martedì 14 agosto 2018

"Nel mezzo del cammin", 2. "Vita Nova: l'amore per Beatrice", a cura di Franco Nembrini

Seconda puntata - andata in onda su TV2000 il 14 dicembre 2015 - della sfida che si è scelto Franco Nembrini: portare Dante in tv, senza essere Benigni, senza essere un accademico, ma semplicemente un professore di lettere, in grado però di incollare allo schermo. Perché Dante parla di noi, perché parla dell’uomo all’uomo, del suo desiderio di verità, bene, bellezza. Che solo in Dio trovano compimento. Questa è la lotta, questo il cammino. Davvero giubilare, come fu per Dante nel primo Giubileo della storia, così anche oggi: la Divina Commedia è il poema della misericordia, il vero annuncio del cristianesimo. In questa seconda tappa Nembrini accosta i versi della Vita Nova: l’amore cortese, certo, l’origine della lingua, ma soprattutto l’anticipo della Commedia, perché senza la ferita della morte di Beatrice il Poema non sarebbe nato. 
Programma in 34 puntate che porta a compimento la sperimentazione fatta nell'anno precedente con il ciclo breve “El Dante”, e che (a 750 anni dalla nascita del Sommo Poeta) propone un approfondimento culturale sulla misericordia, tema cardine del Giubileo Straordinario che ha avuto inizio l'8 dicembre 2015 e si è concluso il 20 novembre 2016. Insieme a Nembrini, in studio, una platea di giovani che, attraverso le domande, cercano di capire meglio la vita e le opere del Poeta subìto svogliatamente da milioni di alunni sui banchi di scuola. Le risposte, oltre che dal professore, arrivano anche attraverso i dipinti appositamente realizzati da Gabriele Dell’Otto, fumettista e illustratore della Marvel. Al centro dello studio, ideato e allestito come cantiere, come spazio di costruzione dell’umano, prende forma, di canto in canto, di settimana in settimana, una statua dedicata al Sommo Poeta e al suo Amore, Beatrice, i cui occhi sono guida e destino della poesia e della scoperta di Dio.

Fonte: pagina di www.tv2000.it



* Franco NEMBRINI nasce a Trescore Balneario (Bergamo) il 15 agosto del 1955. Insegnante di religione (il primo laico della diocesi bergamasca), diventa uno dei responsabili di Comunione e Liberazione di Bergamo, si sposa e ha quattro figli maschi. Nel 1982 si laurea in Pedagogia alla Cattolica di Milano e, qualche tempo dopo da inizio alla scuola media libera “La Traccia” di Calcinate (Bergamo). Intanto insegna italiano negli istituti tecnici.
Dal 1999 al 2006 è presidente della Federazione Opere Educative (FOE), l’associazione di scuole paritarie legata alla Compagnia delle Opere. Nello stesso periodo fa parte del Consiglio nazionale della scuola cattolica e della Consulta nazionale di pastorale scolastica della CEI, nonché della Commissione per la parità scolastica del Ministero dell’Istruzione. Insegna nella scuola statale fino all’estate del 2009 quando deve lasciarla per motivi di salute, conservando però l’incarico di Rettore del centro scolastico “La Traccia” fino all’estate del 2015.
Negli ultimi anni, a seguito dell’inatteso successo dei suoi libri Dante poeta del desiderio e Di padre in figlio è stato chiamato a parlare di educazione e di Dante in tutta Italia e all’estero, in particolare in Spagna, Portogallo, America Latina e nei paesi del mondo russofono (Russia, Ucraina, Kazakhistan, Siberia). Fonda nel 2012 una piccola casa editrice, la Centocanti, con la quale pubblica un cofanetto di dvd El Dante e il suo commento al Miguel Manara di Milosz. Proprio il cofanetto di El Dante, realizzato nel 2012, attira l’attenzione di Tv2000, emittente della CEI, che propone a Franco di raccontare in televisione la sua passione per Dante e per la letteratura. Nasce così il ciclo di 34 puntate “Nel mezzo del Cammin”, mandato in onda tra il 2015 e il 2016. A seguito del successo ottenuto, nel 2016 realizza, sempre per Tv2000, “L’avventura di Pinocchio”

mercoledì 8 agosto 2018

"Nel mezzo del cammin", 1. "Dante e il Medioevo", a cura di Franco Nembrini

Con Dante e il Medioevo ha preso il via, lunedì 7 dicembre 2015, alle 21.05, sul canale televisivo TV2000, Nel mezzo del cammin, appuntamento settimanale con Franco Nembrini, esperto divulgatore di Dante Alighieri, per rileggere la Divina Commedia, approfondirne i contenuti, riflettere sul desiderio di verità, libertà e giustizia che i suoi versi suggeriscono. 
Programma in 34 puntate che porta a compimento la sperimentazione fatta nell'anno precedente con il ciclo breve “El Dante”, e che (a 750 anni dalla nascita del Sommo Poeta) ha proposto un approfondimento culturale sulla misericordia, tema cardine del Giubileo Straordinario che ha avuto inizio l'8 dicembre 2015 e si è concluso il 20 novembre 2016.
Insieme a Nembrini, in studio, una platea di giovani che, attraverso le domande, hanno cercato di capire meglio la vita e le opere del Poeta subìto svogliatamente da milioni di alunni sui banchi di scuola. 
Le risposte, oltre che dal professore, sono arrivate anche attraverso i dipinti appositamente realizzati da Gabriele Dell’Otto, fumettista e illustratore della Marvel. 
Al centro dello studio, ideato e allestito come cantiere, come spazio di costruzione dell’umano, ha preso forma, di canto in canto, di settimana in settimana, una statua dedicata al Sommo Poeta e al suo Amore, Beatrice, i cui occhi sono guida e destino della poesia e della scoperta di Dio 

Fonte: pagina di www.tv2000.it




Franco NEMBRINI nasce a Trescore Balneario (Bergamo) il 15 agosto del 1955. Insegnante di religione (il primo laico della diocesi bergamasca), diventa uno dei responsabili di Comunione e Liberazione di Bergamo, si sposa e ha quattro figli maschi. Nel 1982 si laurea in Pedagogia alla Cattolica di Milano e, qualche tempo dopo da inizio alla scuola media libera “La Traccia” di Calcinate (Bergamo). Intanto insegna italiano negli istituti tecnici.
Dal 1999 al 2006 è presidente della Federazione Opere Educative (FOE), l’associazione di scuole paritarie legata alla Compagnia delle Opere. Nello stesso periodo fa parte del Consiglio nazionale della scuola cattolica e della Consulta nazionale di pastorale scolastica della CEI, nonché della Commissione per la parità scolastica del Ministero dell’Istruzione. Insegna nella scuola statale fino all’estate del 2009 quando deve lasciarla per motivi di salute, conservando però l’incarico di Rettore del centro scolastico “La Traccia” fino all’estate del 2015.
Negli ultimi anni, a seguito dell’inatteso successo dei suoi libri Dante poeta del desiderio e Di padre in figlio è stato chiamato a parlare di educazione e di Dante in tutta Italia e all’estero, in particolare in Spagna, Portogallo, America Latina e nei paesi del mondo russofono (Russia, Ucraina, Kazakhistan, Siberia). Fonda nel 2012 una piccola casa editrice, la Centocanti, con la quale pubblica un cofanetto di dvd El Dante e il suo commento al Miguel Manara di Milosz. Proprio il cofanetto di El Dante, realizzato nel 2012, attira l’attenzione di Tv2000, emittente della CEI, che propone a Franco di raccontare in televisione la sua passione per Dante e per la letteratura. Nasce così il ciclo di 34 puntate “Nel mezzo del Cammin”, mandato in onda tra il 2015 e il 2016. A seguito del successo ottenuto, nel 2016 realizza, sempre per Tv2000, “L’avventura di Pinocchio”.

martedì 7 agosto 2018

In viaggio verso Dio: il Paradiso di Dante letto dal cardinale Carlo Maria Martini


«Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23, 43). 
È la promessa fatta da Gesù al ladro sulla croce e fatta a tutti coloro che volgono lo sguardo implorante a quel costato trafitto («in quel che, forato da la lancia, / e prima e poscia tanto sodisfece / che d'ogne colpa vince la bilancia», Par. XIII 40, 42). È la manifestazione della gloria e della misericordia di Dio; ed è la promessa che il cristiano Dante, per grazia, ha come pregustato in modo del tutto particolare.
Il cammino della sua esistenza, come il viaggio raccontato nel poema sacro, è interamente sostenuto da questo desiderio di essere con Cristo, di poter contemplare la sua gloria, il suo "volto", senza mediazioni, faccia a faccia, in quella visione-comunione in cui si placherà l'ansia di ogni umana ricerca. Il principio agostiniano - «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» - è alla base di tutto il pellegrinaggio della Commedia, connotato fin dall'inizio dalla ricerca di un vero «in che si queta ogne intelletto» (Par. XXVIII 108) e dall'adesione amorosa alla Sua volontà, nella quale soltanto è la nostra pace. Quando noi vogliamo ciò che Lui vuole, ogni nostro vero desiderio è sostenuto da Lui. 
Desiderio e inquietudine sono spia evidente dell'umano limite, ma si rivelano, d'altra parte, interna testimonianza dell'esistenza di un Bene che non delude, perché anche ciò che affascina l'uomo allontanandolo da Dio non è altro che "vestigio", traccia mal conosciuta del divino splendore. Questo Bene, per il cristiano Dante, ha un volto. Il volto di Dio «Non nascondermi il tuo volto» (Sal 26, 9). L'accorata invocazione accompagna integralmente l'itinerarium mentis in Deum del poeta: «Lume è là sù che visibile face / lo creatore a quella creatura / che solo in lui vedere ha la sua pace» (Par. XXX 100-102). 
Ogni «più vedere» è scoperta, o riscoperta, di un aspetto del volto di Dio; dalla sua "gloria" che risplende in tutto l'universo, al mistero trinitario, radice di ogni essere e di ogni bene. Dio è l'eterno, il punto «a cui tutti li tempi son presenti» (Par. XVII 18); è infinito, è Bene «che non ha fine a sé con sé misura» (XIX 51); ma soprattutto è amore, è luce che «sola e sempre amore accende» (V 9), è l'amore che muove il sole e le altre stelle, e l'intera creazione è unicamente libera, gratuita espansione dell'amore divino, nata nel giorno in cui «s' aperse in nuovi amor l'etterno amore» (XXIX 18). E questo amore ha, naturalmente, il volto cristiano del mistero trinitario. Dante si accanisce quasi a tradurre in parole umane l'appassionata contemplazione del mistero, a volte semplicemente parafrasando le formule della fede («e credo in tre persone etterne, e queste / credo una essenza sì una sì trina, / che soffera congiunto "sono" ed "este"») (XXIV 139-141), altre riducendo quasi l'immagine a numero in un supremo tentativo di sintesi (XIV 28-30), e altre ancora affidandosi all'elemento paradisiaco per eccellenza, quello della luce: «O luce etterna che sola in te sidi, / sola t' intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!» (XXXIII 124-126).
L'esclamazione conclude la rappresentazione dei «tre giri / di tre colori e d'una contenenza» (116-117) - uno come arcobaleno riflesso dall'altro, mentre il terzo sembra fuoco che spiri da entrambi - ma non conclude la "visione", non è questo il fine cui tende l'ardore dell'umano desiderio. Nell'immagine riflessa Dante vede, dello stesso colore, la nostra effige: questa è la realtà "ultima", il volto umano nel secondo cerchio. Tutto dipende dal comprendere «come si convenne l'imago / al cerchio» (137-138), come nell'eterno giro stia l'immagine di un volto umano, come abbia potuto accadere che il Verbo di Dio si sia fatto uomo.
Da questo evento è sorretto ogni passo del pellegrinaggio, questa è l'ultima visione. Ora Dante sa che il mondo è finito, ma insieme conservato nell'essere per sempre; che l'esistenza umana è limitata e passeggera ma rimane vera nell'eternità di Dio; che l'uomo è un soffio, ma quanto compie nel tempo ha valore eterno.

La città di Dio e la città dell'uomo
D'altra parte soltanto lasciando che lo sguardo sprofondi sempre maggiormente nella luce di Dio, in quel volto che sempre "eccede" la nostra capacità di comprensione e di amore, è possibile scoprire la vera immagine di quelle realtà che portano impresse il suo sigillo, a cominciare da quella santa sposa che Cristo fece sua «ad alte grida» e col suo «sangue benedetto». In Dio Dante riscopre il vero volto della chiesa voluta da Cristo, la chiesa degli apostoli, costruita unicamente sul «verace fondamento» della parola del Maestro: nella buona battaglia per la diffusione della fede il vangelo soltanto fu «scudo e lancia». Senza oro né argento, «magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello» (XXI 128-129), Pietro e Paolo sparsero il buon seme della parola fecondandolo con il loro sangue; e così fecero Lino, Anacleto, Sisto, Pio, Callisto, Urbano...
Questa chiesa amarono e servirono Benedetto, Francesco, e tutti gli altri che non hanno deviato dal loro insegnamento. Quasi riflesso civile della chiesa "apostolica" e "monastica" è la Firenze antica, dove, nella primitiva cerchia delle mura, una campana segna ancora le ore conferendo un senso profondamente religioso al trascorrere del tempo, e la felicità pacifica dei vecchi cittadini sembra strettamente collegata alla sobrietà della loro vita: non vestiti tanto vistosi da imporsi alla considerazione più delle persone stesse, non case vuote, non camere testimoni di lusso e di lussuria. Le donne lavorano tranquille in casa e si occupano amorevolmente dei propri bambini, parlano con loro e ne calmano il pianto adattandosi alla tenera lingua infantile. In questa Firenze di riposata convivenza civile, senza odi, tra cittadini fidati, dove tutto cooperava a una semplice ma solida vita familiare e politica, vivere era dolce. 
L'ombra della fede, per la quale anche il trisavolo Cacciaguida ha sacrificato la propria esistenza passando dal martirio alla pace del paradiso, si estende protettiva sulla vita pubblica, persuadendo al rispetto dei valori. Certo nessuno vede tanto chiaramente anche il male quanto chi vede tutto in Dio. Il volto della chiesa e dello stato è orribilmente sfigurato da quella insaziabile cupidigia considerata da san Paolo una specie di idolatria. La casa del Signore corre sempre il rischio di diventare «spelonca di ladri», soprattutto quando sono fuorviati, e fuorvianti, gli stessi pastori. I privilegi sono venduti e falsificati, le divisioni lacerano anche la chiesa, le offerte sono sottratte ai poveri che ne sono i legittimi proprietari, la Scrittura è trascurata o contraffatta e i predicatori, per orgoglio o vanità, raccontano le favole di una superficiale sapienza mondana tesa unicamente a solleticare l'uditorio; e pochi ormai salgono la santa «scala di Giacobbe» nel silenzio orante dei chiostri, mentre fede e innocenza sembrano appannaggio soltanto dei bambini. 
La sete dei facili guadagni e l'inurbamento incontrollato sembrano aver travolto definitivamente anche la possibilità di una sicura e serena convivenza civile. Falsità, superbia, «la lussuria e 'l viver molle» (XIX 124), avarizia e viltà hanno contagiato gli stessi principi. Quando la città dell'uomo è ridotta a luogo di scambi economici, perdendo di vista la necessità di relazioni simboliche, affettive, culturali e religiose, diventa inevitabilmente "noverca", matrigna, lasciando il cittadino orfano, sradicato. Ma il cristiano Dante, il figlio della chiesa militante dotato di più grande speranza, ha la grazia di poter contemplare la luce del trionfo di Cristo che con la sua Pasqua ha nuovamente riaperto agli uomini la via del cielo: ancora una volta l'intervento divino raddrizzerà la barca di Pietro «e vero frutto verrà dopo ' l fiore» (XXVII 148).
La storia è guidata da una Provvidenza che è sapienza e amore, e nulla può impedire la salvezza, se non il definitivo uso distorto del dono grande e terribile della propria libertà. Entrano in paradiso Raab, la prostituta, e la debole Piccarda; gli spiriti "attivi" con il loro amore per la fama e per la gloria e il vecchio Salomone con i suoi cedimenti; Romeo che abbandona il proprio posto perché ingiustamente calunniato e Folchetto con la sua inclinazione amorosa. La salvezza viene dalla fede in Cristo, ma nessuno ne è escluso a priori, come testimonia la presenza del pagano Rifeo; piuttosto il monito è ancora quello evangelico, rivolto a chi dice "Signore, Signore" e che si troverà, nel giorno del giudizio, «assai men prope / a lui, che tal che non conosce Cristo» (XIX 107- 108). 

Grazia e missione 
Soprattutto lo sguardo rivolto dal paradiso alle vicende umane non può essere sguardo che estrania, che sottrae alla solidarietà; il mondo resta «l'aiuola che ci fa tanto feroci» (XXII 151). La tragica vicenda terrena segnata dall'odio e dalla violenza è come placata nell'immagine dell'aiuola, ma il pronome ci riconsegna il pellegrino Dante - che pur si è liberato dai «difettivi silogismi» che fanno «in basso batter l'ali» - coinvolto nel destino dell'intera comunità umana. Il paradosso centrale della fede, il mistero dell'Incarnazione, è principio di ogni paradiso. Come testimonia anche la grande intuizione di Dostoevskij: il paradiso si realizza "oggi" se ci si rende responsabili "di tutto e per tutti" e si chiede perdono "di tutto e per tutti", accettando con umile disponibilità il comune cammino di espiazione. 
L'itinerario in Deum è anche - sempre - momento di conversione; come per Dante, anche per ogni cristiano il desiderio dell'eterna beatitudine è insieme motivo per cui piangere spesso il proprio peccato percuotendosi il petto, nell'umile, e profondamente vera, convinzione che non esistono peccati soltanto "di altri". In particolare per chi ha maggiormente ricevuto. Ogni dono di Dio è grazia e missione insieme. Quella di Dante riceve il sigillo papale da san Pietro stesso che, di fronte al tralignare delle più alte autorità e alla conseguente degenerazione della cristianità, prospetta tutta l'urgenza del servizio alla verità per una nuova "rievangelizzazione": «e tu figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca / e non asconder quel ch'io non ascondo» (XXVII 64-66). Ma l'accettazione era già avvenuta nell'incontro con Cacciaguida che, con paterna sollecitudine, lo aveva indotto a vedere con occhi nuovi le circostanze della sua vita, e ad affrontare l'esilio non come pietra d'inciampo, ma come occasione privilegiata per il realizzarsi del disegno divino su di lui. Ogni cammino cristiano è un prendere la croce per seguire Cristo; il sacrificio del suo troppo parziale progetto di felicità è per Dante in funzione di un radicale "fare la verità" possibile soltanto nella piena obbedienza a Dio, con l'umiltà del peccatore perdonato e la gratitudine di un "figlio della grazia". 

La bellezza della vita redenta
La dilatazione dell'itinerario attraverso cieli "sensibili" permette al poeta di tracciare, nel dramma dell'eterna lotta tra bene e male, le grandi strade della santità, mostrando tutta la bellezza di una vita umana perfettamente riuscita proprio perché pienamente cristiana. È la storia degli apostoli, innanzitutto, e poi di Francesco, perdutamente innamorato di colei che «con Cristo pianse in su la croce» (XI 72); di Domenico, interamente consacrato alla diffusione e alla difesa della fede; di san Pier Damiani che sopporta sereno ogni disagio «contento né pensier contemplativi» (XXI 117); di Benedetto che, a imitazione degli apostoli, inizia la sua opera «con orazione e con digiuno» (XXII 89); di Bernardo che già in questo mondo contemplando gustò la pace del cielo... è, soprattutto, la storia di Maria, la Vergine Madre che ha richiuso la piaga aperta da Eva e ora rifulge al vertice di ogni umana perfezione, specchio fedele del volto di Cristo: «Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia» (XXXII 85-86). In Maria, «umile e alta piu che creatura», la natura umana raggiunge il culmine della perfezione permettendo al creatore di prendere carne in lei, diventando sua creatura. 
L'umile fanciulla ebrea, totalmente disponibile alla grazia, manifesta ora in pienezza quanto Dio riesca a innalzare e glorificare un cuore docile: «In te misericordia, in te pietate, / in te magnificenza, in te s'aduna / quantunque in creatura è di bontate» (XXXIII 19-21). 

Beatitudine e carità 
Nel progredire del suo cammino Dante fa continuamente esperienza di come la carità sia la manifestazione più chiara e visibile della beatitudine: i santi che si chinano con affettuosa comprensione all'ascolto del pellegrino, o ne prevengono le richieste leggendole in Dio, mostrano sempre un accrescimento di gioia che si traduce in bagliori di luce, danze, indicibili armonie, mostrando così tutta la loro conformità con la «divina voglia» che è amore senza confini. 
La lezione più alta verrà da Bernardo nel momento decisivo quando, rivolgendosi alla mediatrice di ogni grazia con un fervore di carità che coinvolge tutti i cittadini della candida rosa, chiederà per Dante la grazia di alzare gli occhi al «sommo piacer» con l'intensità di una preghiera che non potrebbe essere più ardente nemmeno se fosse in gioco la propria «ultima salute». «E io, che mai per mio veder non arsi / più ch'i fo per lo suo, tutti miei prieghi / ti porgo, e priego che non sieno scarsi» (XXXIII 28-30). Desiderare per gli altri, con la stessa intensità, quanto desideriamo per noi stessi, quasi immedesimandoci: questa è carità, e questo è "paradiso". 
Mentre in terra l'invidia fa sì che la partecipazione di un maggior numero allo stesso bene renda minore la pienezza di ciascuno, in paradiso amore e beatitudine si dilatano con l'accrescersi del numero dei beati. Per giungere a questo occorre unificare, ricondurre all'Uno, le diverse tendenze della nostra anima, gli "infiniti stranieri" in noi, facendo della nostra vita una casa accogliente in cui possano convivere, in pace, intelligenza e affettività, presente e futuro, desiderio del piacere e attesa della beatitudine. Soltanto delle persone "unificate" potranno ricostruire una società non fondata sulla prepotenza dell'uno sugli altri, ma sull'accoglienza e la valorizzazione di ciascuno come portatore di un dono unico, indispensabile alla pienezza della gioia di tutti. Paradiso, allora, è pace, ma non immobilismo. Perché l'amore si alimenta continuamente, ma anche perché la chiesa della candida rosa ama, prega e spera per noi, partecipa alla nostra storia, come aveva intuito, nella sua semplicità e profondità, santa Teresa di Lisieux: «Passerò il mio cielo a fare del bene sulla terra».

Beatrice
Accompagna il viaggiatore dell'assoluto in quest'ultima parte dell'umano-divino itinerario - che è viaggio compiuto anche col corpo, a ribadire la novità del mistero dell'Incarnazione che innalza l'uomo, con la sua carne e la sua storicità, nell'eterna realtà di Dio - la donna della sua giovinezza. E Beatrice lo invita a rivolgere a lei il suo sguardo proprio per essergli guida nel mondo del divino. Ciò che conduce l'uomo a Dio è sempre un'esperienza affettiva particolarmente intensa, e Beatrice è per Dante quello spazio umano in cui Dio si è fatto presente, quasi sensibile. L'incontro con l'ineffabile non comporta il dissolversi dell'io e dei suoi rapporti; nessun affetto umano è cancellato se in esso Dio non era assente. L'amore che l'uomo riversa sulla propria donna, sui figli, sugli amici, su tutto il suo prossimo, acquista senso e valore definitivi se la donna, i figli, gli amici e il prossimo sono amati in Dio. 
Il legame affettivo anziché sminuirsi è riscattato da ogni egoismo e dilatato fino a comprendere anch'esso «e cielo e terra». Il "ritorno" a Beatrice permette a Dante di fondere l'ardore della ricerca intellettuale con il calore dell'umana esperienza, trasformando in un canto di lode alla Bellezza il suo desiderio di verità e di giustizia. Non si tratta di qualcosa a margine o eccedente la missione ricevuta; il «sacrato poema» è esso stesso segno dell'ordine di Dio nel mondo e appello agli uomini a non «torcer li piedi» dal Vero che appaga ogni intelletto, che è pure «somma beninanza» e bellezza senza pari. 

Oggi 
Il cammino e la parola del poeta-profeta sono sempre per l'oggi; l'ascesa di Dante al sommo Bene è anche in funzione del nostro "santo viaggio". Sempre attuale e urgente risulta l'appello alla renovatio rivolto anzitutto alla chiesa e che si configura come un ritorno alla vita "apostolica", caratterizzata essenzialmente dal primato della parola evangelica - che ha come conseguenza una totale disponibilità nei suoi confronti, fino al dono della vita -, da un forte recupero della "dimensione contemplativa" e dalla gioiosa accettazione della povertà per il regno, liberi da rimpianti e da paralizzanti sensi di colpa, e riconoscenti nei confronti di Dio che può sempre trasformare in amore vero anche i nostri troppo umani desideri.
La missione profetica e "teologica" è affidata a ogni cristiano. E se l'essere profeti esige il coraggio della "parresia", non bisogna tuttavia dimenticare che la verità da riproporre al mondo e alla chiesa deve essere anzitutto "contemplata" in Dio. E questo è di vitale importanza per una teologia, e anche per una filosofia, che dovranno unire la passione della ricerca con il gusto della bellezza e la capacità di riconoscere i propri limiti, sottraendo la ragione a un uso distorto che mortifica il mistero ma mortifica anche la ragione stessa. L'ideale della convivenza civile, poi, risulta chiaramente e sinteticamente indicato dalla triplice connotazione della Firenze antica: in pace, sobria e pudica. 
Dove sobrietà e pudore sembrano essere condizioni indispensabili alla pace e investono anche la coscienza di sé e del proprio potere, la relatività delle proprie opinioni e il bisogno dell'altro per la realizzazione del bene comune. Per ciascuno resta soprattutto il senso della corresponsabilità, il "mai senza l'altro", la capacità di sentire come proprio il male del mondo e di unificar l'esistenza affinché le nostre passioni e i nostri affetti diventino capaci di costruire rapporti "ecclesiali", di tenerci uniti come convocati da Dio, per incamminarci verso di lui e essere con lui, "oggi", in paradiso.  

Dalla pagina di www.repubblica.it

* Carlo Maria MARTINI (Torino 1927-Gallarate 2012), gesuita, fu ordinato presbitero nel 1952. Nel 1958 conseguì il dottorato in teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana e nel 1966 sia laureò in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico. Dello stesso Istituto divenne quindi docente e rettore. Nel 1978 divenne quindi rettore della Gregoriana, ufficio che resse fino alla fine dell'anno successivo quando fu eletto Arcivescovo di Milano. Nel 1983 papa Giovanni Paolo II lo creò cardinale del titolo di Santa Cecilia. Dal 1986 al 1996 fu Presidente delle Conferenze dei Vescovi d'Europa. Dalla rinuncia alla cattedra di sant'Ambrogio accettata nel 2002 visse prevalentemente a Gerusalemme. Rientrò in Italia nel 2008.

lunedì 6 agosto 2018

"L'avventura umana nel Paradiso di Dante" di Valeria Capelli

Dalla pagina di www.culturacattolica.it riprendiamo il testo di un intervento di Valeria Capelli* su L'avventura umana del Paradiso di Dante

Prima di affrontare l'avventura meravigliosa del «Paradiso» occorre fare una premessa: non è facile oggi comprendere tale esperienza, per vari motivi. 
Innanzitutto perché la comprensione avviene non appena per un impegno dell'intelligenza, ma soprattutto per la scoperta di una corrispondenza profonda fra ciò che si legge e la propria esperienza di uomini; per cui bisogna essere profondamente attenti e sinceri nei confronti di se stessi, bisogna essere decisi a mettere in gioco la propria umanità nella lettura. Cosa, questa, non facile quando si tratta di libri che si studiano a scuola, fossero anche sublimi come la «Commedia». 
Il secondo motivo che vorrei addurre a testimonianza della difficoltà che oggi uno studente trova a leggere l'opera dantesca, in particolare il «Paradiso», è la lettura distorta che ne hanno fatto molti critici, i quali, ad esempio, hanno ignorato i presupposti più elementari della religiosità di Dante e conseguentemente della sua cultura e del mondo in cui visse, che di quella religiosità era espressione. Essi, più che ascoltare Dante, predicano una religione inficiata di protestantesimo, che dovrebbe indurre il Poeta a staccarsi sempre più dalla terra man mano che sale nei cieli; il fatto poi che egli, evidentemente, continui a provare sentimenti umani intensi e ad interessarsi di ciò che accade sulla terra è preso come una felice deroga rispetto alla sua fede, deroga dovuta alla sua appassionata, irriducibile umanità. Tale pregiudizio impedisce loro di capire che è proprio la religione del Poeta, perfettamente cattolica, che lo spinge a interessarsi profondamente di ciò che accade nel mondo, e che la sua umanità cresce proprio in proporzione della sua fede. 
Il terzo motivo per cui può sfuggirci il significato profondo dell'esperienza che la «Commedia» racconta poeticamente è che continua ad agire su di noi, come sui critici, un pregiudizio romantico su ciò che è umano e ciò che non lo è, su ciò che è esperienza e ciò che non lo è. I romantici identificavano l'umano con la passionalità prorompente (di qui la loro grande esaltazione di Francesca e di Farinata, grande almeno quanto il distorcimento che hanno fatto degli intenti reali del Poeta in proposito); noi siamo inclini a fare la stessa cosa sublimando l'istinto, il sentimento soggettivo della realtà. Niente di più lontano di questo dalla mentalità di Dante. Ma mi spiego con un esempio. 
In un capitolo de «L'uomo senza qualità» Musil parla di un "viaggio in Paradiso" di due innamorati che si trovano sulla riva del mare, di fronte a un orizzonte sconfinato. La natura è bella, la donna è bella, l'amore è bello: tutto, in qualche modo, evoca l'infinito. La realtà provoca a un oltre; presa sul serio, questa provocazione induce l'uomo a iniziare una ricerca in cui egli appassionatamente impegna tutta la sua libertà. Ma nei due innamorati prevale invece un atteggiamento sentimentale, estetico, sostanzialmente disimpegnato, che li porta ad abbandonarsi alle ondeggianti emozioni di quell'attimo cercando lì l'assoluto, il Paradiso. Noi in genere chiamiamo esperienza avventure analoghe, commettendo un grave errore: perché si può dire esperienza solo ciò che fa camminare l'uomo verso il suo destino. Al contrario tali avventure si aprono in genere sul vuoto; e lasciano dentro un senso ancora più grave di mancanza. È proprio quello che accade ai due innamorati quando subentra questa riflessione: e se dietro lo sconfinato orizzonte marino c'è il nulla? Allora la percezione stessa della infinità si risolverebbe in una fitta dolorosa che finirebbe col distruggere anche l'amore. Ricapitoliamo: di fronte al richiamo del Mistero l'uomo vacilla; è affascinato, ma finisce col cercare di afferrare il tutto dentro l'orizzonte della propria esperienza, nel proprio sentimento delle cose, nel fascino che provoca in lui la bellezza, nell'istinto che lo porta verso la donna. Spesso, oggi soprattutto, egli non dà inizio ad alcun reale cammino verso il significato totale della realtà, ma brucia, consuma nell'immediato quel grande richiamo; così la sua vita continua a svolgersi in mezzo al "ronzio confuso di mille voci" (per citare ancora Musil) ed egli distrugge in quel rumorio un millenario ordine di civiltà, trovandosi poi senza più alcuna difesa di fronte ai fini culturali e sociali di omologazione del Potere dominante. 
Anche Dante si è smarrito; anche in lui è riaffiorata la nostalgia dell'infinito, del mistero (solo perché stretto in cuore da questa nostalgia uno può infatti accorgersi di trovarsi sperduto in una "selva oscura"). Questo non sempre accade; perciò è già tanto accorgersi di essere infelici e di aver bisogno della felicità, di essere nell'errore e di aver bisogno della verità. Ma c'è di più all'inizio della «Commedia». In mezzo alle confuse sollecitazioni che gli provengono dalla realtà (molte e profonde per un uomo così aperto alla vita), egli viene raggiunto da un appello che gli promette la salvezza e che si concretizza in delle presenze umane. La grandezza umana di Dante sta nella sua decisione di ascoltare quella voce fra tutte le altre, di scegliere quella, di seguire quella perché gli promette la salvezza, di impegnare tutta la sua libertà nella verifica di quella promessa. Ecco perché, nella rinata memoria di Beatrice, egli decide di seguire Virgilio. 
Voglio innanzi tutto sottolineare questa profondità umana di Dante: la decisione di prendere sul serio il desiderio del suo cuore, di non offrirgli il palliativo delle illusioni, e di seguire chi gli ha dato la speranza della risposta. Questo è veramente un uomo, anche se peccatore, smarrito, incoerente. 
Se questa decisione è l'inizio di una nuova serietà umana, di un nuovo impegno con la vita, c'è un cammino da fare per crescere. Il valore, infatti, di questa decisione è che stabilisce un inizio, l'inizio di una storia. Certo l'iniziativa è di Dio; è una congiura di misericordia fra Maria, Lucia e Beatrice nei cieli che si fa presente a Dante attraverso Virgilio. Ma all'uomo è pur sempre chiesto il suo libero assenso, il riconoscimento, l'impegno della sua libertà, il suo "fiat" come alla Madonna. La grandezza dell'uomo Dante sta nel fatto che egli dice il suo "fiat" a Virgilio. Così ha inizio un viaggio (una visione reale, analoga a quella dei profeti biblici) in cui il pellegrino è accompagnato a giudicare il male e quindi a distaccarsene; a ritrovare le capacità proprie della sua natura di uomo, a ricentrare l'atteggiamento razionale nei confronti della realtà tutta; a fare esperienza di quel livello esaltante di esperienza intellettuale ed affettiva che è la fede; e infine a vedere direttamente Dio uno trino e il Verbo incarnato. È un cammino di luce in luce, dopo la fatica iniziale; un cammino in cui la natura umana viene esaltata in tutte le sue capacità trovando il suo compimento in ciò che è altro da sé, in Dio, che pure essa porta in sé come origine e destino. 
Ecco perché è Virgilio, non Beatrice, la prima guida di Dante. Egli deve aiutare Dante (e di fatto lo aiutò quando il Poeta, rileggendo l'Eneide, si accorse che l'uomo di cui poetava il grande pagano era più umano di lui che era cristiano) a ritrovare quella tensione verso il mistero che caratterizza il cuore dell'uomo, quella apertura alla verità totale che è la natura stessa della ragione. 
Virgilio, l'amato poeta e maestro di vita, nasce dalla mentalità profondamente cattolica di Dante che non nega la natura (pur sapendola di per sé insufficiente alla salvezza), ma fonda su di essa la costruzione della fede valorizzandone a pieno la dignità. 
Addirittura inconcepibile al di fuori del Cattolicesimo, cioè della religione di Dio incarnato, è Beatrice, la guida di Dante al "trasumanar", alla esperienza della fede. Essa è infatti la donna amata ed è anche una santa, è colei nel cui fragile volto di donna, per sempre impresso nel suo cuore, Dante sa riconoscere la tenerezza misericordiosa di Cristo, la maternità della Chiesa che si fa incontro all'uomo e lo salva. Dentro l'impeto affettivo di quel rapporto unico nella sua vita, ritrovato in tutta la pregnanza del suo significato nella memoria (Beatrice è da tempo morta), Dante sale in cielo. Il «Paradiso», fino al penultimo canto, sta per Dante, in un certo senso, tutto dentro questo rapporto, che è analogo al rapporto degli apostoli con Gesù, al rapporto di ogni credente con quelle presenze umane che sono segno, per lui, di Cristo e della Chiesa. E lo splendore crescente di Beatrice è il segno di un inveramento dell'essere che accade in Dante, di una adesione sempre più vera dell'intelligenza e del cuore alla realtà, fino a quella realtà ultima in cui e per cui tutte le cose sussistono. 

Ma soffermiamoci, anche se rapidamente, su alcune parti del «Paradiso», in modo da avere una qualche idea della umanità profonda di questa cantica, certamente la più umana delle tre, perché la più divina.
Il primo canto è l'approdo esultante a questo nuovo livello dell'essere, contrassegnato dall'unità, di cui la fede fa fare esperienza; è la rivelazione di un mondo che ha un'unica Origine, che è sorretto da un'unica volontà, che è animato da un'unica tensione. Dopo gli entusiasmi per l'aristotelismo averroistico testimoniati dal «Convivio» e dal «De Monarchia» in cui Dante aveva teorizzato un fine naturale e un fine soprannaturale dell'esistenza su due piani nettamente divisi, egli ritrova l'unità profonda di tutto il reale al tempo in cui scrive la «Commedia» e alla radice c'è il riconoscimento dell'unico profondo desiderio del cuore (mentre nel «Convivio» aveva detto che in questa vita noi non desideriamo di conoscere di più di quanto è nelle nostre possibilità), di quel desiderio a cui risponde pienamente solo Cristo nella fede. Come non ricordare qui almeno lo splendido inizio del canto XXI del «Purgatorio»? «La sete natural che mai non sazia/ se non con l'acqua onde la femminetta/ samaritana domandò la grazia/ mi travagliava..." 
Nel «Paradiso» l'esaltante esperienza di questa corrispondenza aumenta man mano che egli sale; si pensi ad esempio all'inizio stupendo del canto XXVII: «"Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo"/ cominciò "gloria!" tutto il paradiso,/ sì che m'inebriava il dolce canto./ Ciò ch'io vedeva mi sembrava un riso/ de l'universo; per che mia ebbrezza/ intrava per l'udire e per lo viso./ Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!/ oh vita integra d'amore e di pace!/ oh sanza brama sicura ricchezza!"». Dante sta parlando dell'altra vita, ma anche di questa vita in cui quell'esperienza è possibile nella misura in cui si aderisce a Dio resosi visibile in Cristo e nel suo corpo, la Chiesa (il «Paradiso» non è che l'apoteosi della Chiesa trionfante intorno a Cristo e a Maria, esultante nella luce e nella gioia senza fine del mistero della Trinità). A questo mondo l'uomo tende con tutto se stesso; ma egli, unico fra tutti gli esseri, è libero e può scegliere se assecondare la spinta della sua natura o contrastarla. 
Il canto II è sempre apparso come un arido canto dottrinale. Ma la crescita di Dante (perché è appunto la sua personale storia di crescita quella che dà unità a tutti gli aspetti) passa anche attraverso il chiarimento di questioni intellettuali apparentemente astratte ma che in realtà corrispondono a domande profonde e a ricerche appassionate della sua umanità. Letto in questa ottica il canto delle macchie lunari costituisce un altro grande passo avanti nel riconoscimento di un ordine unitario in cui natura e soprannatura, ragione e fede, filosofia e religione confluiscono perfettamente integrandosi. In un'età di entusiasmi razionalistici, in cui molti affermavano una divisione netta di ordini e di fini (provocando la crisi più grave dei secoli dopo il Mille), tale canto è la riaffermazione dell'unità del reale da parte di un poeta che è anche un grande filosofo, teologo e scienziato. La scienza della natura non può non appoggiarsi a prospettive metafisiche, religiose; la ragione può dare solo ipotesi limitate che devono integrarsi in una visione più vasta e più profonda: questa è la certezza (sorprendentemente attuale, fra l'altro) che sottende la spiegazione - in sé legata a un rudimentale sperimentalismo - che Beatrice dà delle macchie lunari. L'anima del canto è l'entusiasmo intellettuale, l'accensione dello spirito che scopre la verità. Ed è anche questa una esperienza profondamente umana. 
Il canto III, bellissimo, è quello del primo incontro con le anime beate, e dà il tono a tutta la cantica, rivelando quale è la sostanza della beatitudine. La beatitudine coincide con la carità che è l'adesione totale a Dio, creatore e redentore, e quindi la comunione con tutti. Afferma Piccarda: "Anzi è formale a esto beato esse/ tenersi dentro a la divina voglia/ per ch'una fansi nostre voglie stesse..."; e ancora: "E'n la sua voluntade è nostra pace..." Il «Paradiso» è il compimento dell'umano nella appartenenza vissuta consapevolmente a Dio, al Dio fattosi uomo, al Dio presenza personale concretamente sperimentabile dall'uomo. Non dimentichiamo il canto I in cui Beatrice afferma che l'uomo, creatura di Dio, ha dentro di sé un "impeto" che lo fa tendere a Dio. La terra propria dell'uomo è la dipendenza da Dio perché egli è per natura rapporto con Dio; ma solo quando egli, accogliendo il suggerimento della natura, riconosce che Dio si è manifestato in Cristo e vede nella Chiesa il luogo concreto, storico in cui vivere la sua originaria struttura, la vita si fa cammino passando di verità in verità, di luce in luce, fino al raggiungimento della libertà totale, quella che sperimenta Dante dopo l'"ultima visione": "...ma già volgeva il mio disio e'l velle,/ sì come rota ch'igualmente è mossa,/ l'Amor che move il sole e l'altre stelle". La «Commedia» è appunto memoria commossa e grata di quel cammino verso la libertà che Dio, attraverso presenze umane concrete, ha fatto compiere al Poeta; in particolare è tutta sospesa - come dirò - a quel momento di libertà totale, di felicità perfetta che consegue alla visione di Cristo. 
Tornando al canto III, introduco una considerazione di tipo diverso. Da questo canto fino al IX Dante ha voluto esaltare, in certo senso, le inclinazioni naturali dell'uomo, quelle che possono anche diventare quelle virtù di cui parla l'«Etica» di Aristotele. Nel canto III, nel canto IV e nel V, intimamente connessi, Dante in sostanza esalta la virtù della fortezza, quella che rifulse in Muzio Scevola e in S. Lorenzo. Così il Poeta la sottolinea: "ché volontà, se non vuol, non s'ammorza,/ ma fa come natura face in foco,/ se mille volte la violenza il torza". Piccarda, a differenza di S. Chiara, non ha avuto questa fortezza eroica che Dante sommamente ammira, e tuttavia è anch'essa, in qualche modo, un esempio di fortezza, non avendo ceduto alla violenza nel profondo del cuore. La sua povera virtù, infatti, è stata come inverata, salvata in un'altra dimensione, quella della fede. Cerco di spiegarmi. L'uomo è capace di virtù perché la sua natura ha una dignità (in questa convinzione è la radice del grande umanesimo dantesco e cristiano); ma tali capacità, tali virtù, il più delle volte, nel cammino concreto dell'esistenza, non riescono a mantenersi tali (non abbiamo forse visto come è andata a finire la forza tetragona di Farinata, la fedeltà di Pier delle Vigne, la capacità affettiva di Francesca?) perché l'uomo, abbandonato a se stesso, si smarrisce (anche Dante ha fatto personalmente esperienza di questo smarrimento). È solo nel ritrovamento di una misura immensamente più grande di quella della natura che le capacità naturali si trasformano realmente in virtù, vengono inverate. L'umano, per essere veramente tale, ha bisogno di Cristo, verità dell'uomo e via, nella Chiesa, a tale verità. Ecco allora che la fragile virtù di Piccarda, vissuta alla luce della fede, diventa anch'essa qualcosa di grande, di esemplare per tutti gli uomini. Piccarda non è, in partenza, più "virtuosa" di Francesca; ma ha seguito una scuola diversa, non quella dei romanzi cortesi bensì quella di S. Chiara, imparando a vivere di fede. E nella fede ha trovato la forza per resistere, per sviluppare la sua fragile, gentile umanità. La commozione, la devota partecipazione con cui il Poeta la ascolta e la guarda allontanarsi e svanire a poco a poco "Ave Maria cantando" sono il suggello di questo suo intimo, umanissimo e cristianissimo sentire. 
Ma in questi primi cieli vengono esaltate anche altre virtù. Dante ha celebrato in Romeo di Villanova l'amore per la gloria terrena (amore che affonda le sue radici nella greca magnanimità o "megalopsichia") divenuto un amore così grande per la gloria vera da far sopportare e accettare anche la più brutale denigrazione. Figura della grandezza umana e cristiana di Dante esule, Romeo splende accanto a un altro grande che, animato da un naturale amore per la gloria, fini per scoprire la gloria vera nella fede obbediente alla Chiesa di Dio: Giustiniano. Ma qui il discorso si fa complesso. Egli, facendo l'elogio dell'Aquila, dice che la sua gloria personale è parte di quella di tutta la storia di Roma; ed evoca tale storia in versi profondamente commossi (è questa commozione che rende poeticamente vivo, vibrante, quello che altrimenti potrebbe apparire un arido elenco di nomi e di fatti) tesi a cogliere nell'epopea di tutto un popolo il manifestarsi di una virtù straordinaria e il segno di una precisa volontà da parte di Dio. Sono vicende sacre quelle che Giustiniano ricorda (non dimentichiamo che Dante vede, accanto alla storia sacra di Israele, voluta da Dio per preparare l'avvento di Cristo, un'altra storia in un certo senso anch'essa sacra, analogica rispetto alla storia biblica: quella del popolo romano, predisposta anch'essa da Dio per aprire la strada alla venuta del Cristo e della sua Chiesa), vicende in cui le vie di Dio si sono incontrate con la virtù umana della giustizia (Dante vede anche l'ingiustizia, la violenza nel mondo romano, ma è persuaso del sostanziale senso di giustizia di tale popolo). Ora, in piena età cristiana, bisogna continuare tale storia che in Giustiniano, imperatore romano e cristiano, raggiunse il suo vertice: occorre rinnovare la fiducia nell'Impero, che porta il disegno divino della unità fra gli uomini come strada al Cielo, con analogo concorso di virtù umane, sorrette e inverate, ovviamente, dalla fede.
Vorrei parlare ancora degli spiriti "amanti" del cielo di Venere. Sono questi canti molto belli su cui non posso soffermarmi. Cito solo un personaggio, Folchetto da Marsiglia, il trovatore convertitosi (come tanti altri trovatori) dall'amor cortese all'amor cristiano, e divenuto poi vescovo. Egli è una grande testimonianza di come l'impulso ad amare si può distorcere e di come esso può essere recuperato e inverato nella fede; a tal punto che ormai non c'è più neanche posto per il pentimento, ma solo per l'esultanza grata a Dio che ha volto definitivamente al bene l'inclinazione della natura, che l'ha salvata e trasformata in virtù reale: "Non però qui si pente, ma si ride,/ non de la colpa ch'a mente non torna,/ ma del valor ch'ordinò e provide". 
Faccio, a questo punto, una considerazione più ampia.
Virgilio, nel canto XVII del Purgatorio, distingue un amore naturale, istintivo, e un amore che è scelta razionale e libera; e nel canto XVIII, sempre del Purgatorio, afferma che non ogni amore è "in sé laudabil cosa", ma solo quello che corrisponde alla natura razionale dell'uomo. In altre parole, basta la ragione, cioè Virgilio, per condannare il peccato di Francesca e di tutti i lussuriosi dell'Inferno (coloro che "la ragion sommisero al talento") e per capire che Amore non è un dio, non è una fatalità irresistibile. Ma esistenzialmente, storicamente accade che l'uomo non riesca a vivere le indicazioni della sua natura (quelle che il pur giusto discorso di Virgilio mette in evidenza); e che cada nell'irrazionalità, nel peccato, appunto come Francesca, come i trovatori, come gli stilnovisti che Dante incontra nel Purgatorio, nella cornice dei lussuriosi. Ancora una volta è la fede che raccoglie, orienta le capacità umane, le porta a compimento salvando l'uomo dalla sua fragilità, dal suo squilibrio. Virgilio ha ragione, ma Virgilio non basta, come egli stesso riconosce: "Quanto ragion qui vede/ dir ti poss'io; da indi in là t'aspetta/ pur a Beatrice, ch'è opra di fede" (Purgatorio XVIII). La fede non solo rende possibili le virtù umane ma le compie, perché ora l'amore di Folchetto, l'amore di Cunizza è ben più che amore naturale: è caritas, cioè riconoscimento di Dio in Cristo e nella Chiesa, e comunione profonda con tutti i fratelli. 
Dal canto XI al canto XXII Dante esalta grandi santi, la cui virtù non è più così strettamente legata alle inclinazioni naturali. Ma qui occorre sottolineare un caratteristica generale della personalità del Poeta. 
Dante è anche un teologo profondo e un dialettico sottile; ma è soprattutto un cristiano appassionato ai problemi della Chiesa, della comunità dei credenti, sollecito per i problemi di natura pastorale, desideroso in primo luogo di una riforma religiosa e morale. Questo orientamento diventa evidentissimo nei canti del cielo del Sole, in cui egli incontra gli spiriti sapienti. Proprio qui, fra tanta sapienza di cose divine, il Poeta resiste alla tentazione di aprire un dibattito sui problemi più discussi della sua epoca (su cui, fra l'altro, c'erano concezioni non meno contrastanti con la verità di quanto non lo siano oggi le concezioni neopositivistiche, neoidealistiche, marxistiche); e non indulge neppure alle polemiche fra gli ordini religiosi, polemiche dovute a una mancanza di sapienza, al non capire che è tutto prezioso e necessario agli occhi di Dio: l'alta dottrina domenicana e l'umile predicazione francescana. 
S. Tommaso, una figura a cui non si è mai dato abbastanza rilievo, è in questo senso esemplare. Personalità completa, egli è animato da un grande amore per Cristo e per la sua Chiesa ed è dotato di una intelligenza profonda e sottile; ma ha anche l'umiltà del semplice credente, devoto ai grandi santi, sensibile ai bisogni concreti della Chiesa, attaccato anche alla più popolare pratica religiosa. S. Tommaso risponde ai dubbi teologici di Dante con un linguaggio conforme alla sua cultura e alla sua genialità; ma fa anche l'elogio di S. Francesco con la devozione dell'uomo di fede che ha intuito la sconfinata grandezza del Poverello di Assisi. Anzi, per tessere l'elogio, S. Tommaso usa un linguaggio alto, fatto di immagini sottili e preziose che fanno risaltare la gloria di S. Francesco. 
Il suo discorso è tutto volto a mettere in evidenza la funzione del Santo nella Chiesa. Non si capirebbe nulla del suo elogio se non si avesse sempre presente la considerazione che Francesco e Domenico sono stati inviati entrambi dalla Provvidenza per aiutare la Chiesa ad andare verso il suo sposo, Cristo. Non sono uguali, ognuno ha la sua personalità, ma ciò che conta è l'azione ugualmente benefica che essi hanno svolto a favore della Chiesa. Raccontando poi la vita del Santo, il grande Tommaso non indulge sulle tante pie leggende che fiorirono intorno alla sua figura, ma mette unicamente in rilievo lo sposalizio con la Povertà e la sua importanza per la Chiesa.
I canti di Cacciaguida, introdotti dal XIV, sono dominati dalla croce vittoriosa, da cui proviene un grido gioioso: "Resurgi" e "vinci". In questa luce, che è luce di resurrezione pur nel ricordo del dolore e della morte, viene in primo piano Dante stesso che, illuminato dalla santità dell'avo, prende coscienza del significato profondo del suo esilio nella prospettiva della sua missione. Sono questi realmente i canti di Dante, ma non i canti della sua famiglia e dei suoi fatti privati, dei suoi sentimenti e delle sue malinconie. No. Dante va a Cacciaguida come Enea andò dal padre Anchise per chiedere conferma del suo destino e del suo compito. Di fronte a Cacciaguida, morto combattendo per la fede, Dante si riconosce ("voi mi levate sì, ch'i son più ch'io") e riconosce il suo compito, lo accetta, abbracciando anche il sacrificio che a questo è connesso, il sacrificio nel suo aspetto più doloroso: l'esilio. Ma l'esilio è appunto condizione di quella maturazione personale che lo rende atto a svolgere il grande compito: "per crucem ad gloriam" si può qui dire di Dante, ma anche di Cacciaguida, in cui il Poeta ritrova come un se stesso antico. In realtà egli è andato all'avo non tanto per una spiegazione circa il suo futuro, ma proprio per trovare, nell'incontro con un martire particolarmente responsabile della sua fede perché legato a lui da un vincolo di sangue, l'accrescimento di quella fede stessa. E così accade: Cacciaguida lo conforta, lo fortifica, lo rende atto al compito che deve svolgere sulla terra, facendogli sperimentare come un nuovo inizio che lo predispone ai sublimi incontri dei cieli successivi.
Dopo essere arrivato al cielo di Giove ove comprende che la giustizia divina è un mare profondo, inscrutabile, pur essendo in qualche modo da noi sperimentabile e attuabile, Dante, con gli occhi fissi a Beatrice, sale al cielo di Saturno, ove subito pone una domanda importante per la sua fede: perché quell'anima, non un'altra, è stata prescelta da Dio per venire da lui? Ma qui l'accanito domandare di Dante subisce una fase di arresto; egli si sente rispondere infatti da S. Pier Damiani che neanche un serafino potrebbe penetrare nell'abisso del volere divino. Procede poi il canto con l'esaltazione della santità austera di S. Pier Damiani, emergente da un paesaggio scabro e solitario. Anima di contemplativo ma anche di pastore sollecito per le vicende concrete della Chiesa, S. Pier Damiani è avvicinato alla figura di S. Benedetto (canto XXII), a colui che, contemplando gli splendori celesti, ha avuto l'ispirazione di creare un grande modello di vita comunitaria, quello benedettino appunto, che ha cambiato il volto della storia dell'Occidente. In bocca a S. Benedetto, Dante pone una delle più belle definizioni della vita monacale: "Qui è Maccario, qui è Romualdo,/ qui son li frati miei che dentro ai chiostri/ fermar li piedi e tennero il cor saldo". Si tratta di forme di vita, quella di S. Pier Damiani come quella benedettina, che affascinano Dante e che egli propone come esemplari alla Chiesa del suo tempo (insieme, ovviamente, alla forma francescana e a quella domenicana).
Dopo un ultimo sguardo alla terra, vista con distacco nella sua piccolezza e con preoccupazione nella sua ferocia, Dante sale al cielo delle stelle fisse. Qui egli raggiunge un nuovo livello dell'essere, di verità, come è stupendamente detto dai toni chiari e dall'arte finemente lavorata del meraviglioso canto XXIII.
Dal canto XXIV ha inizio l'esame di Dante sulle virtù teologali. I discorsi che occupano tali canti non sono aride disquisizioni scolastiche, ma emozionanti colloqui, un sublime rendere ragione di quell'ideale per cui e di cui Dante e i suoi esaminatori vivono in perfetta comunione di concezione e di intenti. "Fides quaerens intellectum" si diceva allora. E Dante, per poter procedere verso una più alta visione di Dio, deve dichiarare a S. Pietro che cosa crede e mostrare i fondamenti razionali della sua fede. Due punti emergono dalle risposte di Dante: la ferma dichiarazione di fede ("sì, ho, sì lucida e tonda/ che nel suo conio nulla mi s'inforsa") di estrema importanza in tempi in cui era forte, oltre la fede, anche l'incredulità; le argomentazioni di carattere storico esistenziale, con cui egli risponde a obiezioni di tipo razionalistico. È questa una preziosa indicazione di metodo che noi, che viviamo in tempi dominati da metodi conoscitivi imposti dalle ideologie, non possiamo trascurare se veramente cerchiamo la verità. 
Il canto XXV ha nel «Paradiso» un'importanza analoga a quella dei canti di Cacciaguida. Prima che l'apostolo Giacomo sottoponga Dante all'esame sulla speranza, Beatrice presenta l'amico discepolo con una lode altissima: "La Chiesa militante alcun figliolo/ non ha con più speranza...". Non è un'esagerazione: veramente la virtù cristiana della speranza ha dominato la vita di Dante ed egli ha voluto essere solo questo: l'uomo, il poeta della speranza, di quella speranza che è un "attender certo" fin da ora, di quella speranza che non fallisce perché è fondata sulla promessa di Dio, già presente fra noi in Cristo e nella Chiesa. Tale speranza, che Dante trova in sé a livello eccelso e che è puro dono di Dio, riguarda dunque l'esito ultimo dell'umana vicenda ma anche l'esistenza su questa terra. Fin da ora la vita può cambiare, con l'aiuto di Dio, per Dante stesso e per l'intera cristianità; per questo bisogna operare (ecco la missione di Dante e di ogni cristiano!), certi del soccorso che Dio, come sempre, manderà alla sua Chiesa, a ciascuno nel difficile cammino della esistenza. Forte di questa speranza, Dante può guardare impavido, "tetragono" alle sue personali dure prove, alla corruzione del mondo, a quella tanto più dolorosa degli uomini di Chiesa indegni (si pensi all'appassionata invettiva di S. Pietro nel canto XXVII). Il dolore è grande, ma la speranza è certa e trasforma quel dolore stesso in un prezioso mezzo di rinnovamento. Cristo è risorto veramente: questo è il fondamento incrollabile della speranza del cristiano Dante, la cui vita terrena, come quella di ogni cristiano, è già resurrezione in atto, pur trovando il suo compimento nell'aldilà, con la resurrezione anche del corpo. Così, col pensiero della resurrezione ultima, egli passa dall'esame sulla speranza a quello sulla carità. L'interrogativo che il pellegrino pone circa il corpo dell'apostolo Giovanni non è la curiosità di un appassionato di sottili questioni teologiche, ma coincide col bisogno di far memoria della resurrezione per legare la virtù della speranza a quella della carità. Mi spiego: la speranza non può essere veramente tale se non implica la certezza della resurrezione del corpo; ma questa certezza non può sussistere se non poggia su un pegno già presente: tale pegno è appunto quello del corpo di Cristo risorto, e anche quello della preservazione del corpo di Maria dalla corruzione (una specie di resurrezione anticipata). Ora, solo questa speranza certa permette quell'agire sublime che è la carità, la virtù celebrata appunto di fronte all'apostolo Giovanni. 
Passo agli ultimi canti, ma prima di procedere oltre, voglio ribadire che in questo senso della storicità della salvezza, in questo senso profondo del corpo e del corpo risorto è evidente, ancora una volta, la grande umanità di Dante e la perfetta cattolicità della sua fede. 
Dal canto XXVIII alla fine - ma io qui non posso che fare un rapido cenno - Dante contempla la gloria della Chiesa trionfante; poi, per intercessione della Madonna pregata da S. Bernardo, egli consegue la visione diretta di Dio e l'intuizione, in un lampo, del mistero dell'Incarnazione. Sono meravigliosi canti in cui Dante poeta fa le sue più alte prove, in un corpo a corpo con flussi di luce che lo investono con uno sfolgorio insostenibile, con armonie indicibili, con quel "riso de l'universo" che sembra sommergerlo e che le parole umane non riescono ad esprimere. La lotta è perché tutto questo diventi parola veritiera, credibile, parola poetica; e certo Dante, che tante volte si dichiara vinto con l'umiltà di ogni vero artista, qui ha superato se stesso, riuscendo vincitore nella prova più alta che mai poeta abbia affrontato. Uno stupore senza fine è il tono della poesia di questi sublimi canti per la pienezza di essere che si rivela, per il debordare gioioso delle esperienze ("io, che al divino da l'umano,/ a l'etterno dal tempo era venuto,/ e di Fiorenza in popol giusto e sano,/ di che stupor dovea esser compiuto!" XXXI). È questo il vertice della esperienza umana e poetica di Dante. 
Il Poeta ha fatto lo sforzo supremo di raffigurarsi il Paradiso anche nei dettagli, portando all'estremo la tendenza dell'artista medievale a rappresentare concretamente le realtà soprannaturali; e in questo tentativo si è portato dietro le sue domande di umile credente, innamorato di quel mondo, desideroso di saperne di più perfino intorno alla creazione degli angeli, alla loro caduta, ad Adamo, alla disposizione dei beati in Paradiso. Le questioni che occupano alcuni di questi canti, in altre parole, sono astratte solo per il lettore moderno, spesso privo di memoria cristiana, non certo per Dante e per i suoi lettori medievali.
Faccio un rapido cenno al canto XXXIII (e mi dispiace di non potermi soffermare sul canto XXXI in cui Dante ringrazia Beatrice con una splendida preghiera - analoga a quella che S. Bernardo rivolgerà alla Madonna - in cui è contenuto l'elogio più grande alla donna amata: "Tu m'hai di servo tratto a libertate..."). Qui è la "finis", cioè il compimento. È un canto non di "astrattezze metafisiche", ma di caldi umanissimi incontri e di fervide esperienze, le più alte che ad uomo sia dato di fare. 
Alcune considerazioni. La Madonna, colei il cui nome Dante sempre invoca "e mane e sera", come sappiamo dal canto XXIII, è qui ciò che è nella tradizione cristiana: colei che ha permesso l'Incarnazione e che continua a intercedere per tutti gli uomini perché accettino questo fatto salvifico. La riscoperta più profonda della figura della Madonna, che avvenne in quell'epoca anche grazie a grandi santi come Bernardo, è anche una riscoperta del fatto fondamentale del Verbo fattosi uomo, in cui natura e soprannatura, umano e divino, finito e infinito, tempo ed eterno, si sono uniti indissolubilmente. Questa consapevolezza è fondamentale per l'umanità e la poesia di Dante. Le sue immagini di infinito infatti non lo lasciano in balia di ondeggianti emozioni (come invece accade agli innamorati di Musil) perché non sono illusione; dietro di esse infatti non c'è il vuoto, ma una Presenza, quella che si manifesta nella figura della Madonna e di tutti i Santi, quella che ultimamente ha il volto di Cristo. 
La seconda parte del canto è quella in cui Dante, portato al limite estremo il suo desiderio (è la parte che gli spetta in questa vicenda guidata da Dio!), ha la visione diretta di Dio Uno, come punto luminoso che contiene in sé tutte le cose contingenti (mai la realtà è dimenticata da Dante!), poi di Dio Trinità. Fissando il cerchio del Figlio, Dante lo vede dipinto "de la nostra effige", cioè vede il volto di Cristo; ed è tutto desideroso di conoscere come il divino si è unito all'umano, di penetrare quel mistero che risponde al sospiro più profondo di ogni cuore umano e di ogni cultura. Per grazia ne ha per un attimo l'intuizione, ma non ricorda nulla. Grazie a questa, però, la sua libertà aderisce ormai perfettamente all'amore divino ed egli è pronto a tornare sulla terra e ad iniziare la sua missione: la scrittura della «Commedia». Tutta la «Commedia» è sospesa all'istante di quella folgorazione: in esso, cioè nella fede nel Cristo, Dio e uomo, la «Commedia» trova il fondamento della sua verità umana, del suo realismo rappresentativo, della sua sublime poesia.

Bibliografia essenziale 
M. Apollonio, Dante. Storia della Commedia, Vallardi, Milano 1951 
E. Auerbach, Studi su Dante, Feltrinelli, Milano 1966 
H. U. Von Balthasar, Dante, in: Gloria, vol. 3, Stili laicali, Jaca Book, Milano 1976 
A. M. Chiavacci Leonardi, Lettura del Paradiso dantesco, Sansoni, Firenze 1963 
G. Contini, Un'idea di Dante, Einaudi, Torino 1976 
U. Cosmo, L'ultima ascesa, Laterza, Bari 1936 
T. S. Eliot, Virgilio e la cristianità, in: Sulla poesia e sui poeti, Bompiani, Milano 1970 
G. Getto, Aspetti della poesia di Dante, Sansoni, Firenze 1966 
E. Gilson, Dante e la filosofia, Jaca Book, Milano 1987 
R. Guardini, Studi su Dante, Morcelliana, Brescia 1967 
R. Montano, Dante filosofo e poeta, Conte G. B. Vico Editrice, Napoli 1985 
B. Nardi, Dante e la cultura medioevale, Laterza, Bari 1942 
Ch. Singleton, La poesia della Divina Commedia, Il Mulino, Bologna 1978

Rimandiamo inoltre a: 
V. Capelli, La Divina Commedia. Percorsi e metafore, Jaca Book, Milano 1994

* Valeria CAPELLI dal 1970 ha insegnato lettere italiane e latine al Liceo Scientifico di Forlì, collaborando con centri culturali di varie città e centri di didattica e di sperimentazione come animatrice di corsi di aggiornamento per insegnati e di corsi per maturandi. Presso Marietti 1820 ha pubblicato nel 2006 le Letture dantesche tenute nella pieve di Polenta e nella Basilica di San Mercuriale in Forlì (1996-2005)

"Il XIV canto del Purgatorio" di Valeria Capelli

Dalla pagina del sito www.culturacattolica.it riprendiamo il testo della Lectura Dantis fatta da Valeria Capelli* presso la Chiesa di Polenta (Bertinoro, Forlì-Cesena) sul XIV canto del Purgatorio

Occorre fare alcune considerazioni generali come premessa all’interpretazione del canto. 
È noto che la più importante acquisizione della critica degli ultimi decenni è che Dante è al tempo stesso “auctor” e “agens”, scrittore e personaggio; che anzi è lui il protagonista assoluto del Poema, tanto che ogni incontro, pur avendo una sua specifica fisionomia, va letto in stretto rapporto con la sua personalità, con le sue vicende esistenziali, con i suoi convincimenti, con le sue esperienze culturali, religiose, politiche e soprattutto col suo viaggio. 
Allora si tratta di capire che cosa Dante che scrive ha voluto comunicare di sé in questo canto del Purgatorio dedicato agli invidiosi. E non bisogna dimenticare cosa significa, per Dante pellegrino, il viaggio su per le cornici del Purgatorio guidato da Virgilio-ragione come nell’Inferno. 
Se nell’Inferno il Poeta si è staccato dal male radicale, qui non solo continua a giudicare il suo peccato attraverso quello altrui, ma soprattutto è aiutato a ricentrare le sue capacità naturali, a recuperare un atteggiamento umano, razionale di fronte alla vita; in altre parole, è sollecitato a desiderare il bene, a volere quella totalità per cui il cuore e la ragione sono fatti, cioè Dio. 
Bisogna ricordare che il Purgatorio è anche la cantica dei tanti incontri con amici e conoscenti, la cantica della sua giovinezza fiorentina, dei toni crepuscolari, delle sottili malinconie; soprattutto è la cantica in cui il Poeta impara che l’uomo ha bisogno di misericordia e che la misericordia, che può essere solo di Dio, sempre vince, qualunque peccato l’uomo abbia commesso, se egli lascia aperto anche un minimo spiraglio per accoglierla. Tutto questo è sotteso al canto in questione e si evidenzia in esso. 
Occorre aggiungere una seconda serie di considerazioni. Il viaggio di Dante significa notoriamente una nuova conversione nella vita del Poeta. Ma la conversione è indisgiungibile dalla missione nella mentalità cristiana. L’uomo è persona, non individuo; il che significa che l’io, pur nella sua assoluta individualità, è in relazione ontologica con Dio, con tutti e con tutto. Questa ontologia, rivelata dal Cristianesimo, è esistenzialmente vissuta da Dante, che sente la sua persona in relazione vitale con la realtà in ogni suo aspetto, che sa che ciò che accade nel mondo lo riguarda profondamente, si tratti del disordine che dilaga per la vacanza delle grandi guide preposte da Dio all’umanità o della corruzione degli ordini religiosi o della malvagità dei signori italiani, o anche del bene che pure si afferma nella esistenza di tanti; che riconosce la vita come vocazione e come compito, un compito che sempre comincia dal cambiamento di sé, fondamentale contributo alla renovatio mundi, cioè al cambiamento di tutti. Il sentire fortemente, da parte di Dante, la vita come missione, a cui è legata la forza profetica della Commedia, è il segno della sua autenticità di uomo e di cristiano. Strumento principale per la realizzazione del suo compito è, come è noto, il suo poema stesso, che vuole essere l’annuncio, attraverso il racconto del suo personale cammino di conversione, del giusto ordine del mondo, la dura condanna del peccato, che ha alla radice la lupa ovvero la cupidigia dei beni di questa terra, la proclamazione di quelle virtù cristiane e umane smarrite, sulle quali solo può fondarsi la verità della vita e della convivenza civile. 
Occorre affrontare ormai direttamente il canto XIV. È un canto complesso, che nel suo aspetto che più colpisce, il discorso politico-sociale (che è al tempo stesso un discorso etico-religioso), continua una meditazione iniziata da Dante nel canto VI, con la famosa invettiva contro l’Italia dopo il colloquio con Sordello, e portata avanti più in sordina nel canto VIII, nella valletta dei principi negligenti; tale meditazione, passando appunto attraverso questo canto tosco-romagnolo, culminerà in quello celebre di Marco Lombardo. 
Dante, che si trova nella cornice degli invidiosi e ha appena terminato il colloquio con Sapia senese, nota due anime addossate alla livida parete, con gli occhi cuciti, che cortesemente parlano fra loro e accennano a lui. Sapremo in seguito che sono due romagnoli: Guido del Duca di Bertinoro (discendente dalla famiglia ravennate degli Onesti) e Rinieri Paulucci di Calboli di Forlì. Essi hanno capito, dal dialogo di Dante con Sapia, che lui è vivo e si chiedono chi mai possa essere. Uno dei due, Guido, si rivolge al Poeta domandandogli da dove viene e chi è, esprimendo tutta la sua meraviglia, come già Sapia, per la grazia da lui ricevuta di poter giungere, ancora col corpo, in Purgatorio. Dante non rivela il suo nome, adducendo il motivo che è ancora poco conosciuto, ma dice di essere nato in una regione attraversata da un fiume che nasce in Falterona: chiaramente allude alla Toscana e all’Arno. Uno dei due, Rinieri, chiede all’altro perché gli abbia taciuto di proposito il nome del fiume come si fa per le cose vergognose; Guido, dopo aver detto che lo ignora, osserva che però è giusto che il nome della valle attraversata dall’Arno sia dimenticato, perché non esiste più la virtù negli uomini che la abitano, trasformati in bestie feroci e sanguinarie. E, seguendo il corso del fiume, chiama gli abitanti del Casentino “brutti porci”, gli aretini “botoli ringhiosi”, i fiorentini “lupi”, i pisani “volpi” piene di astuzia e di malizia. Ma il centro di tanta malvagità è Firenze, dove si distinguerà per ferocia proprio un discendente di Rinieri, Fulcieri che, divenuto podestà della città, venderà la carne delle sue vittime (i guelfi bianchi) ancora vive e poi le ucciderà come animali da macello e lascerà Firenze più che mai devastata, più che mai simile alla trista selva infernale. E veramente toni da Inferno ci sono nelle parole sdegnate, nelle immagini di sangue e di violenza con cui Guido evoca la valle dell’Arno e le azioni delittuose di Fulcieri, toni che rattristano profondamente l’altra anima colpita così duramente nella sua discendenza. 
A questo punto Dante chiede i nomi dei due spiriti. E colui che già aveva parlato cortesemente gli risponde, ancora appellandosi alla grazia che Dio gli ha fatto. (“Ma da che Dio in te vuol che traluca / tanto sua grazia, non ti sarò scarso...”). Non è da sottovalutare questa insistenza sulla grazia ricevuta da Dante: essa manifesta un modo di atteggiarsi di fronte alla realtà, un modo di conoscerla. Queste anime infatti sono piene di gratitudine per la misericordia che Dio ha usato verso di loro e sono tese a riconoscerla umilmente anche nella vita degli altri. 
Guido dunque si dichiara e dichiara il suo peccato deprecando la tendenza degli uomini a porre il loro cuore in quei beni che suscitano cupidigia e invidia. Poi presenta Rinieri, uomo di grande prestigio, le cui virtù da nessuno dei suoi eredi sono imitate. Quest’ultima considerazione introduce il discorso sulla decadenza della Romagna. Allo sdegno violento per la degenerazione della Toscana subentra l’amarezza per la situazione presente della Romagna, espressa con immagini di sterilità e di depravazione, e soprattutto l’accorato rimpianto per i costumi cavallereschi del passato. Un tempo i nobili romagnoli, in mezzo a cui avevano trascorso l’esistenza Guido e Rinieri, vivevano con liberalità, guidati da amore e cortesia, godendo degli agi della vita; ora le famiglie nobiliari - prosegue Guido - si sono imbastardite, sono degenerate (famosa è l’esclamazione: “Oh Romagnuoli tornati in bastardi”): e qui egli, commosso, fa l’elenco degli uomini illustri del passato, delle famiglie in cui albergavano quelle virtù civili e cavalleresche che ora sono del tutto scomparse. Augura a Bertinoro di sparire dalla faccia della terra, ora che quei casati nobiliari, che l’avevano resa famosa per la sua cortesia, sono scomparsi come per non cadere nella comune corruzione; e con amara ironia dice che fanno bene i conti di Bagnacavallo, i Pagani di Faenza, Ugolino dei Fantolini signore di castelli nel faentino, a non mettere più al mondo figli maschi; mentre sbagliano i signori di Castrocaro e i signori di Conio (un castello presso Imola) a fare figli che saranno degeneri. A questo punto però il gentiluomo romagnolo si interrompe bruscamente sopraffatto dal pianto a quel ricordo; e prega Dante di andarsene, di lasciarlo solo col suo dolore. Mentre i due pellegrini si allontanano in silenzio, echeggiano improvvisamente nell’aria esempi di invidia punita; poi Virgilio fa un severo richiamo morale e religioso, con cui si chiude il canto.
Perché - potremmo chiederci - Dante ha scelto questi due personaggi per esprimere la sua ammirazione, il suo rimpianto per la cultura cortese-cavalleresca? Inoltre, quale relazione c’è fra questo che è il motivo dominante del canto e il peccato dei due gentiluomini romagnoli? 
La scelta di due personaggi di non grande rilievo storico è forse dovuta al fatto che il Poeta vuole celebrare non tanto dei singoli, ma un antico costume di vita generalizzato, fondato su un ideale mitico, mai vissuto integralmente ma ancora potentemente affascinante. Si tratta di una visione dell’esistenza totalizzante, basata su quelle virtù intellettuali e morali che permettono la conoscenza del “vero”, e su quelle virtù civili e cavalleresche che permettono il “trastullo”, cioè di godere di tutto ciò che rende bella, amabile, gioiosa la vita. Per questo scuote fino al pianto Guido-Dante il ricordare “le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ’nvogliava amore e cortesia / là dove i cuor son fatti sì malvagi” (a questi versi, come è noto, si rifarà l’Ariosto all’inizio del suo poema). 
Per rispondere al secondo quesito occorre una piccola spiegazione storica. I due nobili romagnoli, posti qui fra gli invidiosi, vissero ed operarono nella prima metà del secolo XIII. Al tempo della maturità di Dante erano già entrati nella novellistica per la loro liberalità, cortesia. Ma proprio il desiderio di primeggiare nella cortesia poteva condurre all’invidia; cosa che sembra essere accaduta a queste due anime. Dentro la cultura cortese perfino l’assassinio veniva giustificato se nato da generosa invidia; ma per Dante tutto ciò è solo peccato ed egli lo manifesta chiaramente in questo canto. 
Comunque la cortesia invidiosa è il punto di raccordo fra il peccato e il tema che domina il canto, cioè - come si è già detto - lo sdegno per la corruzione della Toscana e lo sconforto per la decadenza della Romagna, unito alla rievocazione commossa degli antichi costumi cavallereschi delle nobili famiglie romagnole. 
Ma veniamo alla grande meditazione del canto. Non si può non rilevare che lo sdegno e la commozione che Dante esprime attraverso i due gentiluomini, in modo particolare attraverso Guido (e che esprimerà attraverso un uomo di corte, Marco Lombardo, nel celebre canto XVI) hanno anche una radice autobiografica: della corruzione dei Signori l’esule bisognoso, a cui viene fatto pesare il pane che mangia, ha fatto personalmente una bruciante esperienza; così come con immensa gratitudine ha sperimentato l’ospitalità di quei pochi che, legati ancora agli antichi costumi, l’hanno accolto (gli Scaligeri, i Malaspina, i signori di Ravenna). Ma al di là della vicenda personale, sono i suoi convincimenti politici, morali, religiosi che gli dettano questi versi. 
Il nucleo morale e poetico del canto sta appunto nel contrasto tra un presente fatto di corruzione, di lotte, di tragedie, e un passato non lontano nel tempo fatto di gentilezza, di cortesia, di lieta convivenza civile (si tratta, come si accennava, di un ideale mitico, forse mai esistito così come Dante lo vagheggia); e tra una società dove gli uomini sono regrediti alla bestialità (la Toscana) e una società dove, nonostante l’estinguersi o il tralignare dell’antica nobiltà, si conserva ancora il ricordo della cortesia di un tempo (la Romagna). 
Il rimpianto di Guido e di Dante per le grandi figure di romagnoli è anche giudizio sulla nobiltà, che deve essere soprattutto del cuore, secondo l’insegnamento stilnovistico, e sulla attuale società mercantile, fatta di “gente nova”, che ha soppiantato gli antichi abitanti, di gente tutta tesa ai “subiti guadagni” (si veda Inf. XVI, 73 sgg.), tutta dominata dalla cupidigia, dalla lupa da cui nasce l’invidia che acceca e corrompe l’onesto e lieto vivere dei cittadini; su una società in cui la virtù “per inimica si fuga / da tutti come biscia”, ove gli uomini sono considerati come carne da macello da politici degeneri come Fulcieri. 
Ed ecco allora la dolorosa domanda di Guido, che si pone come condanna della cupidigia invidiosa che ha provocato la degenerazione di tutta una società: “o gente umana perché poni ’l core / là ’v’è mestier di consorte divieto?” (o uomini, perché inseguite quei beni che non si possono dividere senza che diminuiscano, e quindi che escludono la partecipazione altrui?). È a questo punto che il discorso politico-sociale comincia a manifestarsi apertamente anche come un discorso etico-religioso. 
Ma la società potrebbe tornare vivibile, potrebbero tornare quei tempi se gli uomini si lasciassero severamente riprendere dagli esempi di invidia punita (Caino che, dopo aver ucciso per invidia il fratello Abele, fugge gridando: “Anciderammi qualunque m’apprende”; Aglauro, figlia di Cecrope re di Atene, mutata in sasso da Mercurio perché, invidiosa della sorella, ne ostacolava l’amore col dio) e di nuovo sollevassero lo sguardo verso l’alto; se distogliessero il cuore dai beni terreni e lo volgessero al cielo, a Dio. Il cielo, dice Virgilio, vi gira intorno “mostrandovi le sue bellezze eterne”, ma voi vi ostinate a guardare in basso, trascinati dalla cupidigia, dall’invidia; perciò Dio, che vede tutto, è costretto a punirvi. 
Nel discorso di Virgilio, nella grande metafora del cielo e nel suo invito a guardare in alto, culmina il richiamo del canto, che è sì socio-politico, ma ancor più profondamente - come si diceva - etico-religioso. 
Sempre lo sguardo di Dante che scrive, che è uno sguardo verso l’alto, trapassa le situazioni, gli incontri; qui va oltre la forte tensione emotiva, piena di amarezza e di nostalgia, di Guido, che pure condivide; e va nel profondo. Il contrasto in superficie è tra presente e passato, ma ultimamente è tra terra e cielo, tra valori e non valori, tra un’esistenza e una storia prive di senso e un’esistenza e una storia illuminate da Dio, tra moralità e immoralità: perché solo se gli uomini tendono a Dio costruiscono il loro destino sulla terra e al tempo stesso edificano una convivenza giusta e lieta. Infatti tutto ciò che è buono, grande, bello, giusto, vero viene dall’alto; dal basso vengono contraddizioni, mali senza fine: “Lume non è se non vien dal sereno / che non si turba mai; anzi è tenebra / od ombra de la carne o suo veleno” viene detto in Par. XIX, 64-66. Non c’è luce di verità, pace, giustizia sulla terra se non viene da Dio. 
La battaglia si combatte nel cuore dell’uomo, nella sua ragione. Se egli cerca ciò che è conforme alla sua natura, ciò che sta in alto, Dio (questa è la morale per Dante, non delle regole!), realizza il bene; se egli guarda in basso, si perde nei particolari, li assolutizza, non vive le cose della terra in relazione alla totalità (è ciò che hanno fatto le anime dell’Inferno), tradisce la sua natura, dimentica o rinnega ciò a cui il suo cuore e la sua ragione sono strutturalmente orientati, corrompe la sua umanità; non raggiunge la libertà, il compimento di sé; quindi non contribuisce a rinnovare il mondo, la società. Infatti solo cambiando se stessi, solo partendo dal cambiamento del cuore dell’uomo si può attuare la renovatio mundi: ogni cambiamento sociale e politico che non parta da un rinnovamento dell’uomo - tante volte il Poeta ce lo fa capire - è illusorio. 
Bisogna dunque ricominciare a cercare Dio, seguendo la natura del cuore e della ragione (“Ci hai fatto per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”: questa frase di sant'Agostino è alla base della concezione del viaggio dantesco, come giustamente ha rilevato il Singleton). E Dio può essere raggiunto, sperimentato nella vita personale e sociale, perché non è rimasto nei cieli, ma si è fatto uomo, si è fatto incontro all’uomo e ancora gli si fa incontro nell’Eucaristia e in presenze umane, ecclesiali, seguendo le quali egli fa l’esperienza di quel sommo bene a cui la sua umanità anela, diventando costruttore di se stesso e della storia. È quello che è accaduto a Dante soprattutto nel suo incontro con Beatrice e poi nella memoria rinnovata di lei, che gli ha aperto la via a tanti altri incontri (oltre che a una rinnovata consapevolezza e pratica dei Sacramenti). 
In questo forte messaggio sta la perenne attualità di Dante; ed è un messaggio particolarmente importante per l’uomo di oggi, che sembra avere smarrito, con la memoria della sua tradizione, la forza di sperare e di costruire un’esistenza significativa e una convivenza giusta, sopraffatto dallo scetticismo corrosivo, dall’edonismo materialistico, da quella visione ultimamente nichilistica del tutto che è alla base della cultura dominante nella nostra società. 
La forza di Dante invece, quella forza che emerge limpidamente anche nel canto in questione, è la memoria, di cui lo sguardo al cielo è metafora. La memoria, che gli permette di pensare la sua vita e quella del mondo in termini di significato, di costruttività, non è appena - come si diceva - il ricordo della civiltà cavalleresca, ma è la memoria di ciò di cui la civiltà cortese-cavalleresca, così come la evoca il Poeta, era segno: un ordine superiore, fatto di giustizia, di bellezza, di letizia eterna, capace di vincere il male, la violenza, il disordine della società attuale. 

Bibliografia 

C. Grabher, Il canto XIV del Purgatorio in “Siculorum Gymnasium” X, 1957 pp. 151-166; 
A. Piromalli, Il canto XIV del Purgatorio, in “Convivium” 1962; 
G. Barberi Squarotti, Il canto XIV del Purgatorio (1966) in “L’artifìcio dell’eternità - Studi danteschi”, Verona, 1972 pp. 333-381; 
S. Accardo, Il canto XIV del Purgatorio in AA. VV., Nuove letture dantesche, IV, Le Monnier, Firenze 1970 pp. 149-166.

* Valeria CAPELLI dal 1970 ha insegnato lettere italiane e latine al Liceo Scientifico di Forlì, collaborando con centri culturali di varie città e centri di didattica e di sperimentazione come animatrice di corsi di aggiornamento per insegnati e di corsi per maturandi. Presso Marietti 1820 ha pubblicato nel 2006 le Letture dantesche tenute nella pieve di Polenta e nella Basilica di San Mercuriale in Forlì (1996-2005)