lunedì 7 ottobre 2019

«Nel mezzo del cammin di nostra vita... la speranza». Intervento del Cardinale Gualtiero Bassetti a Ravenna in occasione del "Dantis poetae transitus" del 13 settembre 2019


Saluto con piacere, ringraziandolo per l’invito, l’arcivescovo metropolita di Ravenna-Cervia mons. Lorenzo Ghizzoni; saluto con gratitudine padre Ivo Laurentini, direttore del Centro Dantesco dei Frati minori conventuali, con i suoi collaboratori; saluto il sindaco di Ravenna Michele de Pascale, tutte le autorità, e tutti coloro che, in questa città, custodiscono le spoglie e la memoria di Dante Alighieri, il sommo poeta della nostra Italia. La comunità ravennate, ben consapevole del loro valore affettivo, le ha difese nei secoli, dopo la sua morte, avvenuta in questa stessa notte, nel 1321, cui seguirono le esequie nella chiesa oggi di San Francesco. Dante scelse Ravenna e l’ospitalità della sua gente come epilogo del suo ‘esilio terreno’. Possiamo usare questa espressione, «esilio», nel duplice senso, sia politico sia biblico-liturgico.
Saluto tutti gli intervenuti, e in particolare il professor Giuseppe Ledda, studioso specialista di aspetti fondamentali dell’esegesi dantesca. Queste mie riflessioni non hanno pretesa di esegesi o di ermeneutica; sono, prima di tutto, pensieri di un lettore-ammiratore, nato e cresciuto in una terra, la Toscana, nella quale Dante Alighieri fa parte quasi dell’humus: la sua Commedia si recita a memoria, scorre nelle vene, sgorga nel cuore e te la ritrovi sulle labbra quasi come se fosse tua, espressione del tuo preciso pensiero. [Esempio della pastora…] Ogni volta che cito a memoria i suoi versi, mi sembrano stampati in un ricordo che ha radici più profonde dei banchi di scuola e dei libri di testo.
Non volendo addentrarmi in argomentazioni critiche o scientifiche, posso però avanzare e proiettare su uno sfondo teologico una constatazione in apparenza semplice: pur essendosi già detto e scritto tanto, è ancora molto ciò che resta da dire. Soprattutto, è straordinario quanto ancora Dante sappia dire, di nuovo e sorprendente, parlando a questo nostro tempo apparentemente disincantato e smaliziato, nel quale si ha talora la sensazione di poter fare a meno non solo di Dio, ma anche dell’uomo. Dopo sette secoli, dopo profondi e radicali cambiamenti sociali e culturali, la sua parola densa di significati, che non si finisce mai di esplorare, riesce ancora a illuminarci la strada, a renderla non un cammino sterile, privo di senso e di meta, ma un pellegrinaggio, come fu il suo, denso di speranza e di futuro.
Avere, come Dante Alighieri, argomenti inesauribili, che continuano a inserirsi perfettamente nell’attualità personale e sociale, è il segno non solo della grande poesia, ma anche, in senso ampio, della profezia, specialmente in quanto la sua vita e la sua opera sono state illuminate dalla fede, dalla volontà di credere e sperare in Dio, pur nella fragilità della condizione umana.
  
Del resto l’antica celebrazione del Transitus, la rievocazione del passaggio dalla terra al cielo, voluta dai francescani per Dante, lo assimila a san Francesco e ad altri santi, e queste cerimonie in corso non sembrano e non sono una pura commemorazione culturale, ma si avvicinano a quelle di un dies natalis, anche se, per tanti motivi, non c’è una canonizzazione. Sono molti i semi di speranza che ha lasciato, e alcuni non finiscono ancora di affiorare. Nella mia Perugia, per esempio, nel rione di Porta Sole, vi è un angolo discreto, quasi sconosciuto agli stessi perugini, a cui si accede dopo una ripida salita. In questa piazzetta nascosta, da cui si vede però tutto il monte Subasio con Assisi, una lapide riporta i versi del canto XI del Paradiso:

«Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole» … [fin qui la lapide (Par XI, 43-48)]

«…e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto…».

È san Tommaso d’Aquino che, nel Paradiso, parla di san Francesco, mentre Dante, ormai alleggerito di ciò che lo appesantiva, si approssima alla meta. Ma non sarà sufficiente arrivarci: una volta raggiunta, il poeta, a cui è stato concesso questo privilegio, la dovrà condividere con gli altri viventi, narrando al ritorno il suo percorso di speranza consolidata.
Ancora oggi, dopo secoli, le sue scale, le sue salite che ‘sanno di sale’, sono quelle di ognuno di noi. Ho letto con interesse alcuni saggi del professor Ledda, nei quali il viaggio personale di Dante viene confrontato a modelli biblici, attraverso i quali il suo percorso diventa quello di tutti. Il tema dell’esilio, autobiografico e dolorosissimo per lui, diventa il tema del pellegrinaggio, passando dal modello dell’esodo a quello dell’ascesi. Da Adamo al nuovo Adamo, Gesù Cristo, il quale consente a ogni uomo, con la sua incarnazione, di “ritornare” alla patria celeste. La Commedia è come un giubileo all’ennesima potenza, rispetto a quello del 1300 che Dante ebbe ben presente e che influenza tutto il suo poema. Ma anche i suoi riferimenti umani furono molteplici: Dante non solo mise a frutto la propria variegata esperienza, ma seppe attingere a una miriade di testimonianze vissute e raccontate, nonché a modelli letterari e filosofici rielaborati in modo originale.  
«Nel mezzo del cammin di nostra vita»: il primo verso è anche il primo passo. Meditatissimo verso, di uno che sa bene quale effetto produrrà in chi legge, ma, ancora prima, scava in se stesso, nella sostanza dell’umanità. Così la sua esperienza diventa universale, e così prende il volo e acquista un senso: quello della missione, oltre a quello della redenzione. Ma non per questo smette di essere poesia: e proprio questo dà, alla ‘missione’, un carattere laico nel senso migliore, cioè universale, aperto, assimilabile, capace di parlare a tutti al di là delle appartenenze.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita». Versi che metton voglia di fermarsi a meditare ogni passo, come si narra facesse san Francesco, che recitando il Paternoster si soffermava su due sole parole: «Padre», «nostro».
Quasi fosse una preghiera, capace di comunicazione con l’ineffabile, ogni parola di Dante ha un peso, affonda nella nostra densità, nella profondità della nostra stessa vita, e s’incide in neretto nella mente e nella coscienza: «Nel mezzo del cammin di nostra vita…». E qui ci siamo davvero tutti.
Il poema è già tutto lì. Partono già lì i cerchi, i gironi, ma anche le orbite che ricondurranno all’unico vero centro: «l’Amor che move il sole e l’altre stelle». Là dove tutto è cominciato, tutto si conclude, tutto riparte. Questo è un poema scritto da un uomo per centrare il cuore dell’uomo, ricondurlo a se stesso, ai suoi abissi, e poi risollevarlo, verso la purificazione e verso l’incontro con Colui che dà senso a tutti i nostri versi e a tutta la nostra prosa.
Il «mezzo del cammin di nostra vita» viene glossato normalmente, scolasticamente, come riferito alla ‘mezza età’. Quel tempo della nostra vita mortale, per parafrasare l’altro grande poeta Giacomo Leopardi [A Silvia: «Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale…»], in cui si comincia a pensare alla tanta esistenza già accumulata, si fanno i primi bilanci, e non di rado ci si ritrova nella selva oscura della confusione, dell’incertezza riguardo al futuro, del ‘peccato’ – diciamola pure questa parola, non tanto con il significato di singolo gesto o evento, quanto di quel grigiore dell’anima che allontana dallo stato di grazia.
Il guaio del nostro tempo, diceva Giovanni Papini, è che non esiste più il nero né il bianco, ma solo una uniformità di grigio. Il «mezzo del cammino» dantesco, in effetti, può essere anche la mediocrità nel senso peggiore: non l’aurea mediocritas raccomandata dai filosofi, ma l’accomodamento in una selva di autocompiacimento e autogiustificazione, nella quale, smarrite le coordinate di un cammino elevato, ci si accontenta di mezzi valori, mezze verità, mezze bugie, mezzi ragionamenti, per amore di un presunto quieto vivere, per non rischiare di perdere posizioni acquisite, per non dover combattere battaglie sfavorevoli, perché disillusi. In una parola: perché non si crede più nelle beatitudini evangeliche, nello sperare contra spem, attraverso la croce.
È stato notato dagli studiosi che il tema del pellegrinaggio è ovunque nella Commedia, in tutte e tre le cantiche. Ma nell’Inferno prende la forma di atroci illusioni di movimento, che in realtà implicano la stasi o la parodia: la rincorsa degli ignavi dietro un vessillo inconsistente, la marcia dei sodomiti nel sabbione rovente, la paradossale andatura retrograda degli indovini, l’avanzata impossibile degli ipocriti sotto cappe di piombo. Non si va più da nessuna parte. Così la singolare dote di profezia dei dannati è solo apparente: la loro conoscenza si concluderà – verso terribile – quando «del futuro fia chiusa la porta». Canto X dell’Inferno (v. 108): Farinata spiega la particolare conoscenza dei dannati, che prevede l’evento ma svanisce man mano che esso si avvicina, e cesserà del tutto alla fine dei tempi. La perdita di ogni sapienza coincide con la perdita di ogni speranza: la ratifica della tremenda condanna scritta all’ingresso dell’Inferno.
Invece, nel Purgatorio ogni pena è finalizzata ed elevante, una ascesi: ciò che dovrebbe accadere al cristiano nel corso della sua esistenza, se è illuminato dalla luce della fede. Il Paradiso, infine, è la sintesi ineffabile tra la stabilità dell’appagamento e l’eterno dinamismo di comunione e bellezza espresso al massimo grado nella Trinità.
Vorrei riallacciarmi al tema della conoscenza (quella vera e quella presunta) per associare il canto XXVI dell’Inferno, quello di Ulisse e Diomede, culminante nella celeberrima terzina, che a volte mi ritrovo a declamare:

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza (If XXVI, 118-120).

L’occasione è nota: Ulisse sprona i compagni a fare appello a tutte le loro risorse e alla loro stessa natura umana, che li distingue dagli animali, per slanciarsi oltre le colonne d’Ercole, il limite allora tradizionalmente segnato e invalicabile. Lo sforzo di Ulisse è quello di sfidare questa stessa contraddizione: andare oltre l’umano con le forze umane. Ma lo fa confidando ‘solo’ in esse, ed è questo, e non le colonne d’Ercole, il suo vero limite.
Il resto è noto: con un simile incitamento, i remi diventano «ali» per il «folle volo», e dopo cinque mesi appare in lontananza una montagna misteriosa, altissima. È il Purgatorio. A una breve esultanza segue subito il pianto: da quella terra «un turbo nacque», sballottando l’imbarcazione ormai impotente e ingovernabile, «infin che ’l mar fu sovra noi richiuso», altro verso magistrale e celeberrimo.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (If XXVI vv. 130-142)

 È evidente la partecipazione emotiva di Dante, che già nella prima frase del Convivio diceva: «Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Il poeta, sia nella sua personale simpatia, sia nella sua investitura in qualche modo ‘missionaria’ e ‘profetica’, non condanna certo la sete di «virtute e canoscenza», ma non la vuole né la professa a tutti i costi. Anche in questo, Dante anticipa i tempi, i secoli. Oggi, come allora, occorre precisare, proprio facendo appello a tutte le nostre risorse di umanità, la qualità del ‘progresso’ e del ‘progredire’, il vero movimento che ci fa avanzare rispetto a quello che invece ci tradisce, ci blocca, ci fa retrocedere, sia come singoli sia come comunità.
Forse alludeva a tutto questo Primo Levi nel romanzo Se questo è un uomo, dedicando un intero capitolo proprio al canto di Ulisse. In un campo di prigionia, un internato cerca di spiegare tali versi a un altro, anche se li ricorda male e a spezzoni; l’altro però capisce molto bene: c’è quasi una urgenza di capire, di afferrare i contenuti autentici del canto dantesco, prima che sia troppo tardi per tutti.
[L’autentico progresso non è nella Torre di Babele: ciò che rende l’uomo impotente non è la volontà di superare i propri limiti, ma la presunzione di farlo solo ‘grazie’ a se stesso e alle proprie forze. La speranza umana si contrappone in tal modo alla speranza data dalla fiducia in Dio]
Qualche mese fa abbiamo festeggiato il 50° anniversario dell’arrivo dell’uomo sulla Luna (20 luglio 1969). Abbiamo rivisto, insieme alle immagini di Neil [Niil] Armstrong che appoggia il primo piede esitante sul suolo lunare, il Santo Padre Paolo VI mentre seguiva l’evento in diretta alla TV, come la maggior parte delle persone del mondo. Era un’altra delle ‘colonne d’Ercole’ che veniva abbattuta. Ma su questo sforzo umano – culturale e scientifico – si stendeva la benedizione del Signore. Mi ha molto colpito, nelle rievocazioni che sono state fatte il 20 luglio 2019, il commento di alcuni sulle missioni attuali nello spazio, che vengono ormai fatte, prevalentemente, non più con spirito di pura competizione ma di collaborazione tra le nazioni del mondo. Il bene è bene quando è per tutti. Ed è questo il vero, autentico progresso.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita» sta tutto questo. C’è continuamente il bivio che ci pone di fronte alle nostre stesse colonne d’Ercole, sia come comunità sia come individui: i limiti che vanno affrontati e superati, non solo facendo appello alle nostre forze umane o individuali, né dibattendosi dietro vani ideali in una illusione di progresso egoistico. In tutti i suoi passi, iniziando dal primo, la Commedia di Dante è un viaggio straordinario al centro dell’uomo, nel cuore di Dio. Un viaggio di grande speranza, l’unico possibile. Perciò oggi resta più che mai Divina, e più che mai attuale: proprio perché continua ad additare il cammino della trascendenza e del sommo Bene «nel mezzo del cammin di nostra vita», di questa «nostra» stessa umanità.

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