lunedì 4 novembre 2019

Medaglia di Antonio Fabris del 1831 commemorativa del cenotafio di Dante in Santa Croce di Firenze



[D] DANTES ALIGHERIVS nel giro a sx e dx; busto laureato di Dante a sx; in basso lungo il bordo A. FABRIS VTIN.SCVLP. 
[R] Cenotafio di Dante nella basilica di Santa Croce di Firenze; sulla tomba ONORATE L'ALTISSIMO POETA; sulla base: DANTE ALIGHERIO TUSCI HONORARIUM TUMULUM A MAJORIBUS TER FRUSTA DECRETUMA ANNO MDCCCXXIX; in esergo FLORENTIAE / A.MDCCCXXXI.

Medaglia in argento (ø 55,2 mm, gr. 85) opera di Antonio Fabris (Udine, 1790-Venezia, 1865), fu coniata nel 1831 dalla zecca di Milano per commemorare il cenotafio di Dante del 1829 eretto nella basilica fiorentina di Santa Croce.

Riferimenti: pagina di numismatica-italiana.lamoneta.it; pagina di www.anca-aste.it (da cui è presa l'immagine qui pubblicata)

domenica 3 novembre 2019

Il busto di Dante opera di Giacchino Doppieri al Pincio di Roma


Il busto di Dante collocato nel Viale del Bambini della Passeggiata del Pincio di Roma, poco lontano dall'orologio ad acqua, è opera di Gioacchino Doppieri realizzata tra il 1849 e il 1850. Fa parte di una serie di oltre duecento busti relativi a illustri italiani di tutti i tempi, commissionati dalla Repubblica Romana sia per sostenere gli artisti romani dopo gli eventi rivoluzionari del 1848, sia sopratutto con l'intento didattico di formare una coscienza nazionale attraverso la memoria e l'esempio di tanti personaggi. Alle gran parte delle opere collocate per volontà di Pio IX, che nel 1851 istituì un'apposita commissione, ne furono aggiungete altre anche nel secolo successivo.

Riferimenti: pagina di romainstaurata.wordpress.com (da cui è tratta l'immagine qui pubblicata); pagina di it.wikipedia.org; pagina di roma.andreapollett.com

giovedì 24 ottobre 2019

Dante e il suo Poema di Domenico da Michelino del 1465 nel Duomo di Firenze


Con il titolo Dante e il suo Poema, Dante che mostra la Divina Commedia, La Divina Commedia che illumina Firenze o altri ancora, è indicata l'opera più importante o comunque più nota del pittorore fiorentino Domenico di Francesco (1417-1491), meglio conosciuto con lo pseudonimo "di Michelino" per l'attività giovanile che svolse presso un lavoratore di avorio chimato Michelino di Benedetto. 
L'affresco su tavola fu realizzato nel 1465 su cartone di Alesso Baldovinetti (1425-1499) e collocata nella Cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore.

Il sommo Poeta, avvolto nel suo tipico abito trecentesco di colore rosso tiene aperto nella mano sinistra il suo poema mentre con la destra sembra voler indicare il contenuto della sua opera: la selva oscura raffigurata da sterpaglie e cespugli di colore scuro, subito dietro il poeta, e quindi l'Inferno con la sua grande e possente porta dell'inferno sulla quale è inciso l'incipit del III canto: «Per me si va ne la città dolente, /  per me si va ne l'etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore: / fecemi la divina potestate, / la somma sapienza e 'l primo amore; / dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch' intrate». Oltre la porta si trova una lunga processione di anime dannate e di diavoli dalle orribili fattezze. Le rocce frastagliate indicano che la scena si svolge sotto terra. Seguendo il movimento delle anime dannate, dall'alto verso il basso, l'ultimo demone che troviamo raffigurato potrebbe essere Lucifero, l'angelo caduto dal cielo, non nella sua raffigurazione dantesca, a testa in giù, ma come il diavolo di colore rosso avvolto tra le fiamme, nell'iconografia che assume nel tardo medioevo.
Tra l'Inferno e il Poeta è raffigurato il monte del Purgatorio che si erge al di là di un corso l’acqua leggermente accennato; si tratta del mare dell’emisfero australe attraversato da Dante per mezzo della navicella leggera traghettata dell’angelo nocchiero per arrivare sulla spiaggia dove lo aspetterà il rito di purificazione prima di proseguire la salita. Qui la narrazione figurale si apre con l’imponente porta del purgatorio, molto fedele a quella descritta nel testo dantesco dove tre scalini di tre colori diversi conducono alla soglia: il primo di marmo candido nel quale è possibile specchiarsi, simbolo della consapevolezza delle colpe commesse; il secondo di colore scuro di pietra ruvida, spaccata nella lunghezza e larghezza, simbolo della confessione orale; il terzo di porfido rosso vivo, colore del sangue a simboleggiare la soddisfazione ottenuta con le opere attuate con l'ardore della carità. Sulla soglia di diamante troviamo l’Angelo guardiano in una veste color cenere armato di spada con la quale inciderà sulla fronte del poeta le sette P, dei sette peccati capitali. La porta nel suo colore dorato potrebbe essere ispirata alla Porta del Paradiso del Battistero di Firenze, opera di Lorenzo Ghiberti. Oltre la porta comincia la suddivisione delle cornici dantesche, dal peccato più grave a quello meno grave, seguendo un andamento ascensionale fino al paradiso terrestre raffigurato dalle figure di Adamo ed Eva che mostrano il frutto dell’albero della conoscenza. La prima cornice è quella dei Superbi spinti a terra da un peso sulla schiena, seguiti dagli invidiosi che indossano un cilicio e hanno le palpebre cucite, gli iracondi camminano nel fumo, gli accidiosi corrono gridando esempi di accidia punita, gli avari e prodighi sono distesi a terra e legati, i golosi soffrono la fame e la sete e lussuriosi camminano nel fuoco.
Nella parte superiore della tavola è raffigurato il Paradiso come una serie di sette dei nove cieli, quelli che prendono il nome dai pianeti del sistema solare, ovvero Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e in cui sono messi bene in evidenza gli astri, circondati in una luce dorata ed il Sole è il più luminoso. L’Empireo non è raffigurato.
Sulla destra è messa in mostra in tutta la sua grandiosità la città di Firenze, illuminata da una luce dorata proveniente da sinistra; della città sono riprodotti i più imponenti monumenti all'interno delle  mura della città con in primo piano una grande porta, forse l’odierna Porta di S.Niccolò: il Duomo con la maestosa Cupola del Brunelleschi e l'attiguo Campanile di Giotto. Oltre Santa Maria in Fiore si riconoscono il Palazzo del Bargello affiancata alla guglia del campanile della Badia Fiorentina, la Torre di Arnolfo di Palazzo Vecchio con accanto quello che potrebbe essere il campanile di Santa Croce.

Ai piedi della tavola è l'iscrizione: «Qui Coelum cecinit mediumque, imumque tribunal, / Lustravitque animo cuncta poeta suo, / Doctus adest dantes sua quem florentia saepe / Sensit consuliis, ac pietate patrem. / Nil potuit tanto mors saeva nocere poetae / Quem vivum virtus carmen imago facit» (Quel che l'Inferno, il Purgatorio e il Cielo cantò e discorse con sublime ingegno, il Dotto Alighieri, è qui, da cui Fiorenza ebbe spesso consiglio e amor di padre: morte non nocque a tanto Vate: ei vive in sua virtù, nel canto e in questa immago, traduzione tratta dall'opera di Melchiorre Missirini Delle memorie di Dante Alighieri e del suo mausoleo in S.a Croce stampata a Firenze nel 1832 per i torchi di Leonardo Ciardetti, 1832).

Riferimenti: post di arteincostruzione.blogspot.com; scheda di catalogo.fondazionezeri.unibo.it

lunedì 21 ottobre 2019

Medaglia fusa di scuola fiorentina del XVI secolo dedicata a Dante e al suo Poema



[D] DANTHES FLORENTINVS nel giro; busto laureato del Poeta a sinistra.
[R] A destra il Poeta in posizione eretta mentre regge con la mano sinistra un libro aperto (la Commedia) e la destra alzata indicante a sinistra una montagna sulla cui cima un albero attorcigliato da un serpente e accostato da due figure umane; a metà altezza della montagna una porta; più a sinistra una seconda montagna con cavità entro cui stanno delle figure; in alto serie di linee ad arco.

Medaglia di bronzo fuso (ø variabile dai 50 ai 56 mm ca) di scuola fiorentina del XVI secolo dedicata a Dante Alighieri. L'immagine del rovescio rappresenta i tre segni dell'oltretomba dantesco ed è ispirata al dipinto di Domenico di Michelino nel Duomo di Firenze.

Riferimenti: Dante Alighieri nelle medaglie della collezione Duilio Donati, a cura di Duilio Donati, Ravenna, Longo, 2002, pp. 34-45, n. 1-16 [1-16]

venerdì 18 ottobre 2019

Statua di Dante di Jean-Paul Aubé del 1882 collocata in Square Michel-Faucault di Parigi


A Parigi, in Square Michel-Faucault, uno spazio verde del V arrondissement, sul lato destro dell'ingresso principale al Collège de France su rue des Écoles, è collocata la statua in bronzo di Dante Alighieri realizzata nel 1882 da Jean-Paul Aubé (Longwy, 1837-Capbreton, 1916).
Il luogo non è lontano a rue Dante e da quella rue du Fouarre, il «Vico de li Strami» di Paradiso X, 137 dove si tenevano le lezioni della Sorbona, la cui citazione ha fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente congetturale, che Dante possa essersi recato a Parigi tra il 1309 e il 1310.
La statua rappresenta il momento narrato in Inferno XXIII 77-78 («passeggiando tra le teste, / forte percossi ’l piè nel viso ad una») in cui il Poeta colpisce con il piede la testa di Bocca degli Abati incontrato mentre attraversa l'Antenora, nella seconda zona del nono cerchio dove sono puniti i traditori della patria. 
Alta 2 metri, la statua fu commissionata dal Comune di Parigi nel 1879 e fusa da H. Moltz per il Salon del 1880. I fratelli Thiébaut, Fumière e Gavignot realizzarono delle riduzioni in bronzo di 84, 62 o 45 cm. Il modello in gesso del 1879 (195x60x60 cm) è conservato presso il Petit Palais parigino.




Nell'Hotel de la Paiva, situato sull'Avenue des Champs Elysées della stessa capitale francese, c'è una statua in marmo basata sullo stesso modello. Orna una delle tre nicchie, sulla scala principale accompagnata da quella di Petrarca di Leon Cugnot e dalla Vergine di Ernest Barrias.



Riferimenti: pagina di www.musee-orsay.fr; pagina di www.petitpalais.paris.fr

martedì 15 ottobre 2019

Monumento a Dante di Angelo Biancini del 1968 collocato alla Puerta de Dante del Jardine del Buen Retiro di Madrid


Si tratta di un murale di bronzo realizzato nel 1968 dallo scultore e ceramista romagnolo Angelo Biancini (Castel Bolognese, 1911-Castel Bolognese 1988) per iniziativa di un gruppo di industriali italiani e inizialmente esposta negli Stati Uniti. Giunta in Spagna nell'ottobre dello stesso anno. Nel maggio dell'anno successivo fu istallata all'ingresso del Jardine del Buoen Retiro di Madrid, detto Puerta de Dante, di fronte all'incrocio tra calle Menéndez Pelayo e calle Conde de Cartagena.
Largo circa 5 metri per 2,2 di altezza, il murale è tematicamente diviso in tre parti: al centro la figura intera del sommo Poeta con il caratteristico copricapo; a sinistra i luoghi della sua vita (si riconoscono in alto a sinistra alcuni edifici di Ravenna come le basiliche di San Vitale e di Sant'Apollinare in Classe e il Mausoleo di Teodorico, in basso a sinistra la colonna commemorativa della battaglia di Campaldino combattuta nel 1289, in basso a destra l'arena di Verona e la torre abbaziale di Piazza San Zeno della stessa città scaligera e, sul lato opposto, la facciata della Cattedrale di San Martino di Lucca); a destra alcune scene che rimandano alle tre cantiche della Commedia.

Riferimenti: pagina di es.wikipedia.org; scheda di patrimonioypaisaje.madrid.es

Medaglia di Aurelio Mistruzzi commissionata dal Comitato Cittadino di Ravenna per il VI centenario dalla morte di Dante

 
[D] RAVENNA A DANTE = MCCCXXI - MCMXXI lungo il bordo; al centro busto del Poeta a destra con il caratteristico copricapo e la corona di alloro; alle spalle un ramo di pino con due pigne, probabile riferimento alla storica pineta di Ravenna.
[R] E DVRERÀ QVANTO IL MONDO LONTANA [Inf. II,60) lungo il bordo; al centro figura femminile inginocchiata a destra mentre versa da un'ampolla l'olio nella lampada votiva a simboleggiare il culto eterno delle memorie; a destra ramo di palma; sulla linea dell'esergo a sinistra MISTRVZZI

La medaglia fu realizzata dallo scultore e medaglista Aurelio Mistruzzi (Villaorba, 1880-Roma, 1960) su commissione del Comitato Cittadino di Ravenna per il VI centenario della morte di Dante del 1921 e coniata dalla Regia Zecca di Roma

ø 85 mm, bronzo fuso
ø 70 mm, bronzo
ø 40 mm, argento, bronzo

Riferimenti: Dante Alighieri nelle medaglie della collezione Duilio Donati, a cura di Duilio Donati, Ravenna, Longo, 2002, p. 120, n. 15 [106]; pagina di numismatica-italiana.lamoneta.it

mercoledì 9 ottobre 2019

Medaglia di Guerrino Mattia Monassi per il VII centenario della nascita di Dante


[D] DANTE_1265·1965 nel giro a destra e sinistra entro cerchio perlinato interrotto; al centro busto di 3/4 a sinistra del Poeta col il caratteristico copricapo sormontato da una corona di alloro; nel taglio del busto a destra MONASSI
[R] VII CENTENARIO = DELLA NASCITA in basso; al centro, la Poesia che cavalca "all'amazzone" Pegaso, simbolo dell'ispirazione, reggendo con la sinistra un volume su cui l'iscrizione DIVINA = COM = ME= DIA; sotto la legenda piccola campana

La medaglia fu realizzata dall'incisore e medaglista Guerrini Maria Monassi (Urbignacco di Buja, 1918-Bergamo, 1981) e coniata dalla Zecca di Stato di Roma in occasione del VII centenario della nascita di Dante del 1965. 

Medaglia n. 1 della "Serie Italia" della Collezione Campana per il VII centenario della nascita di Dante.

ø 22 mm, argento
ø 45 mm, oro, argento, bronzo

Riferimenti: Dante Alighieri nelle medaglie della collezione Duilio Donati, a cura di Duilio Donati, Ravenna, Longo, 2002, p. 164, n. 76 [167]; pagina di numismatica-italiana.lamoneta.it

martedì 8 ottobre 2019

Dante in esilio, dipinto di Domenico Peterlin del 1861 ca

Domenico Peterlin, Dante in esilio, 1861 ca
olio su tela, 79x106 cm



Domenico Peterlin (Bagnolo, Vicenza 1882-Vicenza 1897), pittore e patriota, legato artisticamente al Purismo Romano e all’arte tedesca (tardo-romantici, Nazareni, simbolisti), nel 1861 si trasferì da Torino a Firenze in occasione dell'Esposizione Italiana. Lì dipinse le sue versioni del Dante in esilio oggi conservate una nello stesso capoluogo toscano presso la Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti e l'altra al Museo Civico di Vicenza. Il sommo Poeta è raffigurato seduto accanto ad una roccia in un paesaggio marino. Dante è malinconico e pensieroso e tiene un codice in grembo. 

Riferimenti:

lunedì 7 ottobre 2019

«Nel mezzo del cammin di nostra vita... la speranza». Intervento del Cardinale Gualtiero Bassetti a Ravenna in occasione del "Dantis poetae transitus" del 13 settembre 2019


Saluto con piacere, ringraziandolo per l’invito, l’arcivescovo metropolita di Ravenna-Cervia mons. Lorenzo Ghizzoni; saluto con gratitudine padre Ivo Laurentini, direttore del Centro Dantesco dei Frati minori conventuali, con i suoi collaboratori; saluto il sindaco di Ravenna Michele de Pascale, tutte le autorità, e tutti coloro che, in questa città, custodiscono le spoglie e la memoria di Dante Alighieri, il sommo poeta della nostra Italia. La comunità ravennate, ben consapevole del loro valore affettivo, le ha difese nei secoli, dopo la sua morte, avvenuta in questa stessa notte, nel 1321, cui seguirono le esequie nella chiesa oggi di San Francesco. Dante scelse Ravenna e l’ospitalità della sua gente come epilogo del suo ‘esilio terreno’. Possiamo usare questa espressione, «esilio», nel duplice senso, sia politico sia biblico-liturgico.
Saluto tutti gli intervenuti, e in particolare il professor Giuseppe Ledda, studioso specialista di aspetti fondamentali dell’esegesi dantesca. Queste mie riflessioni non hanno pretesa di esegesi o di ermeneutica; sono, prima di tutto, pensieri di un lettore-ammiratore, nato e cresciuto in una terra, la Toscana, nella quale Dante Alighieri fa parte quasi dell’humus: la sua Commedia si recita a memoria, scorre nelle vene, sgorga nel cuore e te la ritrovi sulle labbra quasi come se fosse tua, espressione del tuo preciso pensiero. [Esempio della pastora…] Ogni volta che cito a memoria i suoi versi, mi sembrano stampati in un ricordo che ha radici più profonde dei banchi di scuola e dei libri di testo.
Non volendo addentrarmi in argomentazioni critiche o scientifiche, posso però avanzare e proiettare su uno sfondo teologico una constatazione in apparenza semplice: pur essendosi già detto e scritto tanto, è ancora molto ciò che resta da dire. Soprattutto, è straordinario quanto ancora Dante sappia dire, di nuovo e sorprendente, parlando a questo nostro tempo apparentemente disincantato e smaliziato, nel quale si ha talora la sensazione di poter fare a meno non solo di Dio, ma anche dell’uomo. Dopo sette secoli, dopo profondi e radicali cambiamenti sociali e culturali, la sua parola densa di significati, che non si finisce mai di esplorare, riesce ancora a illuminarci la strada, a renderla non un cammino sterile, privo di senso e di meta, ma un pellegrinaggio, come fu il suo, denso di speranza e di futuro.
Avere, come Dante Alighieri, argomenti inesauribili, che continuano a inserirsi perfettamente nell’attualità personale e sociale, è il segno non solo della grande poesia, ma anche, in senso ampio, della profezia, specialmente in quanto la sua vita e la sua opera sono state illuminate dalla fede, dalla volontà di credere e sperare in Dio, pur nella fragilità della condizione umana.
  
Del resto l’antica celebrazione del Transitus, la rievocazione del passaggio dalla terra al cielo, voluta dai francescani per Dante, lo assimila a san Francesco e ad altri santi, e queste cerimonie in corso non sembrano e non sono una pura commemorazione culturale, ma si avvicinano a quelle di un dies natalis, anche se, per tanti motivi, non c’è una canonizzazione. Sono molti i semi di speranza che ha lasciato, e alcuni non finiscono ancora di affiorare. Nella mia Perugia, per esempio, nel rione di Porta Sole, vi è un angolo discreto, quasi sconosciuto agli stessi perugini, a cui si accede dopo una ripida salita. In questa piazzetta nascosta, da cui si vede però tutto il monte Subasio con Assisi, una lapide riporta i versi del canto XI del Paradiso:

«Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole» … [fin qui la lapide (Par XI, 43-48)]

«…e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto…».

È san Tommaso d’Aquino che, nel Paradiso, parla di san Francesco, mentre Dante, ormai alleggerito di ciò che lo appesantiva, si approssima alla meta. Ma non sarà sufficiente arrivarci: una volta raggiunta, il poeta, a cui è stato concesso questo privilegio, la dovrà condividere con gli altri viventi, narrando al ritorno il suo percorso di speranza consolidata.
Ancora oggi, dopo secoli, le sue scale, le sue salite che ‘sanno di sale’, sono quelle di ognuno di noi. Ho letto con interesse alcuni saggi del professor Ledda, nei quali il viaggio personale di Dante viene confrontato a modelli biblici, attraverso i quali il suo percorso diventa quello di tutti. Il tema dell’esilio, autobiografico e dolorosissimo per lui, diventa il tema del pellegrinaggio, passando dal modello dell’esodo a quello dell’ascesi. Da Adamo al nuovo Adamo, Gesù Cristo, il quale consente a ogni uomo, con la sua incarnazione, di “ritornare” alla patria celeste. La Commedia è come un giubileo all’ennesima potenza, rispetto a quello del 1300 che Dante ebbe ben presente e che influenza tutto il suo poema. Ma anche i suoi riferimenti umani furono molteplici: Dante non solo mise a frutto la propria variegata esperienza, ma seppe attingere a una miriade di testimonianze vissute e raccontate, nonché a modelli letterari e filosofici rielaborati in modo originale.  
«Nel mezzo del cammin di nostra vita»: il primo verso è anche il primo passo. Meditatissimo verso, di uno che sa bene quale effetto produrrà in chi legge, ma, ancora prima, scava in se stesso, nella sostanza dell’umanità. Così la sua esperienza diventa universale, e così prende il volo e acquista un senso: quello della missione, oltre a quello della redenzione. Ma non per questo smette di essere poesia: e proprio questo dà, alla ‘missione’, un carattere laico nel senso migliore, cioè universale, aperto, assimilabile, capace di parlare a tutti al di là delle appartenenze.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita». Versi che metton voglia di fermarsi a meditare ogni passo, come si narra facesse san Francesco, che recitando il Paternoster si soffermava su due sole parole: «Padre», «nostro».
Quasi fosse una preghiera, capace di comunicazione con l’ineffabile, ogni parola di Dante ha un peso, affonda nella nostra densità, nella profondità della nostra stessa vita, e s’incide in neretto nella mente e nella coscienza: «Nel mezzo del cammin di nostra vita…». E qui ci siamo davvero tutti.
Il poema è già tutto lì. Partono già lì i cerchi, i gironi, ma anche le orbite che ricondurranno all’unico vero centro: «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Là dove tutto è cominciato, tutto si conclude, tutto riparte. Questo è un poema scritto da un uomo per centrare il cuore dell’uomo, ricondurlo a se stesso, ai suoi abissi, e poi risollevarlo, verso la purificazione e verso l’incontro con Colui che dà senso a tutti i nostri versi e a tutta la nostra prosa.
Il «mezzo del cammin di nostra vita» viene glossato normalmente, scolasticamente, come riferito alla ‘mezza età’. Quel tempo della nostra vita mortale, per parafrasare l’altro grande poeta Giacomo Leopardi [A Silvia: «Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale…»], in cui si comincia a pensare alla tanta esistenza già accumulata, si fanno i primi bilanci, e non di rado ci si ritrova nella selva oscura della confusione, dell’incertezza riguardo al futuro, del ‘peccato’ – diciamola pure questa parola, non tanto con il significato di singolo gesto o evento, quanto di quel grigiore dell’anima che allontana dallo stato di grazia.
Il guaio del nostro tempo, diceva Giovanni Papini, è che non esiste più il nero né il bianco, ma solo una uniformità di grigio. Il «mezzo del cammino» dantesco, in effetti, può essere anche la mediocrità nel senso peggiore: non l’aurea mediocritas raccomandata dai filosofi, ma l’accomodamento in una selva di autocompiacimento e autogiustificazione, nella quale, smarrite le coordinate di un cammino elevato, ci si accontenta di mezzi valori, mezze verità, mezze bugie, mezzi ragionamenti, per amore di un presunto quieto vivere, per non rischiare di perdere posizioni acquisite, per non dover combattere battaglie sfavorevoli, perché disillusi. In una parola: perché non si crede più nelle beatitudini evangeliche, nello sperare contra spem, attraverso la croce.
È stato notato dagli studiosi che il tema del pellegrinaggio è ovunque nella Commedia, in tutte e tre le cantiche. Ma nell’Inferno prende la forma di atroci illusioni di movimento, che in realtà implicano la stasi o la parodia: la rincorsa degli ignavi dietro un vessillo inconsistente, la marcia dei sodomiti nel sabbione rovente, la paradossale andatura retrograda degli indovini, l’avanzata impossibile degli ipocriti sotto cappe di piombo. Non si va più da nessuna parte. Così la singolare dote di profezia dei dannati è solo apparente: la loro conoscenza si concluderà – verso terribile – quando «del futuro fia chiusa la porta». Canto X dell’Inferno (v. 108): Farinata spiega la particolare conoscenza dei dannati, che prevede l’evento ma svanisce man mano che esso si avvicina, e cesserà del tutto alla fine dei tempi. La perdita di ogni sapienza coincide con la perdita di ogni speranza: la ratifica della tremenda condanna scritta all’ingresso dell’Inferno.
Invece, nel Purgatorio ogni pena è finalizzata ed elevante, una ascesi: ciò che dovrebbe accadere al cristiano nel corso della sua esistenza, se è illuminato dalla luce della fede. Il Paradiso, infine, è la sintesi ineffabile tra la stabilità dell’appagamento e l’eterno dinamismo di comunione e bellezza espresso al massimo grado nella Trinità.
Vorrei riallacciarmi al tema della conoscenza (quella vera e quella presunta) per associare il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse e Diomede, culminante nella celeberrima terzina, che a volte mi ritrovo a declamare:

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza (If XXVI, 118-120).

L’occasione è nota: Ulisse sprona i compagni a fare appello a tutte le loro risorse e alla loro stessa natura umana, che li distingue dagli animali, per slanciarsi oltre le colonne d’Ercole, il limite allora tradizionalmente segnato e invalicabile. Lo sforzo di Ulisse è quello di sfidare questa stessa contraddizione: andare oltre l’umano con le forze umane. Ma lo fa confidando ‘solo’ in esse, ed è questo, e non le colonne d’Ercole, il suo vero limite.
Il resto è noto: con un simile incitamento, i remi diventano «ali» per il «folle volo», e dopo cinque mesi appare in lontananza una montagna misteriosa, altissima. È il Purgatorio. A una breve esultanza segue subito il pianto: da quella terra «un turbo nacque», sballottando l’imbarcazione ormai impotente e ingovernabile, «infin che ’l mar fu sovra noi richiuso», altro verso magistrale e celeberrimo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (If XXVI vv. 130-142)

 È evidente la partecipazione emotiva di Dante, che già nella prima frase del Convivio diceva: «Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Il poeta, sia nella sua personale simpatia, sia nella sua investitura in qualche modo ‘missionaria’ e ‘profetica’, non condanna certo la sete di «virtute e canoscenza», ma non la vuole né la professa a tutti i costi. Anche in questo, Dante anticipa i tempi, i secoli. Oggi, come allora, occorre precisare, proprio facendo appello a tutte le nostre risorse di umanità, la qualità del ‘progresso’ e del ‘progredire’, il vero movimento che ci fa avanzare rispetto a quello che invece ci tradisce, ci blocca, ci fa retrocedere, sia come singoli sia come comunità.
Forse alludeva a tutto questo Primo Levi nel romanzo Se questo è un uomo, dedicando un intero capitolo proprio al canto di Ulisse. In un campo di prigionia, un internato cerca di spiegare tali versi a un altro, anche se li ricorda male e a spezzoni; l’altro però capisce molto bene: c’è quasi una urgenza di capire, di afferrare i contenuti autentici del canto dantesco, prima che sia troppo tardi per tutti.
[L’autentico progresso non è nella Torre di Babele: ciò che rende l’uomo impotente non è la volontà di superare i propri limiti, ma la presunzione di farlo solo ‘grazie’ a se stesso e alle proprie forze. La speranza umana si contrappone in tal modo alla speranza data dalla fiducia in Dio]
Qualche mese fa abbiamo festeggiato il 50° anniversario dell’arrivo dell’uomo sulla Luna (20 luglio 1969). Abbiamo rivisto, insieme alle immagini di Neil [Niil] Armstrong che appoggia il primo piede esitante sul suolo lunare, il Santo Padre Paolo VI mentre seguiva l’evento in diretta alla TV, come la maggior parte delle persone del mondo. Era un’altra delle ‘colonne d’Ercole’ che veniva abbattuta. Ma su questo sforzo umano – culturale e scientifico – si stendeva la benedizione del Signore. Mi ha molto colpito, nelle rievocazioni che sono state fatte il 20 luglio 2019, il commento di alcuni sulle missioni attuali nello spazio, che vengono ormai fatte, prevalentemente, non più con spirito di pura competizione ma di collaborazione tra le nazioni del mondo. Il bene è bene quando è per tutti. Ed è questo il vero, autentico progresso.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita» sta tutto questo. C’è continuamente il bivio che ci pone di fronte alle nostre stesse colonne d’Ercole, sia come comunità sia come individui: i limiti che vanno affrontati e superati, non solo facendo appello alle nostre forze umane o individuali, né dibattendosi dietro vani ideali in una illusione di progresso egoistico. In tutti i suoi passi, iniziando dal primo, la Commedia di Dante è un viaggio straordinario al centro dell’uomo, nel cuore di Dio. Un viaggio di grande speranza, l’unico possibile. Perciò oggi resta più che mai Divina, e più che mai attuale: proprio perché continua ad additare il cammino della trascendenza e del sommo Bene «nel mezzo del cammin di nostra vita», di questa «nostra» stessa umanità.

sabato 21 settembre 2019

"L'attualità di Dante" secondo Lino Pertile in una conferenza tenuta a Firenze il 10 ottobre 2015


C’è qualcosa di prodigioso nella capacità che la Commedia ha di rinnovarsi e presentarsi con sempre maggior forza ad ogni nuova generazione di lettori. È un fenomeno particolarmente notevole ai nostri giorni. Dante non è mai stato così lodato, ammirato e famoso come ora; mai più pubblicato, declamato in pubblico e in privato, tradotto in ogni lingua, riciclato in ogni forma e riscaldato in ogni salsa.

In Italia non sorprende che, anche in tempi infausti per gli studi letterari, la ricerca dantesca fiorisca in ambito universitario: i poli principali sono Roma, Bologna-Ravenna, Pisa, Firenze, Verona, Napoli, Catania e Messina, ma anche Torino e Milano e Venezia e Padova. Ma si sono visti di recente fenomeni del tutto inediti. Per esempio, gruppi di studenti delle facoltà più diverse che si incaricano di organizzare a Milano, a Padova, a Torino e in altre città, cicli di lezioni dantesche dove i posti a sedere vanno a ruba e gli ascoltatori sono giovani, attenti, curiosi, informatissimi. Si aggiunga il diffondersi in tutta la penisola, anche in ambienti e a livelli meno scontati, di iniziative dantesche, spesso organizzate da comuni e associazioni popolari, specialmente in località in qualche modo associate con la vita del poeta. Senza dir nulla delle letture dantesche più strepitose, allestite nelle piazze e nei teatri dell’intero paese e animate da figure tra le più popolari del teatro, dello spettacolo e della TV italiana. 

Ma anche all’estero non si scherza. Nei paesi di lingua inglese, che sono quelli che conosco meglio, oltre alle continue, nuove traduzioni della Commedia e a una seria e cospicua presenza a livello universitario (in forma di corsi di lezioni, convegni, conferenze, seminari, recite, pubblicazioni di libri e riviste, siti online agguerritissimi), si è sviluppato tutto un sottobosco di attività secondarie che vanno da corsi estivi per non addetti ai lavori, a romanzi, videogiochi, fumetti, film, rifacimenti seri e faceti del grande poema o di parti di esso. Caratteristica del dantismo dei paesi anglosassoni è la sua continua capacità di coinvolgere in iniziative didattiche, critiche e creative docenti, studiosi, scrittori, traduttori, poeti non specializzati. In altre parole, Dante viene trattato come un grande classico da ‘viversi’ in traduzione, liberamente, come Omero, Virgilio, Platone e la Bibbia. 

In alcuni paesi europei come il Regno Unito e la Germania, la tradizione degli studi danteschi ha radici profonde e molto robuste, ma fa sempre impressione, per esempio, scoprire che esiste all’Università di Leeds, nello Yorkshire, un Centre for Dante Studies e un Leeds Dante Podcast, e all’antica Università di Saint Andrews in Scozia una Lectura Dantis ormai giunta al Paradiso. Ancor più spettacolare è lo sviluppo recente degli studi danteschi a Madrid e a Barcellona, dove si pubblicano riviste come Tenzone e Dante e l’arte, e si organizzano regolarmente convegni e seminari danteschi. La Francia ha dato in passato grandi studiosi come Gilson, Renaudet, Renucci e Pézard, ma chi pensasse che quella gloriosa stagione è ormai chiusa, consideri che proprio quest’anno si è fondata alla Sorbonne una Société dantesque de France. Non solo. Dante si sta infatti affermando anche in America Latina, in Giappone, in Corea, in Cina, paesi nelle cui culture le opere letterarie italiane sono quasi del tutto assenti. 

Insomma, Dante è indubbiamente molto letto, studiato, glossato verso per verso in Italia e all’estero, e perciò si direbbe quanto mai attuale. E tuttavia allo stesso tempo a me sembra che paradossalmente Dante non venga ascoltato, che non sia preso sul serio, e in questo senso sia inattuale. Mi spiego. Dell’attualità di Dante si parla da secoli, specialmente in tempi di anniversari. Prevedo quindi che per tutti i sei anni che separano il nostro 2015 (settecentocinquantesimo anniversario della nascita) dal 2021 (settecentesimo anniversario della morte), il discorso sull’attualità di Dante si farà ‘virale’ assumendo tutte le forme possibili e immaginabili, nonché alcune inimmaginabili. Ma bisogna intendersi: in che senso possiamo dire ‘attuale’ Dante oggi, o più precisamente quale aspetto del suo pensiero si merita questa qualifica? La visione religiosa? Il pensiero economico e sociale? Il sogno politico? Di primo acchito si direbbe di no. Il miracolo della sua lingua certamente, ma anche qui sarebbe necessario contestualizzare e storicizzare. Forse la visione dei rapporti interpersonali, e in particolare del rapporto d’amore? Non direi: quello che oggi passa per amore – etero, omo e trans – lungi dal capirlo, Dante lo caccerebbe nell’inferno più profondo. In questa prospettiva Dante era inattuale, o, per usare il termine di Gianfranco Contini, “intempestivo” anche ai suoi tempi, figurarsi ai nostri! In effetti, quando si rifletta sul ‘messaggio’ dantesco, ovvero sul pensiero espresso specialmente nella Commedia, si rimane colpiti dalla sua apparente inattualità e soprattutto da come la popolarità di Dante poeta sia sempre stata inversamente proporzionale alla popolarità di Dante ‘profeta’, cioè pensatore e critico severissimo della società italiana. 

Come tanti altri grandi poemi, la Commedia di Dante è certamente un’opera di invenzione poetica. C’è però una differenza fondamentale. Dante non scrive il suo poema per divertire, intrattenere o anche istruire in termini generali i suoi lettori. Dante dichiara esplicitamente che scrive la Commedia per cambiare il mondo “che mal vive” (Purg. XXXII 103, ma vedi anche Par. XVII 128 e XXVII 65). Questa è la sua missione. E che cosa fanno i suoi lettori? Lo leggono e lo applaudono, gli dicono bravo, bravissimo, geniale, ma a cambiare se stessi e il mondo non ci pensano nemmeno. Cioè non l’ascoltano. È il grande paradosso per cui si ama il sommo poeta, se ne riconosce e ammira il genio prodigioso, si gremiscono le piazze e i teatri in cui se ne recitano e spiegano i testi, ma non lo si prende sul serio. Per metterla in altri termini, Dante descrive la malattia e prescrive la cura che salverà i lettori da morte sicura; i lettori concordano pienamente, tanto che battono le mani e vanno in visibilio, ma l’idea di seguire le prescrizioni per curarsi non li sfiora neppure. Insomma Dante sarebbe un genio che sbaglia quasi tutto, uno straordinario poeta ossessionato da alcune idee, magari anche belle e buone, ma assolutamente inapplicabili alla vita ‘reale’. 

A pensarci bene, si deve riconoscere che nei quasi settecento anni che ci separano dalla morte del sommo poeta, la ben nota posizione di Firenze nei suoi confronti si è estesa a tutta l’Italia, se non al resto del mondo. Firenze bandì, anzi condannò il poeta come un criminale nel gennaio 1302, e non volle mai, mentre egli viveva, revocarne il bando o la condanna, in sostanza perché il pensiero di Dante era assolutamente avverso alla direzione in cui si muoveva la società fiorentina del tempo,e più Dante scriveva e più s’allargava il baratro ideologico che lo separava dalla sua città natale. Dopo la sua morte nel 1321 Dante venne lentamente accettato e riappropriato da Firenze,e, in seguito, anche pubblicamente rivendicato come grande fiorentino. Ma questo mutamento avvenne solo quando il passaggio del tempo rese possibile concentrarsi sul Dante poeta (e chi mai è contro la poesia?) minimizzandone il pensiero o sorvolando sul Dante‘profeta’, il Dante ideologo e appassionato polemista, se non come oggetto di attenzione accademica. 

Qualcosa del genere mi sembra che con il passare del tempo sia avvenuto in tutto il mondo e in particolare in un paese di tradizione cattolica come l’Italia. Come Firenze nel Trecento, noi tutti abbiamo neutralizzato il pensiero di Dante, privilegiandone la forza poetica, come se questa potesse esistere per se stessa. In realtà Dante si serve della poesia, ma il suo scopo è molto concreto, ed è la riforma della Chiesa e dell’Impero, della società civile, della città, dei costumi individuali. Ma proprio questa sua ambizione è stata nei secoli, e rimane tuttora più che mai inascoltata, frustrata. Anzi, si deve riconoscere che dei vizi umani stigmatizzati da Dante con le sue requisitorie più feroci, alcuni sono divenuti indiscussi valori della cultura e società occidentale. Si pensi soltanto all’‘ignavia’ dilagante nella vita politica, alla ricerca ossessiva del vantaggio privato a spese del bene comune, all’indifferenza nei confronti della vita religiosa, alla celebrazione della ‘diversità’ nella vita pubblica e privata, o alla liberalizzazione dei costumi sessuali. 

Ciascuno di questi temi meriterebbe un trattamento particolare, ma qui mi propongo di trattare, per quanto concisamente, un cosiddetto ‘valore’ sul quale si fondano in maniera ormai assiomatica molte delle principali attività umane. Mi riferisco all’ingegno, ovvero l’intelligenza operativa, quel talento che permette all’individuo, ai livelli più diversi dell’esperienza, di misurarsi con successo anche contro forze apparentemente schiaccianti o prendere sempre nuove iniziative allo scopo di migliorare le proprie condizioni di vita senza riguardo per il bene della comunità in cui vive. Dante condanna decisamente questo genere d’intelligenza. Si pensi al caso di Guido da Montefeltro, canto XXVII dell’Inferno. Preso tra i due fuochi della minaccia presente di papa Bonifacio e di quella futura, ma non meno grave, della giustizia divina, Guido trova una ingegnosa scappatoia che gli permette di soddisfare alle richieste papali senza compromettere – così almeno egli crede – i suoi rapporti col Padreterno. Il risultato di questa operazione è positivo, almeno a breve termine: Guido riesce a salvare la pelle e a mantenere pulita l’anima, o almeno così crede; tuttavia, sui tempi lunghi, la sua furbizia si rivela catastrofica perché per vincere la battaglia di un giorno Guido perde la guerra della vita, cioè brucia la sua possibilità di salvarsi l’anima, che finisce infatti dannata per sempre all’inferno. L’intelligenza di Guido ne provoca l’eterna rovina. Analogo, ma a un livello di esperienza molto più alto e nobile, è il caso di Ulisse. Anche Ulisse usa la propria intelligenza nel tentativo di giungere immediatamente e con le proprie forze dove non gli è permesso. Il risultato nel suo caso è il drammatico naufragio che ne finisce questa vita e lo condanna nell’altra. Di nuovo, l’intelligenza ha portato un grande personaggio a fare quel che non doveva, procurandone la rovina. In entrambi i casi, il problema morale fondamentale e tuttora vivo, che Dante rappresenta in forma simbolica, è il problema dell’intelligenza umana: come controllare l’intelligenza che Dio o madre natura ci ha dato, come vincere la tentazione di lasciarla correre e operare liberamente. Dante lo dichiara esplicitamente iniziando il canto XXVI dell’Inferno

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio 
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, 
e piú lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio, 
perché non corra che virtú nol guidi; 
sí che, se stella bona o miglior cosa
 m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 
(Inf. XXVI 19-24)

Dante mette avanti questo suo concetto fin dall’inizio del canto di Ulisse, ma la critica tradizionale non l’ha mai voluto porre al centro dell’interpretazione dei due personaggi che l’incarnano, Ulisse e Guido, appunto, preferendo invece focalizzarsi sul peccato di frode, secondo me secondario. Che frode ci sia non c’è dubbio, anche se non è quella che normalmente si indica; in verità la frode è il mezzo, la manifestazione dell’oltranza dell’intelligenza, mentre è proprio sull’abuso o l’oltranza dell’intelligenza che Dante vuol invece attrarre la nostra attenzione. 

Si tratta di un problema morale, che si andava diffondendo a macchia d’olio nelle più progredite e progressive città italiane tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, gli anni d’oro dello sviluppo socioeconomico fiorentino, ma è ancora attualissimo oggi. Per quanto riguarda il Due-Trecento basta pensare a certe storielle del Novellino o, ancor meglio, del Decameron per capire che cosa ha in mente Dante. Molti personaggi del Decameron fanno un uso spregiudicato, senza remore morali, della loro intelligenza allo scopo di ottenere il successo nelle loro imprese, siano esse erotiche, commerciali, religiose o altro. Basti pensare a un personaggio come Ser Ciappelletto che, pur essendo un farabutto senza scrupoli e un peccatore inveterato, riesce con la sua intelligenza a farsi passare per santo proprio in punto di morte. 

Il dato di fatto nuovo e rimarchevole è che l’uso immorale o, meglio, amorale dell’intelligenza non è privilegio dei forti e potenti, degli intellettuali, o dei personaggi maschili; anzi, nel Decameron, l’intelligenza è l’arma naturale propria dei personaggi in certo qual modo ‘inferiori’ o che vengono a trovarsi in una situazione che li rende tali: un’arma per eccellenza democratica. Prendiamo, per esempio, il caso della novella quarta della settima giornata. Vi ricordo la trama che è comunque notissima e deriva dal Novellino. Tofano, uomo ricco ma sempliciotto, è sposato con l’avvenente Monna Ghita di cui è molto geloso senza ragione alcuna, almeno inizialmente. Monna Ghita, risentita della gelosia del marito, incomincia a intendersi discretamente – scrive Boccaccio, ed è qualificazione cruciale – con un giovane e s’ingegna di trovare il modo per godere della sua compagnia. Fa ubriacare Tofano, al quale per altro piace bere,e quando egli è sbronzo, lo mette a dormire mentre lei va a spassarsela col suo amante. Ma a un certo punto Tofano s’insospettisce e decide di verificare. Una sera finge di essere ubriaco e di addormentarsi e, non appena la moglie esce,chiude a chiave la porta di casa e corre ad aspettarla alla finestra. Ghita, rientrando dal convegno adultero, si trova la porta sbarrata e il marito alla finestra che la svergogna ad alta voce minacciandola di non farla entrare. Lei – saviamente, direbbe Boccaccio – lo prega di non gridare e non rendere pubblica la loro vergogna, ma lui si rifiuta di cooperare. Ghita allora fa finta di gettarsi in un pozzo lì accanto e così costringe Tofano, preoccupato, a uscire di casa per verificare. Quando lui apre la porta, lei corre dentro e lo chiude fuori a sua volta. Va poi alla finestra e, tra lamenti e finte lacrime, lo svergogna accusandolo di passare la vita all’osteria a bere. Con il suo stratagemma Ghita riesce a capovolgere la situazione; ma la cosa non finisce lì: il marito viene picchiato di santa ragione dai parenti della donna. E la conclusione, degna di nota, è che Tofano ritorna a vivere con Ghita, dandole anzi licenza “che ogni suo piacer facesse, ma sì saviamente, che egli non se ne avvedesse”. 

Potrei offrire decine di altri esempi, ma si arriverebbe sempre alla stessa conclusione. Mentre nella Commedia l’uso dell’intelligenza è problematico e, in assenza di virtù, sfocia in questa o nell’altra vita nella tragedia, nel Decameron l’intelligenza di questo o quel personaggio, per quanto spregiudicata, non si costituisce mai in elemento di rottura; nel Decameron la trasgressione morale non è determinante per sé,ed è solo la repressione degli impulsi naturali e/o l'infrazione delle convenzioni sociali a portare alla sconfitta e alla tragedia; e ciò avviene o perché l'individuo agisce senza il sostegno di un'intelligenza mediatrice, o perché si scontra contro le forze imprevedibili dell'avversa fortuna. 

Un analogo uso amorale dell’intelligenza viene consigliato al principe anche da Machiavelli. Anche nel Principe la bontà dell’azione non si misura in termini morali, ma in base alla sua efficacia. E come nel Decameron l’immoralità privata ottiene l’approvazione dell’autore purché sia gestita discretamente, così nel Principe il male (frode, violenza, omicidio), è permesso e incoraggiato, quando necessario, specialmente se si può compiere in segreto. Machiavelli trasferisce alla vita politica e militare un codice di comportamento condannato da Dante ma ampiamente documentato e collaudato nella vita privata, nonché nella letteratura, dal Duecento in poi. Dopotutto, il modello dell’ibrido lione-golpe, che Niccolò consiglia al principe di adottare, è proprio quello esplicitamente perseguito nella sua vita da Guido di Montefeltro, le cui opere, a detta di Dante, furono appunto di volpe più che di leone. 

Ebbene, mi si perdoni l’inevitabile generalizzazione, ma mi sembra che, almeno per questo rispetto, la società italiana di ogni tempo e luogo non abbia seguito le indicazioni di Dante, ma quelle di Boccaccio e Machiavelli, e che l’uso spregiudicato dell’intelligenza sia diventato canonico nella nostra vita nazionale, tanto che, anche ai nostri giorni,chi non lo persegue per remore morali o mancanza appunto di intelligenza viene spesso considerato un ‘fesso’ o un inetto. Potrei raccontare casi o episodi, che so, di ciechi o defunti che ogni mese vanno a riscuotere la pensione alla guida della loro automobile, o di vigili urbani che marcano il cartellino e poi se ne vanno per i fatti loro a far quel che più gli garba, o di deputati che vanno in pensione senza aver servito un giorno, o funzionari piccoli e grandi che usano il denaro pubblico come risorsa privata, per non parlare delle avventure salaci di uomini di stato. Come scriveva Giuseppe Prezzolini già nel lontano 1921 nel suo Codice della vita italiana: "L'italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all'ammirazione di chi se ne serve a suo danno. Il furbo è in alto in Italia non soltanto per la propria furbizia, ma per la reverenza che l'italiano in generale ha della furbizia stessa". 

Ora, la possibilità di frodare lo stato o il prossimo senza pagare lo scotto né in questa vita né, grazie alla confessione, in quella eterna viene notevolmente incrementata nella cultura cattolica dall’accessibilità di una misericordia che rimane sempre disponibile, a norma di dottrina, finché si è in vita, epperò la responsabilità per le proprie azioni non è mai definitiva e irreversibile. Al contrario, che cosa suggeriva il cattolicissimo e intransigente Alighieri? 

“e piú lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio, 
perché non corra che virtú nol guidi” 

L’intelligenza, dice Dante, va sorvegliata e tenuta a freno dalla virtù – virtù intesa come responsabilità civile, sociale,etica; virtù perseguita in nome del bene comune,e dunque non esclusivamente religiosa. Consapevolezza che, una volta compiute, le azioni non si ‘s-compiono’, non si disfano, e i danni che esse fanno sono irrimediabili, e irreversibile la nostra colpa nel farli, checché ne dica la dottrina della Chiesa. Ora, il fatto che questa consapevolezza non si sia diffusa in Italia fino a diventare parte della cultura nazionale non la rende meno importante e auspicabile,e quindi attuale: è un caso tipico che dimostra come settecento anni di lettura della Commedia non sono stati sufficienti a far sì che il messaggio di Dante venga non soltanto recepito, ma anche messo in pratica.

Ma questo è solo il versante per così dire ‘guidesco’ o, se si vuole, ‘comico’ dell’attualità di Dante. Un altro versante, il versante, diciamo, ‘ulissico’ o tragico, è di ancor più impressionante attualità. Anzi in questo campo, con il passare del tempo, l’intuizione di Dante si rivela sempre più profeticamente attuale. Mi riferisco all’applicazione dell’intelligenza a fini non soltanto filosofici e speculativi, ma più propriamente scientifici. Che cos’è infatti la montagna altissima che Ulisse vede in mezzo all’oceano e a cui cerca di approdare con la sua nave? È chiaramente, e non per caso – sempre secondo la geografia dantesca – l’isola della montagna del Purgatorio, la montagna sulla cui cima si trova il paradiso terrestre, patria originale dei nostri primi parenti, perduta per sempre a causa della loro ambizione. È questa la meta che Ulisse vuole più o meno consciamente raggiungere. Avendo esplorato la terra intera, Ulisse è ora in cerca di qualcosa che può esistere solo oltre i limiti terrestri, il suo vero centro, la sua vera patria. È cioè in cerca del paradiso o della felicità in terra. Ma Ulisse è pagano e peccatore, in quanto autore di mitiche frodi; non sa che nessuno può ritornare al paradiso terrestre prima che Cristo lo riapra agli uomini. Pagano e peccatore, egli tenta di ritrovare il paradiso terrestre confidando soltanto su intelligenza, volontà e tecnologia navale. Per Dante questa è un’impresa impossibile e proibita: la salvezza eterna richiede un “altro viaggio” (Inf. I 91), fatto con mezzi diversi – un viaggio che passi attraverso l’umiltà e l’amore, e per essere più precisi la fede, la speranza e la carità, non attraverso l’intelligenza e la forza di volontà. Quello di Ulisse è dunque un tentativo immensamente nobile e intelligente in quanto, in tutta evidenza, nella direzione giusta, ma oggettivamente presuntuoso e superbo, in quanto sfida a un limite invalicabile. La sua tragedia è un monito agli uomini a non confidare troppo o soltanto nell’intelligenza, a non lasciarla correre senza il controllo della virtù – un monito che è diventato particolarmente opportuno e tempestivo negli anni recenti, da quando la nostra società si va dimostrando così tragicamente vulnerabile alle proprie invenzioni. “Che virtú nol guidi”: dicevo virtù come responsabilità civile, sociale, etica; consapevolezza che, una volta inventate, le cose non si disinventano e possono rivoltarsi proprio contro il loro inventore. Si pensi all’artefice Perillo, al suo ingegnosissimo, atroce bue, che proprio lui, che l’avea temperato con sua lima, è costretto a sperimentare per primo (Inf. XXVII 7-12). 

La questione morale che i canti XXVI e XXVII dell’Inferno mettono a fuoco è fondamentale per tutti i tempi e i luoghi. Che cosa è lecito fare con il nostro ingegno? Fino a che punto possiamo spingerci? Siamo giustificati a perseguire qualsiasi genere di ricerca, obiettivo scientifico, o ambizione intellettuale senza considerarne le conseguenze? La clonazione umana, la ricerca staminale, le armi chimiche o le armi di distruzione di massa, l’invenzione, produzione e l’uso di materiali praticamente indistruttibili che inquinano irreversibilmente la terra o riscaldano irreversibilmente l’atmosfera? Dove mettiamo le nostre Colonne d’Ercole, i confini oltre i quali non possiamo, non vogliamo andare? Questo è il dilemma che ispira il canto XXVI dell’Inferno. Ulisse esprime l’inquietudine dell’intelligenza laica – il bisogno, l’impulso umanissimo di cercare risposte, di andare oltre l’orizzonte della nostra esperienza; il poeta ne inventa la tragica fine per mettere in guardia chi ha troppa fiducia nel proprio ingegno. 

Ma di nuovo, chi lo ascolta Dante? Chi tarpa le ali alla propria intelligenza per paura che vada a far male a se stessa? Nel campo delle armi nucleari esiste la dottrina della spettacolare MAD, la mutually assured destruction, secondo la quale le intelligenze micidiali si controllano ed elidono a vicenda rendendo impossibile la obliterazione dell’una proprio perché comporterebbe la simultanea obliterazione dell’altra. Io non mi sento per niente sicuro che la diffusione delle armi di distruzione di massa ne impedisca per sempre l’impiego, volontario o accidentale che sia. In ogni caso il monito di Dante è buono anche per forme molto più insidiose e diffuse di tecnologia senza le quali non si riesce più a vivere. Basti pensare all’apparente mente innocua e comodissima busta di plastica che, moltiplicata per milioni di milioni, va a formare, insieme con altre immonde cianfrusaglie, non paradisi terrestri ma isole di spazzatura in mezzo agli oceani ... 

Ma, un momento: si possono veramente mettere i bastoni della virtù tra le ruote dell’intelligenza? La risposta è certo positiva sul versante, diciamo così, ‘guidesco’ dell’agire umano, nel quale la natura fraudolenta e immorale dell’azione è chiara fin dal momento in cui la si concepisce. Ma sul versante ‘ulissico’ il discorso è molto diverso. Non sempre si possono prevedere e immaginare le conseguenze delle scoperte dell’intelligenza. Il motore a scoppio non è certo stato inventato per inquinare l’atmosfera, né l’aereo per essere scagliato contro i grattacieli, né il gas per asfissiare milioni di esseri umani. 

La tragedia dell’Ulisse dantesco rispecchia e rivela in ultima analisi la condizione tragica dell’intelligenza umana. In termini molto semplici, l’innato desiderio di conoscere dell’uomo, acclamato da Dante fin dall’esordio del Convivio, lo espone a rischi imprevisti, imprevedibili e sempre più catastrofici. È la scoperta esaltante e allo stesso tempo terrificante che Primo Levi fa in Se questo è un uomo alla fine delle sue riflessioni sul canto di Ulisse. Ebbene, Dante ammonisce e consiglia, e il fatto che i suoi ammonimenti e i suoi consigli vadano inascoltati non lo rende meno attuale. Anzi. Aveva visto giusto Gianfranco Contini che, esattamente cinquant’anni fa, nel settecentesimo anniversario della nascita del poeta, concludeva un suo magistrale saggio con queste parole: “L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui”. L’attualità di Dante è di quelle che non sono legate a un tempo e a un luogo. Il che non significa che non sia perseguibile, ma piuttosto che settecento anni dopo la morte del poeta non abbiamo ancora incominciato a perseguirla, e forse proprio nella sfida e nell’ammonimento perenne che la Commedia propone sta il segreto della sua inestinguibile vitalità.


Testo preso da: www.ritoscozzese.it

Lino Pertile, nato nel 1940 nei pressi di Padova, è Professore di Lingue e Letterature Romanze all’Università di Harvard. Si è laureato in Lettere all’Università di Padova e ha insegnato nelle Università di Reading, Sussex e Edimburgo prima di giungere a Harvard. È l’attuale Rettore della Eliot House, il più prestigioso tra i colleges di Harvard. Nel 2005 è stato nominato Harvard College Professor, uno speciale riconoscimento assegnato a quei docenti che hanno investito la maggior parte del loro tempo e della loro energia nell’insegnamento universitario.
I suoi principali interessi di ricerca sono attualmente Dante, la cultura veneta del Cinquecento e il Novecento. È specializzato nello studio di Dante e della Commedia, un campo nel quale ha pubblicato ampiamente. I suoi studi riguardano inoltre il Medioevo latino, Bembo e la questione della lingua, la letteratura rinascimentale in Francia e in Italia, Foscolo, Leopardi e i romanzi italiani del XX secolo.
Ha pubblicato numerosi saggi e articoli sulla letteratura italiana (Bembo e Trifon Gabriele) e francese (Montaigne) del Cinquecento, sul Trecento, sull’Ottocento (Leopardi) e sul Novecento (Pavese, Moravia, Fo, la narrativa contemporanea).
Ha curato i seguenti volumi: La scena del mondo. Studi sul teatro per Franco Fido, con A. Oldcorn e R. Syska-Lamparska, Ravenna, Longo, 2006; In amicizia. Essays in Honour of Giulio Lepschy, con Z. G. Baranski, Reading 1998; The Cambridge History of Italian Literature, con C.P. Brand, Cambridge University Press, 1996, (revised paperback edition, 1999); The New Italian Novel, con Z. G. Baranski, Edinburgh University Press, 1993, (paperback ed. 1998).
Come dantista, oltre a molti articoli, ha pubblicato i volumi: La punta del disio. Semantica del desiderio nella ‘Commedia’ di Dante, Firenze, Cadmo, 2005; La puttana e il gigante: dal "Cantico dei cantici" al Paradiso terrestre di Dante, Ravenna, Longo, 1998. Ha inoltre curato l’edizione critica delle Annotationi nel Dante fatte con M. Trifon Gabriele in Bassano, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1993. Ha inoltre prestato la sua voce per la registrazione del testo dell'intera Commedia per il Pricenton Dante Project.