Non vedrei contraddizione così esplicita.
RONDONI: Due note per concludere questa ricchissima occasione che la professoressa ci ha regalato. Questa lettura della Commedia come viaggio, come qualcosa che si muove per il desìo, quindi questa lettura che Dante ci fa e ci fa fare della nostra vita. Il desìo, il desiderio non è una cosa automatica, non è come la corda dello ski-lift o della seggiovia comoda per salire. Non è una cosa che automaticamente conduce. C’è anche una saggezza popolare falsa, “siam qui provvisori” si direbbe in Lombardia, e allora si desidera andare da un’altra parte. Questo desiderio non è una cosa che insorge e può guidare l’uomo in modo automatico, tanto è vero – come è stato detto, meglio e più chiaramente – che Dante conduce questo viaggio continuamente andando con la memoria a ciò che rimette in moto questo desiderio, che lo fa concentrare sul desiderio di felicità, del suo principio. Il suo è un viaggio pericoloso, non è un viaggio automatico, non procede in maniera necessaria, ha continuamente bisogno di qualcuno – Virgilio, certe presenze, persone che gli parlano – che lo richiami a quello che veramente può muovere il viaggio, al desiderio di una felicità compiuta. Come ricordate, egli si ferma di fronte ad una barriera di fuoco, ma gli dicono: “guarda che là c’è il sorriso di Beatrice, e allora va, rischia, perché il desiderio non è automatico, non muove automaticamente”. Per questo, come è stato giustamente notato, Beatrice è il miracolo, cioè è la Madonna, il punto in cui l’incarnazione avviene: “sei, come donna, venuta dal cielo in terra a mostrare un miracolo. Sei un miracolo”. E guardando questo miracolo, facendone memoria che il desiderio si ridesta. Non si ridesta automaticamente solo perché siamo provvisori, solo perché sappiamo che qui non c’è qualcosa che ci compie, non basta questo. Occorre un miracolo che continuamente ridesti il desiderio come regola di un cammino. Petrarca, grande invidioso di Dante, nella sua preghiera dice: “la vera Beatrice è la Madonna”, polemizzando dice la verità. Per questo la memoria del miracolo è quello che muove il camminino e lo rende certo, e rende il desiderio non appena qualche cosa di confuso. Il desiderio che ti costituisce non è un feeling che c’è o non c’è, ma è la regola del cammino, e questo carburante del cammino è richiamato dalla memoria del miracolo. Questo è ciò che continuamente ci fa vedere Dante con la sua grande poesia, avendo rischiato in proprio questa questione e avendocela raccontata per nostra fortuna. Grazie e al prossimo appuntamento.
*ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI è nata a Camerino il 22 settembre 1927. Ha insegnato filologia e critica dantesca all'Università degli Studi di Siena. Oltre a una moltitudine di saggi su Dante e sulla poesia contemporanea, a lei si deve il commento alla Commedia apparso ne "I Meridiani" della Mondadori (1991-1994) che ha meritato il Premio Antonio Feltrinelli dell'Accademia Nazionale dei Lincei per la Critica letteraria (nel 2000) e che ha riscosso successo nei licei. Membro della Società Dantesca Italiana e socio onorario della Dante Society of America, nel 2003 ha fatto nascere e quindi coordinato l'attività della Sezione Studi e Ricerca del Centro Dantesco di Ravenna dei Frati Minori Conventuali. Nel 2007 il Comune di Firenze le ha assegnato la medaglia d'oro per le celebrazioni del 742° anniversario della nascita di Dante Alighieri. È morta a Firenze il 7 aprile 2014.