Saluto con piacere, ringraziandolo per l’invito, l’arcivescovo metropolita
di Ravenna-Cervia mons. Lorenzo Ghizzoni; saluto con gratitudine padre Ivo
Laurentini, direttore del Centro Dantesco dei Frati minori conventuali, con i
suoi collaboratori; saluto il sindaco di Ravenna Michele de Pascale, tutte le
autorità, e tutti coloro che, in questa città, custodiscono le spoglie e la
memoria di Dante Alighieri, il sommo poeta della nostra Italia. La comunità
ravennate, ben consapevole del loro valore affettivo, le ha difese nei secoli, dopo
la sua morte, avvenuta in questa stessa notte, nel 1321, cui seguirono le
esequie nella chiesa oggi di San Francesco. Dante scelse Ravenna e l’ospitalità
della sua gente come epilogo del suo ‘esilio terreno’. Possiamo usare questa
espressione, «esilio», nel duplice senso, sia politico sia biblico-liturgico.
Saluto tutti gli intervenuti, e in particolare il professor Giuseppe Ledda,
studioso specialista di aspetti fondamentali dell’esegesi dantesca. Queste mie
riflessioni non hanno pretesa di esegesi o di ermeneutica; sono, prima di
tutto, pensieri di un lettore-ammiratore, nato e cresciuto in una terra, la
Toscana, nella quale Dante Alighieri fa parte quasi dell’humus: la sua Commedia si
recita a memoria, scorre nelle vene, sgorga nel cuore e te la ritrovi sulle
labbra quasi come se fosse tua, espressione del tuo preciso pensiero. [Esempio
della pastora…] Ogni volta che cito a memoria i suoi versi, mi sembrano
stampati in un ricordo che ha radici più profonde dei banchi di scuola e dei
libri di testo.
Non volendo addentrarmi in argomentazioni critiche o scientifiche, posso
però avanzare e proiettare su uno sfondo teologico una constatazione in
apparenza semplice: pur essendosi già detto e scritto tanto, è ancora molto ciò
che resta da dire. Soprattutto, è straordinario quanto ancora Dante sappia dire,
di nuovo e sorprendente, parlando a questo nostro tempo apparentemente
disincantato e smaliziato, nel quale si ha talora la sensazione di poter fare a
meno non solo di Dio, ma anche dell’uomo. Dopo sette secoli, dopo profondi e
radicali cambiamenti sociali e culturali, la sua parola densa di significati,
che non si finisce mai di esplorare, riesce ancora a illuminarci la strada, a
renderla non un cammino sterile, privo di senso e di meta, ma un
pellegrinaggio, come fu il suo, denso di speranza e di futuro.
Avere, come Dante Alighieri, argomenti inesauribili, che continuano a
inserirsi perfettamente nell’attualità personale e sociale, è il segno non solo
della grande poesia, ma anche, in senso ampio, della profezia, specialmente in
quanto la sua vita e la sua opera sono state illuminate dalla fede, dalla
volontà di credere e sperare in Dio, pur nella fragilità della condizione umana.
Del resto l’antica celebrazione del Transitus, la rievocazione del
passaggio dalla terra al cielo, voluta dai francescani per Dante, lo assimila a
san Francesco e ad altri santi, e queste cerimonie in corso non sembrano e non
sono una pura commemorazione culturale, ma si avvicinano a quelle di un dies natalis, anche se, per tanti
motivi, non c’è una canonizzazione. Sono molti i semi di speranza che ha
lasciato, e alcuni non finiscono ancora di affiorare. Nella mia Perugia, per
esempio, nel rione di Porta Sole, vi è un angolo discreto, quasi sconosciuto
agli stessi perugini, a cui si accede dopo una ripida salita. In questa
piazzetta nascosta, da cui si vede però tutto il monte Subasio con Assisi, una
lapide riporta i versi del canto XI del Paradiso:
«Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole» … [fin qui la lapide (Par
XI, 43-48)]
«…e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.
Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto…».
È san Tommaso d’Aquino che, nel Paradiso,
parla di san Francesco, mentre Dante, ormai alleggerito di ciò che lo
appesantiva, si approssima alla meta. Ma non sarà sufficiente arrivarci: una
volta raggiunta, il poeta, a cui è stato concesso questo privilegio, la dovrà
condividere con gli altri viventi, narrando al ritorno il suo percorso di
speranza consolidata.
Ancora oggi, dopo secoli, le sue scale, le sue salite che ‘sanno di sale’,
sono quelle di ognuno di noi. Ho letto con interesse alcuni saggi del professor
Ledda, nei quali il viaggio personale di Dante viene confrontato a modelli
biblici, attraverso i quali il suo percorso diventa quello di tutti. Il tema
dell’esilio, autobiografico e dolorosissimo per lui, diventa il tema del
pellegrinaggio, passando dal modello dell’esodo a quello dell’ascesi. Da Adamo
al nuovo Adamo, Gesù Cristo, il quale consente a ogni uomo, con la sua
incarnazione, di “ritornare” alla patria celeste. La Commedia è come un giubileo all’ennesima potenza, rispetto a quello
del 1300 che Dante ebbe ben presente e che influenza tutto il suo poema. Ma
anche i suoi riferimenti umani furono molteplici: Dante non solo mise a frutto
la propria variegata esperienza, ma seppe attingere a una miriade di
testimonianze vissute e raccontate, nonché a modelli letterari e filosofici
rielaborati in modo originale.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita»: il primo verso è anche il primo
passo. Meditatissimo verso, di uno che sa bene quale effetto produrrà in chi
legge, ma, ancora prima, scava in se stesso, nella sostanza dell’umanità. Così
la sua esperienza diventa universale, e così prende il volo e acquista un
senso: quello della missione, oltre a quello della redenzione. Ma non per
questo smette di essere poesia: e proprio questo dà, alla ‘missione’, un
carattere laico nel senso migliore, cioè universale, aperto, assimilabile, capace
di parlare a tutti al di là delle appartenenze.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita». Versi che metton voglia di fermarsi
a meditare ogni passo, come si narra facesse san Francesco, che recitando il Paternoster si soffermava su due sole
parole: «Padre», «nostro».
Quasi fosse una preghiera, capace di comunicazione con l’ineffabile, ogni
parola di Dante ha un peso, affonda nella nostra densità, nella profondità
della nostra stessa vita, e s’incide in neretto nella mente e nella coscienza:
«Nel mezzo del cammin di nostra vita…». E qui ci siamo davvero tutti.
Il poema è già tutto lì. Partono già lì i cerchi, i gironi, ma anche le
orbite che ricondurranno all’unico vero centro: «l’Amor che move il sole e
l’altre stelle». Là dove tutto è cominciato, tutto si conclude, tutto riparte.
Questo è un poema scritto da un uomo per centrare il cuore dell’uomo, ricondurlo
a se stesso, ai suoi abissi, e poi risollevarlo, verso la purificazione e verso
l’incontro con Colui che dà senso a tutti i nostri versi e a tutta la nostra
prosa.
Il «mezzo del cammin di nostra vita» viene glossato normalmente,
scolasticamente, come riferito alla ‘mezza età’. Quel tempo della nostra vita mortale, per parafrasare
l’altro grande poeta Giacomo Leopardi [A Silvia: «Silvia, rimembri ancora /
quel tempo della tua vita mortale…»], in cui si comincia a pensare alla tanta esistenza
già accumulata, si fanno i primi bilanci, e non di rado ci si ritrova nella
selva oscura della confusione, dell’incertezza riguardo al futuro, del ‘peccato’
– diciamola pure questa parola, non tanto con il significato di singolo gesto o
evento, quanto di quel grigiore dell’anima che allontana dallo stato di grazia.
Il guaio del nostro tempo, diceva Giovanni Papini, è che non esiste più il
nero né il bianco, ma solo una uniformità di grigio. Il «mezzo del cammino»
dantesco, in effetti, può essere anche la mediocrità
nel senso peggiore: non l’aurea
mediocritas raccomandata dai filosofi, ma l’accomodamento in una selva di autocompiacimento e
autogiustificazione, nella quale, smarrite le coordinate di un cammino elevato,
ci si accontenta di mezzi valori, mezze verità, mezze bugie, mezzi
ragionamenti, per amore di un presunto quieto vivere, per non rischiare di
perdere posizioni acquisite, per non dover combattere battaglie sfavorevoli,
perché disillusi. In una parola: perché non si crede più nelle beatitudini
evangeliche, nello sperare contra spem,
attraverso la croce.
È stato notato dagli studiosi che il tema del pellegrinaggio è ovunque
nella Commedia, in tutte e tre le
cantiche. Ma nell’Inferno prende la forma di atroci illusioni di movimento, che
in realtà implicano la stasi o la parodia: la rincorsa degli ignavi dietro un
vessillo inconsistente, la marcia dei sodomiti nel sabbione rovente, la
paradossale andatura retrograda degli indovini, l’avanzata impossibile degli
ipocriti sotto cappe di piombo. Non si va più da nessuna parte. Così la singolare
dote di profezia dei dannati è solo apparente: la loro conoscenza si concluderà
– verso terribile – quando «del futuro fia chiusa la porta». Canto X dell’Inferno (v. 108): Farinata spiega la
particolare conoscenza dei dannati, che prevede l’evento ma svanisce man mano
che esso si avvicina, e cesserà del tutto alla fine dei tempi. La perdita di
ogni sapienza coincide con la perdita di ogni speranza: la ratifica della
tremenda condanna scritta all’ingresso dell’Inferno.
Invece, nel Purgatorio ogni pena è finalizzata ed elevante, una ascesi: ciò
che dovrebbe accadere al cristiano nel corso della sua esistenza, se è
illuminato dalla luce della fede. Il Paradiso, infine, è la sintesi ineffabile
tra la stabilità dell’appagamento e l’eterno dinamismo di comunione e bellezza
espresso al massimo grado nella Trinità.
Vorrei riallacciarmi al tema della conoscenza (quella vera e quella
presunta) per associare il canto XXVI dell’Inferno,
quello di Ulisse e Diomede, culminante nella celeberrima terzina, che a volte mi
ritrovo a declamare:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza (If
XXVI, 118-120).
L’occasione è nota: Ulisse sprona i compagni a fare appello a tutte le loro
risorse e alla loro stessa natura umana, che li distingue dagli animali, per slanciarsi
oltre le colonne d’Ercole, il limite allora tradizionalmente segnato e
invalicabile. Lo sforzo di Ulisse è quello di sfidare questa stessa
contraddizione: andare oltre l’umano con le forze umane. Ma lo fa confidando
‘solo’ in esse, ed è questo, e non le colonne d’Ercole, il suo vero limite.
Il resto è noto: con un simile incitamento, i remi diventano «ali» per il
«folle volo», e dopo cinque mesi appare in lontananza una montagna misteriosa,
altissima. È il Purgatorio. A una breve esultanza segue subito il pianto: da
quella terra «un turbo nacque», sballottando l’imbarcazione ormai impotente e
ingovernabile, «infin che ’l mar fu sovra noi richiuso», altro verso magistrale
e celeberrimo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (If XXVI vv. 130-142)
Forse alludeva a tutto questo Primo Levi nel romanzo Se questo è un uomo, dedicando un intero capitolo proprio al canto
di Ulisse. In un campo di prigionia, un internato cerca di spiegare tali versi
a un altro, anche se li ricorda male e a spezzoni; l’altro però capisce molto
bene: c’è quasi una urgenza di capire, di afferrare i contenuti autentici del
canto dantesco, prima che sia troppo tardi per tutti.
[L’autentico progresso non è nella Torre di Babele: ciò che rende l’uomo
impotente non è la volontà di superare i propri limiti, ma la presunzione di
farlo solo ‘grazie’ a se stesso e alle proprie forze. La speranza umana si
contrappone in tal modo alla speranza data dalla fiducia in Dio]
Qualche mese fa abbiamo festeggiato il 50° anniversario dell’arrivo
dell’uomo sulla Luna (20 luglio 1969). Abbiamo rivisto, insieme alle immagini
di Neil [Niil] Armstrong che appoggia il primo piede esitante sul suolo lunare,
il Santo Padre Paolo VI mentre seguiva l’evento in diretta alla TV, come la
maggior parte delle persone del mondo. Era un’altra delle ‘colonne d’Ercole’
che veniva abbattuta. Ma su questo sforzo umano – culturale e scientifico – si
stendeva la benedizione del Signore. Mi ha molto colpito, nelle rievocazioni
che sono state fatte il 20 luglio 2019, il commento di alcuni sulle missioni
attuali nello spazio, che vengono ormai fatte, prevalentemente, non più con
spirito di pura competizione ma di collaborazione tra le nazioni del mondo. Il
bene è bene quando è per tutti. Ed è questo il vero, autentico progresso.
«Nel mezzo del cammin di nostra vita» sta tutto questo. C’è continuamente il
bivio che ci pone di fronte alle nostre stesse colonne d’Ercole, sia come
comunità sia come individui: i limiti che vanno affrontati e superati, non solo
facendo appello alle nostre forze umane o individuali, né dibattendosi dietro
vani ideali in una illusione di progresso egoistico. In tutti i suoi passi, iniziando
dal primo, la Commedia di Dante è un
viaggio straordinario al centro dell’uomo, nel cuore di Dio. Un viaggio di
grande speranza, l’unico possibile. Perciò oggi resta più che mai Divina, e più che mai attuale: proprio
perché continua ad additare il cammino della trascendenza e del sommo Bene «nel
mezzo del cammin di nostra vita», di
questa «nostra» stessa umanità.
Nessun commento:
Posta un commento