C’è qualcosa di prodigioso nella capacità che la Commedia ha di rinnovarsi e presentarsi con sempre maggior forza ad ogni nuova generazione di lettori. È un fenomeno particolarmente notevole ai nostri giorni. Dante non è mai stato così lodato, ammirato e famoso come ora; mai più pubblicato, declamato in pubblico e in privato, tradotto in ogni lingua, riciclato in ogni forma e riscaldato in ogni salsa.
In Italia non sorprende che, anche in tempi infausti per gli studi letterari, la ricerca dantesca fiorisca
in ambito universitario: i poli principali sono Roma, Bologna-Ravenna, Pisa, Firenze, Verona, Napoli,
Catania e Messina, ma anche Torino e Milano e Venezia e Padova. Ma si sono visti di recente fenomeni del
tutto inediti. Per esempio, gruppi di studenti delle facoltà più diverse che si incaricano di organizzare a
Milano, a Padova, a Torino e in altre città, cicli di lezioni dantesche dove i posti a sedere vanno a ruba e gli
ascoltatori sono giovani, attenti, curiosi, informatissimi. Si aggiunga il diffondersi in tutta la penisola,
anche in ambienti e a livelli meno scontati, di iniziative dantesche, spesso organizzate da comuni e
associazioni popolari, specialmente in località in qualche modo associate con la vita del poeta. Senza dir
nulla delle letture dantesche più strepitose, allestite nelle piazze e nei teatri dell’intero paese e animate da
figure tra le più popolari del teatro, dello spettacolo e della TV italiana.
Ma anche all’estero non si scherza. Nei paesi di lingua inglese, che sono quelli che conosco meglio,
oltre alle continue, nuove traduzioni della Commedia e a una seria e cospicua presenza a livello universitario
(in forma di corsi di lezioni, convegni, conferenze, seminari, recite, pubblicazioni di libri e riviste, siti online
agguerritissimi), si è sviluppato tutto un sottobosco di attività secondarie che vanno da corsi estivi per non
addetti ai lavori, a romanzi, videogiochi, fumetti, film, rifacimenti seri e faceti del grande poema o di parti
di esso. Caratteristica del dantismo dei paesi anglosassoni è la sua continua capacità di coinvolgere in
iniziative didattiche, critiche e creative docenti, studiosi, scrittori, traduttori, poeti non specializzati. In
altre parole, Dante viene trattato come un grande classico da ‘viversi’ in traduzione, liberamente, come
Omero, Virgilio, Platone e la Bibbia.
In alcuni paesi europei come il Regno Unito e la Germania, la tradizione degli studi danteschi ha
radici profonde e molto robuste, ma fa sempre impressione, per esempio, scoprire che esiste all’Università
di Leeds, nello Yorkshire, un Centre for Dante Studies e un Leeds Dante Podcast, e all’antica Università di
Saint Andrews in Scozia una Lectura Dantis ormai giunta al Paradiso. Ancor più spettacolare è lo sviluppo
recente degli studi danteschi a Madrid e a Barcellona, dove si pubblicano riviste come Tenzone e Dante e
l’arte, e si organizzano regolarmente convegni e seminari danteschi. La Francia ha dato in passato grandi
studiosi come Gilson, Renaudet, Renucci e Pézard, ma chi pensasse che quella gloriosa stagione è ormai
chiusa, consideri che proprio quest’anno si è fondata alla Sorbonne una Société dantesque de France. Non
solo. Dante si sta infatti affermando anche in America Latina, in Giappone, in Corea, in Cina, paesi nelle
cui culture le opere letterarie italiane sono quasi del tutto assenti.
Insomma, Dante è indubbiamente molto letto, studiato, glossato verso per verso in Italia e all’estero,
e perciò si direbbe quanto mai attuale. E tuttavia allo stesso tempo a me sembra che paradossalmente Dante
non venga ascoltato, che non sia preso sul serio, e in questo senso sia inattuale. Mi spiego. Dell’attualità di
Dante si parla da secoli, specialmente in tempi di anniversari. Prevedo quindi che per tutti i sei anni che
separano il nostro 2015 (settecentocinquantesimo anniversario della nascita) dal 2021 (settecentesimo
anniversario della morte), il discorso sull’attualità di Dante si farà ‘virale’ assumendo tutte le forme possibili
e immaginabili, nonché alcune inimmaginabili. Ma bisogna intendersi: in che senso possiamo dire ‘attuale’
Dante oggi, o più precisamente quale aspetto del suo pensiero si merita questa qualifica? La visione religiosa?
Il pensiero economico e sociale? Il sogno politico? Di primo acchito si direbbe di no. Il miracolo della sua
lingua certamente, ma anche qui sarebbe necessario contestualizzare e storicizzare. Forse la visione dei
rapporti interpersonali, e in particolare del rapporto d’amore? Non direi: quello che oggi passa per amore –
etero, omo e trans – lungi dal capirlo, Dante lo caccerebbe nell’inferno più profondo. In questa prospettiva
Dante era inattuale, o, per usare il termine di Gianfranco Contini, “intempestivo” anche ai suoi tempi,
figurarsi ai nostri! In effetti, quando si rifletta sul ‘messaggio’ dantesco, ovvero sul pensiero espresso
specialmente nella Commedia, si rimane colpiti dalla sua apparente inattualità e soprattutto da come la
popolarità di Dante poeta sia sempre stata inversamente proporzionale alla popolarità di Dante ‘profeta’,
cioè pensatore e critico severissimo della società italiana.
Come tanti altri grandi poemi, la Commedia di Dante è certamente un’opera di invenzione poetica.
C’è però una differenza fondamentale. Dante non scrive il suo poema per divertire, intrattenere o anche
istruire in termini generali i suoi lettori. Dante dichiara esplicitamente che scrive la Commedia per cambiare
il mondo “che mal vive” (Purg. XXXII 103, ma vedi anche Par. XVII 128 e XXVII 65). Questa è la sua
missione. E che cosa fanno i suoi lettori? Lo leggono e lo applaudono, gli dicono bravo, bravissimo, geniale,
ma a cambiare se stessi e il mondo non ci pensano nemmeno. Cioè non l’ascoltano. È il grande paradosso
per cui si ama il sommo poeta, se ne riconosce e ammira il genio prodigioso, si gremiscono le piazze e i
teatri in cui se ne recitano e spiegano i testi, ma non lo si prende sul serio. Per metterla in altri termini,
Dante descrive la malattia e prescrive la cura che salverà i lettori da morte sicura; i lettori concordano
pienamente, tanto che battono le mani e vanno in visibilio, ma l’idea di seguire le prescrizioni per curarsi
non li sfiora neppure. Insomma Dante sarebbe un genio che sbaglia quasi tutto, uno straordinario poeta
ossessionato da alcune idee, magari anche belle e buone, ma assolutamente inapplicabili alla vita ‘reale’.
A pensarci bene, si deve riconoscere che nei quasi settecento anni che ci separano dalla morte del
sommo poeta, la ben nota posizione di Firenze nei suoi confronti si è estesa a tutta l’Italia, se non al resto
del mondo. Firenze bandì, anzi condannò il poeta come un criminale nel gennaio 1302, e non volle mai,
mentre egli viveva, revocarne il bando o la condanna, in sostanza perché il pensiero di Dante era
assolutamente avverso alla direzione in cui si muoveva la società fiorentina del tempo,e più Dante scriveva
e più s’allargava il baratro ideologico che lo separava dalla sua città natale. Dopo la sua morte nel 1321
Dante venne lentamente accettato e riappropriato da Firenze,e, in seguito, anche pubblicamente rivendicato
come grande fiorentino. Ma questo mutamento avvenne solo quando il passaggio del tempo rese possibile
concentrarsi sul Dante poeta (e chi mai è contro la poesia?) minimizzandone il pensiero o sorvolando sul
Dante‘profeta’, il Dante ideologo e appassionato polemista, se non come oggetto di attenzione accademica.
Qualcosa del genere mi sembra che con il passare del tempo sia avvenuto in tutto il mondo e in
particolare in un paese di tradizione cattolica come l’Italia. Come Firenze nel Trecento, noi tutti abbiamo
neutralizzato il pensiero di Dante, privilegiandone la forza poetica, come se questa potesse esistere per se
stessa. In realtà Dante si serve della poesia, ma il suo scopo è molto concreto, ed è la riforma della Chiesa
e dell’Impero, della società civile, della città, dei costumi individuali. Ma proprio questa sua ambizione è
stata nei secoli, e rimane tuttora più che mai inascoltata, frustrata. Anzi, si deve riconoscere che dei vizi
umani stigmatizzati da Dante con le sue requisitorie più feroci, alcuni sono divenuti indiscussi valori della
cultura e società occidentale. Si pensi soltanto all’‘ignavia’ dilagante nella vita politica, alla ricerca ossessiva
del vantaggio privato a spese del bene comune, all’indifferenza nei confronti della vita religiosa, alla
celebrazione della ‘diversità’ nella vita pubblica e privata, o alla liberalizzazione dei costumi sessuali.
Ciascuno di questi temi meriterebbe un trattamento particolare, ma qui mi propongo di trattare, per
quanto concisamente, un cosiddetto ‘valore’ sul quale si fondano in maniera ormai assiomatica molte delle
principali attività umane. Mi riferisco all’ingegno, ovvero l’intelligenza operativa, quel talento che permette
all’individuo, ai livelli più diversi dell’esperienza, di misurarsi con successo anche contro forze
apparentemente schiaccianti o prendere sempre nuove iniziative allo scopo di migliorare le proprie
condizioni di vita senza riguardo per il bene della comunità in cui vive. Dante condanna decisamente questo
genere d’intelligenza. Si pensi al caso di Guido da Montefeltro, canto XXVII dell’Inferno. Preso tra i due
fuochi della minaccia presente di papa Bonifacio e di quella futura, ma non meno grave, della giustizia
divina, Guido trova una ingegnosa scappatoia che gli permette di soddisfare alle richieste papali senza
compromettere – così almeno egli crede – i suoi rapporti col Padreterno. Il risultato di questa operazione
è positivo, almeno a breve termine: Guido riesce a salvare la pelle e a mantenere pulita l’anima, o almeno
così crede; tuttavia, sui tempi lunghi, la sua furbizia si rivela catastrofica perché per vincere la battaglia di
un giorno Guido perde la guerra della vita, cioè brucia la sua possibilità di salvarsi l’anima, che finisce
infatti dannata per sempre all’inferno. L’intelligenza di Guido ne provoca l’eterna rovina. Analogo, ma a un
livello di esperienza molto più alto e nobile, è il caso di Ulisse. Anche Ulisse usa la propria intelligenza nel
tentativo di giungere immediatamente e con le proprie forze dove non gli è permesso. Il risultato nel suo
caso è il drammatico naufragio che ne finisce questa vita e lo condanna nell’altra. Di nuovo, l’intelligenza
ha portato un grande personaggio a fare quel che non doveva, procurandone la rovina. In entrambi i casi,
il problema morale fondamentale e tuttora vivo, che Dante rappresenta in forma simbolica, è il problema
dell’intelligenza umana: come controllare l’intelligenza che Dio o madre natura ci ha dato, come vincere la
tentazione di lasciarla correre e operare liberamente. Dante lo dichiara esplicitamente iniziando il canto
XXVI dell’Inferno:
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e piú lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtú nol guidi;
sí che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
(Inf. XXVI 19-24)
Dante mette avanti questo suo concetto fin dall’inizio del canto di Ulisse, ma la critica tradizionale
non l’ha mai voluto porre al centro dell’interpretazione dei due personaggi che l’incarnano, Ulisse e Guido,
appunto, preferendo invece focalizzarsi sul peccato di frode, secondo me secondario. Che frode ci sia non
c’è dubbio, anche se non è quella che normalmente si indica; in verità la frode è il mezzo, la manifestazione
dell’oltranza dell’intelligenza, mentre è proprio sull’abuso o l’oltranza dell’intelligenza che Dante vuol invece
attrarre la nostra attenzione.
Si tratta di un problema morale, che si andava diffondendo a macchia d’olio nelle più progredite e
progressive città italiane tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, gli anni d’oro dello sviluppo socioeconomico fiorentino, ma è ancora attualissimo oggi. Per quanto riguarda il Due-Trecento basta pensare a
certe storielle del Novellino o, ancor meglio, del Decameron per capire che cosa ha in mente Dante. Molti
personaggi del Decameron fanno un uso spregiudicato, senza remore morali, della loro intelligenza allo
scopo di ottenere il successo nelle loro imprese, siano esse erotiche, commerciali, religiose o altro. Basti
pensare a un personaggio come Ser Ciappelletto che, pur essendo un farabutto senza scrupoli e un peccatore
inveterato, riesce con la sua intelligenza a farsi passare per santo proprio in punto di morte.
Il dato di fatto nuovo e rimarchevole è che l’uso immorale o, meglio, amorale dell’intelligenza non
è privilegio dei forti e potenti, degli intellettuali, o dei personaggi maschili; anzi, nel Decameron, l’intelligenza
è l’arma naturale propria dei personaggi in certo qual modo ‘inferiori’ o che vengono a trovarsi in una
situazione che li rende tali: un’arma per eccellenza democratica. Prendiamo, per esempio, il caso della
novella quarta della settima giornata. Vi ricordo la trama che è comunque notissima e deriva dal Novellino.
Tofano, uomo ricco ma sempliciotto, è sposato con l’avvenente Monna Ghita di cui è molto geloso senza
ragione alcuna, almeno inizialmente. Monna Ghita, risentita della gelosia del marito, incomincia a
intendersi discretamente – scrive Boccaccio, ed è qualificazione cruciale – con un giovane e s’ingegna di
trovare il modo per godere della sua compagnia. Fa ubriacare Tofano, al quale per altro piace bere,e quando
egli è sbronzo, lo mette a dormire mentre lei va a spassarsela col suo amante. Ma a un certo punto Tofano
s’insospettisce e decide di verificare. Una sera finge di essere ubriaco e di addormentarsi e, non appena la
moglie esce,chiude a chiave la porta di casa e corre ad aspettarla alla finestra. Ghita, rientrando dal convegno
adultero, si trova la porta sbarrata e il marito alla finestra che la svergogna ad alta voce minacciandola di
non farla entrare. Lei – saviamente, direbbe Boccaccio – lo prega di non gridare e non rendere pubblica la
loro vergogna, ma lui si rifiuta di cooperare. Ghita allora fa finta di gettarsi in un pozzo lì accanto e così
costringe Tofano, preoccupato, a uscire di casa per verificare. Quando lui apre la porta, lei corre dentro e
lo chiude fuori a sua volta. Va poi alla finestra e, tra lamenti e finte lacrime, lo svergogna accusandolo di
passare la vita all’osteria a bere. Con il suo stratagemma Ghita riesce a capovolgere la situazione; ma la cosa
non finisce lì: il marito viene picchiato di santa ragione dai parenti della donna. E la conclusione, degna di
nota, è che Tofano ritorna a vivere con Ghita, dandole anzi licenza “che ogni suo piacer facesse, ma sì
saviamente, che egli non se ne avvedesse”.
Potrei offrire decine di altri esempi, ma si arriverebbe sempre alla stessa conclusione. Mentre nella
Commedia l’uso dell’intelligenza è problematico e, in assenza di virtù, sfocia in questa o nell’altra vita nella
tragedia, nel Decameron l’intelligenza di questo o quel personaggio, per quanto spregiudicata, non si
costituisce mai in elemento di rottura; nel Decameron la trasgressione morale non è determinante per sé,ed
è solo la repressione degli impulsi naturali e/o l'infrazione delle convenzioni sociali a portare alla sconfitta
e alla tragedia; e ciò avviene o perché l'individuo agisce senza il sostegno di un'intelligenza mediatrice, o
perché si scontra contro le forze imprevedibili dell'avversa fortuna.
Un analogo uso amorale dell’intelligenza viene consigliato al principe anche da Machiavelli. Anche
nel Principe la bontà dell’azione non si misura in termini morali, ma in base alla sua efficacia. E come nel
Decameron l’immoralità privata ottiene l’approvazione dell’autore purché sia gestita discretamente, così nel
Principe il male (frode, violenza, omicidio), è permesso e incoraggiato, quando necessario, specialmente se
si può compiere in segreto. Machiavelli trasferisce alla vita politica e militare un codice di comportamento
condannato da Dante ma ampiamente documentato e collaudato nella vita privata, nonché nella letteratura,
dal Duecento in poi. Dopotutto, il modello dell’ibrido lione-golpe, che Niccolò consiglia al principe di
adottare, è proprio quello esplicitamente perseguito nella sua vita da Guido di Montefeltro, le cui opere, a
detta di Dante, furono appunto di volpe più che di leone.
Ebbene, mi si perdoni l’inevitabile generalizzazione, ma mi sembra che, almeno per questo rispetto,
la società italiana di ogni tempo e luogo non abbia seguito le indicazioni di Dante, ma quelle di Boccaccio
e Machiavelli, e che l’uso spregiudicato dell’intelligenza sia diventato canonico nella nostra vita nazionale,
tanto che, anche ai nostri giorni,chi non lo persegue per remore morali o mancanza appunto di intelligenza
viene spesso considerato un ‘fesso’ o un inetto. Potrei raccontare casi o episodi, che so, di ciechi o defunti
che ogni mese vanno a riscuotere la pensione alla guida della loro automobile, o di vigili urbani che marcano
il cartellino e poi se ne vanno per i fatti loro a far quel che più gli garba, o di deputati che vanno in pensione
senza aver servito un giorno, o funzionari piccoli e grandi che usano il denaro pubblico come risorsa privata,
per non parlare delle avventure salaci di uomini di stato. Come scriveva Giuseppe Prezzolini già nel lontano
1921 nel suo Codice della vita italiana: "L'italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino
all'ammirazione di chi se ne serve a suo danno. Il furbo è in alto in Italia non soltanto per la propria furbizia,
ma per la reverenza che l'italiano in generale ha della furbizia stessa".
Ora, la possibilità di frodare lo stato o il prossimo senza pagare lo scotto né in questa vita né, grazie
alla confessione, in quella eterna viene notevolmente incrementata nella cultura cattolica dall’accessibilità
di una misericordia che rimane sempre disponibile, a norma di dottrina, finché si è in vita, epperò la
responsabilità per le proprie azioni non è mai definitiva e irreversibile. Al contrario, che cosa suggeriva il
cattolicissimo e intransigente Alighieri?
“e piú lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtú nol guidi”
L’intelligenza, dice Dante, va sorvegliata e tenuta a freno dalla virtù – virtù intesa come
responsabilità civile, sociale,etica; virtù perseguita in nome del bene comune,e dunque non esclusivamente
religiosa. Consapevolezza che, una volta compiute, le azioni non si ‘s-compiono’, non si disfano, e i danni
che esse fanno sono irrimediabili, e irreversibile la nostra colpa nel farli, checché ne dica la dottrina della
Chiesa. Ora, il fatto che questa consapevolezza non si sia diffusa in Italia fino a diventare parte della cultura
nazionale non la rende meno importante e auspicabile,e quindi attuale: è un caso tipico che dimostra come
settecento anni di lettura della Commedia non sono stati sufficienti a far sì che il messaggio di Dante venga
non soltanto recepito, ma anche messo in pratica.
Ma questo è solo il versante per così dire ‘guidesco’ o, se si vuole, ‘comico’ dell’attualità di Dante.
Un altro versante, il versante, diciamo, ‘ulissico’ o tragico, è di ancor più impressionante attualità. Anzi in
questo campo, con il passare del tempo, l’intuizione di Dante si rivela sempre più profeticamente attuale.
Mi riferisco all’applicazione dell’intelligenza a fini non soltanto filosofici e speculativi, ma più propriamente
scientifici. Che cos’è infatti la montagna altissima che Ulisse vede in mezzo all’oceano e a cui cerca di
approdare con la sua nave? È chiaramente, e non per caso – sempre secondo la geografia dantesca – l’isola
della montagna del Purgatorio, la montagna sulla cui cima si trova il paradiso terrestre, patria originale dei
nostri primi parenti, perduta per sempre a causa della loro ambizione. È questa la meta che Ulisse vuole più
o meno consciamente raggiungere. Avendo esplorato la terra intera, Ulisse è ora in cerca di qualcosa che
può esistere solo oltre i limiti terrestri, il suo vero centro, la sua vera patria. È cioè in cerca del paradiso o
della felicità in terra. Ma Ulisse è pagano e peccatore, in quanto autore di mitiche frodi; non sa che nessuno
può ritornare al paradiso terrestre prima che Cristo lo riapra agli uomini. Pagano e peccatore, egli tenta di
ritrovare il paradiso terrestre confidando soltanto su intelligenza, volontà e tecnologia navale. Per Dante
questa è un’impresa impossibile e proibita: la salvezza eterna richiede un “altro viaggio” (Inf. I 91), fatto con
mezzi diversi – un viaggio che passi attraverso l’umiltà e l’amore, e per essere più precisi la fede, la speranza
e la carità, non attraverso l’intelligenza e la forza di volontà. Quello di Ulisse è dunque un tentativo
immensamente nobile e intelligente in quanto, in tutta evidenza, nella direzione giusta, ma oggettivamente
presuntuoso e superbo, in quanto sfida a un limite invalicabile. La sua tragedia è un monito agli uomini a
non confidare troppo o soltanto nell’intelligenza, a non lasciarla correre senza il controllo della virtù – un
monito che è diventato particolarmente opportuno e tempestivo negli anni recenti, da quando la nostra
società si va dimostrando così tragicamente vulnerabile alle proprie invenzioni. “Che virtú nol guidi”: dicevo
virtù come responsabilità civile, sociale, etica; consapevolezza che, una volta inventate, le cose non si
disinventano e possono rivoltarsi proprio contro il loro inventore. Si pensi all’artefice Perillo, al suo
ingegnosissimo, atroce bue, che proprio lui, che l’avea temperato con sua lima, è costretto a sperimentare
per primo (Inf. XXVII 7-12).
La questione morale che i canti XXVI e XXVII dell’Inferno mettono a fuoco è fondamentale per
tutti i tempi e i luoghi. Che cosa è lecito fare con il nostro ingegno? Fino a che punto possiamo spingerci?
Siamo giustificati a perseguire qualsiasi genere di ricerca, obiettivo scientifico, o ambizione intellettuale
senza considerarne le conseguenze? La clonazione umana, la ricerca staminale, le armi chimiche o le armi
di distruzione di massa, l’invenzione, produzione e l’uso di materiali praticamente indistruttibili che
inquinano irreversibilmente la terra o riscaldano irreversibilmente l’atmosfera? Dove mettiamo le nostre
Colonne d’Ercole, i confini oltre i quali non possiamo, non vogliamo andare? Questo è il dilemma che
ispira il canto XXVI dell’Inferno. Ulisse esprime l’inquietudine dell’intelligenza laica – il bisogno, l’impulso
umanissimo di cercare risposte, di andare oltre l’orizzonte della nostra esperienza; il poeta ne inventa la
tragica fine per mettere in guardia chi ha troppa fiducia nel proprio ingegno.
Ma di nuovo, chi lo ascolta Dante? Chi tarpa le ali alla propria intelligenza per paura che vada a far
male a se stessa? Nel campo delle armi nucleari esiste la dottrina della spettacolare MAD, la mutually assured
destruction, secondo la quale le intelligenze micidiali si controllano ed elidono a vicenda rendendo
impossibile la obliterazione dell’una proprio perché comporterebbe la simultanea obliterazione dell’altra.
Io non mi sento per niente sicuro che la diffusione delle armi di distruzione di massa ne impedisca per
sempre l’impiego, volontario o accidentale che sia. In ogni caso il monito di Dante è buono anche per forme
molto più insidiose e diffuse di tecnologia senza le quali non si riesce più a vivere. Basti pensare
all’apparente mente innocua e comodissima busta di plastica che, moltiplicata per milioni di milioni, va a
formare, insieme con altre immonde cianfrusaglie, non paradisi terrestri ma isole di spazzatura in mezzo
agli oceani ...
Ma, un momento: si possono veramente mettere i bastoni della virtù tra le ruote dell’intelligenza?
La risposta è certo positiva sul versante, diciamo così, ‘guidesco’ dell’agire umano, nel quale la natura
fraudolenta e immorale dell’azione è chiara fin dal momento in cui la si concepisce. Ma sul versante ‘ulissico’
il discorso è molto diverso. Non sempre si possono prevedere e immaginare le conseguenze delle scoperte
dell’intelligenza. Il motore a scoppio non è certo stato inventato per inquinare l’atmosfera, né l’aereo per
essere scagliato contro i grattacieli, né il gas per asfissiare milioni di esseri umani.
La tragedia dell’Ulisse dantesco rispecchia e rivela in ultima analisi la condizione tragica
dell’intelligenza umana. In termini molto semplici, l’innato desiderio di conoscere dell’uomo, acclamato da
Dante fin dall’esordio del Convivio, lo espone a rischi imprevisti, imprevedibili e sempre più catastrofici. È
la scoperta esaltante e allo stesso tempo terrificante che Primo Levi fa in Se questo è un uomo alla fine delle
sue riflessioni sul canto di Ulisse. Ebbene, Dante ammonisce e consiglia, e il fatto che i suoi ammonimenti
e i suoi consigli vadano inascoltati non lo rende meno attuale. Anzi. Aveva visto giusto Gianfranco Contini
che, esattamente cinquant’anni fa, nel settecentesimo anniversario della nascita del poeta, concludeva un
suo magistrale saggio con queste parole: “L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non
è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di
lui”. L’attualità di Dante è di quelle che non sono legate a un tempo e a un luogo. Il che non significa che
non sia perseguibile, ma piuttosto che settecento anni dopo la morte del poeta non abbiamo ancora
incominciato a perseguirla, e forse proprio nella sfida e nell’ammonimento perenne che la Commedia propone
sta il segreto della sua inestinguibile vitalità.
Lino Pertile, nato nel 1940 nei pressi di Padova, è Professore di Lingue e Letterature Romanze all’Università di Harvard. Si è laureato in Lettere all’Università di Padova e ha insegnato nelle Università di Reading, Sussex e Edimburgo prima di giungere a Harvard. È l’attuale Rettore della Eliot House, il più prestigioso tra i colleges di Harvard. Nel 2005 è stato nominato Harvard College Professor, uno speciale riconoscimento assegnato a quei docenti che hanno investito la maggior parte del loro tempo e della loro energia nell’insegnamento universitario.
I suoi principali interessi di ricerca sono attualmente Dante, la cultura veneta del Cinquecento e il Novecento. È specializzato nello studio di Dante e della Commedia, un campo nel quale ha pubblicato ampiamente. I suoi studi riguardano inoltre il Medioevo latino, Bembo e la questione della lingua, la letteratura rinascimentale in Francia e in Italia, Foscolo, Leopardi e i romanzi italiani del XX secolo.
Ha pubblicato numerosi saggi e articoli sulla letteratura italiana (Bembo e Trifon Gabriele) e francese (Montaigne) del Cinquecento, sul Trecento, sull’Ottocento (Leopardi) e sul Novecento (Pavese, Moravia, Fo, la narrativa contemporanea).
Ha curato i seguenti volumi: La scena del mondo. Studi sul teatro per Franco Fido, con A. Oldcorn e R. Syska-Lamparska, Ravenna, Longo, 2006; In amicizia. Essays in Honour of Giulio Lepschy, con Z. G. Baranski, Reading 1998; The Cambridge History of Italian Literature, con C.P. Brand, Cambridge University Press, 1996, (revised paperback edition, 1999); The New Italian Novel, con Z. G. Baranski, Edinburgh University Press, 1993, (paperback ed. 1998).
Come dantista, oltre a molti articoli, ha pubblicato i volumi: La punta del disio. Semantica del desiderio nella ‘Commedia’ di Dante, Firenze, Cadmo, 2005; La puttana e il gigante: dal "Cantico dei cantici" al Paradiso terrestre di Dante, Ravenna, Longo, 1998. Ha inoltre curato l’edizione critica delle Annotationi nel Dante fatte con M. Trifon Gabriele in Bassano, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1993. Ha inoltre prestato la sua voce per la registrazione del testo dell'intera Commedia per il Pricenton Dante Project.