L’evento è stato organizzato in occasione dell’inizio dell’Anno della Fede e del Sinodo dei Vescovi. Il tema scelto, infatti, ha fatto sì che la serata dantesca si inserisca pienamente nella programmazione dell’Anno della Fede, mettendo in luce proprio il legame vitale che lega la figura di Dante Alighieri, e la sua opera, con la Fede cristiana.
Questa manifestazione, che fa seguito alla costituzione di un Comitato scientifico-organizzativo promosso dal Dicastero, ha rappresentato, inoltre, la prima di una serie di iniziative in preparazione alle celebrazioni del VII Centenario della morte del Sommo Poeta, nel 2021.
Il programma della serata ha previsto la lettura del Canto XXIV del Paradiso, nel quale Dante professa il suo Credo, a cura di Gabriele Lavia, Attore e Direttore del Teatro di Roma.
Hanno commentato il Canto S. Em. il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Casa di Dante in Roma e il Prof. Luca Azzetta, della Università Cattolica di Milano. Alcuni brevi interventi musicali saranno eseguiti dal gruppo Sinfonye, diretto da Stevie Wishart.
La serata è stata registrata dalla RAI e trasmessa Mercoledì 17 Ottobre alle ore 21.00 nel Programma Dixit di Giovanni Minoli sul canale RAI Storia
L'esame di Fede di Dante
intervento del Cardinale Gianfranco Ravasi *
Joseph Ratzinger nell’Introduzione al Cristianesimo, la sua opera più nota prima di diventare Benedetto XVI, evoca un particolare ritratto di Dante, quello che è delineato nella «commovente conclusione della Divina Commedia, allorché egli, contemplando il mistero di Dio, scorge con estatico rapimento la propria immagine, un volto umano, al centro dell’abbagliante cerchio di fiamme formate da “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”».
In realtà il passo a cui si fa cenno («dentro da sé, del suo colore stesso / mi parve pinta de la nostra effige; / per che ’l mio viso in lei tutto era messo», Paradiso XXXIII, 130-132) rimanda all’Incarnazione di Cristo e quella «nostra effige» è il volto umano di Gesù, che è contemplata dal nostro «viso», cioè dalla nostra visione, dal nostro sguardo. Sta di fatto, però, che in questi versi, citati da Ratzinger, si ha anche il profilo ideale autentico del poeta e della sua fede.
Le cinque domande di Pietro
Egli è, infatti, un grande e appassionato credente e testimone della fede cristiana. L’attestazione più alta e nitida è nel canto XXIV del Paradiso, dedicato proprio alla fede, il primo di un trittico che – sotto la volta del cielo stellato – vede sfilare le virtù teologali. Dante, quindi, viene sottoposto a un esame teologico da tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni – i tre testimoni privilegiati dei momenti più segreti della vita terrena di Gesù – rispettivamente sulla fede, sulla speranza e sulla carità. Il nostro ideale pellegrinaggio al seguito del poeta si fermerà alla prima tappa, quella dell’esame di fede di Dante. Naturalmente la nostra non sarà un’esegesi critica dei 154 versi di questo originale canto spirituale, ma sarà solo la testimonianza di una sintonia tra teologo e teologo. Sì, perché Dante rivela, intimamente intrecciata con la sua arte, proprio la sua fede e l’approfondimento a cui si è votato nella sua ricerca teologica. Come è stato scritto da una commentatrice, Anna Maria Chiavacci Leonardi, in questo canto «la teologia non è più esposta da altri, ma diventa fatto personale, la ragione stessa della vita di chi parla».
Una premessa è necessaria e riguarda il genere che Dante impone al suo canto teologico: in esso la professione di fede adotta un impianto drammatico, quasi da canto amebeo, perché si snoda attraverso un dialogo fatto di domande e risposte che intercorrono tra il «gran viro a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi» (vv. 34-35), cioè san Pietro, e Dante stesso interpellato sulle questioni «lievi e gravi» del credere, i levia et gravia del tradizionale dibattito teologico della Scolastica. L’aspetto rigoroso del confronto è esplicitato dal poeta stesso che ricorre a un’immagine accademica, comparandosi al «baccialier», al baccelliere nella tensione della vigilia dell’esame universitario (v. 46). Un’esperienza, quindi, dinamica e qualificata che sarà confermata dal contenuto stesso della verifica a cui l’alunno si sottoporrà.
Entriamo, allora, anche noi nell’aula celeste fattasi silenziosa ove Dante emozionato è davanti al «sodalizio eletto» (v. 1), all’accolta dei santi e al suo esaminatore, l’apostolo Pietro. Eccoci dunque al dialogo-interrogazione. Esso si apre con la domanda di base, radicale e fondamentale: «fede che è?» (v. 53), qual è la sua «quiditate» (v. 66), la sua essenza? La risposta è formulata attraverso la citazione della definizione offerta dalla Lettera agli Ebrei (11, 1) che la tradizione riteneva fosse dell’apostolo Paolo, anche se in realtà questa, che è una sorta di grandiosa omelia, è da assegnare a un autore e a un orizzonte letterario e teologico differente. «Fede è sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi» (vv. 64-65): è la resa puntuale della versione latina della Vulgata che Dante possiede, Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium. Questa resa ha i due cardini nelle parole «sustanza» (nell’originale greco hypòstasis) e «argomento» (élenchos).
Ed è appunto sul valore di questi due termini che si sviluppa la seconda interrogazione di Pietro, ed è interessante notare che Dante anticipa quanto è stato ribadito da Benedetto XVI nella sua Enciclica Spe Salvi, al numero 7, proprio riguardo al passo della Lettera agli Ebrei: «sustanza» non è tanto il principio fondante per sperare, la sorgente e la spinta verso la speranza, bensì il contenuto stesso, l’“ipostasi” della speranza. La realtà della gloria sperata è anticipata e svelata già nella fede, come commentava san Giovanni Crisostomo nella sua X omelia sulla Lettera agli Ebrei: «Poiché le cose che speriamo non sembrano possano avere consistenza, la fede dà ad esse sostanza, anzi essa stessa costituisce la loro essenza» (Patrologia Graeca 63, 451). La fede, poi, è anche «argomento», cioè dimostrazione (coerente al suo interno) delle realtà sperate che non sono «parventi» al mero percorso razionale. Si delinea, così, la logica interna alla fede, il suo statuto epistemologico proprio, il suo «silogizzar» (v. 77) nel cuore stesso del credere.
Fiorisce a questo punto la terza domanda: qual è la base sulla quale esercitare la ricerca argomentativa della fede così da avere la rivelazione della realtà delle «cose sperate»? La riposta di Dante è netta: è la Parola di Dio che è presente «in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia» (v. 93), cioè nelle pergamene della Bibbia. Al loro interno deve svilupparsi l’analisi teologica, il «silogismo» (v. 94) che le è proprio: essa si svolge su un altro livello rispetto a quello strettamente razionale la cui «dimostrazion» risulta in questo orizzonte «ottusa» (v.96), cioè spuntata e debole. Dante rivela un’altissima conoscenza delle Sacre Scritture, che costituiscono il suo retroterra spirituale e culturale, come è stato dimostrato da un’ormai antica e ininterrotta bibliografia (la più recente è l’accurata recensione condotta da Carolynn Lund-Mead e Amilcare Iannucci su Dante and the Vulgate Bible, edita da Bulzoni nel 2012). Basti solo pensare allo stesso incipit della Divina Commedia ove echeggia la voce del re Ezechia in Isaia: «A metà dei miei giorni me ne vado alle porte degli inferi» (38, 10).
Ma procediamo alla quarta interrogazione, squisitamente consequenziale: chi assicura che le Scritture attestino veramente la Parola di Dio, la «divina favella» (v. 99)? La risposta di Dante si colloca nell’alveo della tradizione apologetica: la prova della veridicità divina è nelle «opere seguite», cioè i miracoli che le costellano, atti trascendenti le leggi della natura. Pietro, però, non allenta il morso della dialettica e prosegue con la quinta interpellanza, anch’essa consequenziale: chi ti assicura sull’autenticità storica di questi eventi miracolosi? La replica dantesca è classica e affiora già in Agostino, ad esempio nel De civitate Dei (XXII, 5) e in altri Padri della Chiesa fino allo stesso Tommaso d’Aquino. Quand’anche non fossero verificabili quei miracoli, ce n’è uno che indirettamente li convalida ed è lo straordinario prodigio della conversione dell’intero mondo pagano avvenuto con l’evangelizzazione condotta da un pugno di persone deboli e marginali come era lo stesso Pietro, «povero» di mezzi economici e «digiuno» di cultura (v. 109).
Il Credo di Dante
Dante ha superato tutta la batteria di domande del suo esame di fede, il silenzio celeste s’infrange e s’intona un solenne Te Deum (v. 113). Ma il sipario non cala su questa scena “accademica”. Anzi si ha uno sviluppo inatteso e grandioso. Pietro invita Dante a professare il contenuto della sua fede attraverso il Credo, così da intrecciare le due dimensioni della fede: «espremer quel che credi, / e onde a la credenza tua s’offerse» (vv. 122-123). Si ha, così, secondo il linguaggio teologico, sia la fides quae cioè il contenuto della fede («quel che credi»), sia la fides qua, l’adesione fiduciale («la credenza»). Ed ecco Dante iniziare in modo quasi liturgico la sua professione di fede: «Io credo in uno Dio…» (v. 130). È una proclamazione commentata dei due articoli capitali della fede cristiana.
Il primo riguarda il Dio unico creatore, «che tutto ’l ciel move, / non moto, con amore e disio» (v. 131-132). Evidente è il rimando alla trilogia di parole - «move, amore, disio» - che aprono (I, 1) e chiudono (XXXIII, 143-145) la cantica paradisiaca. Suggestivo è anche l’incrocio tra la riflessione filosofica aristotelica della divinità come Motore immobile («move, non moto») e la visione personalistica cristiana del Dio amore («con amore e disio»). Una verità che si alimenta, quindi, alla filosofia, alle «prove fisice e metafisice» (vv.133-134), ma che attinge soprattutto alla luce delle Scritture, «per Moïsè, per profeti e per salmi, per l’Evangelio e per voi che scriveste», cioè per le Lettere apostoliche ispirate dallo Spirito (vv. 136-138). Si compie, così, il legame dinamico tra ragione e fede, un altro dei capisaldi della teologia cristiana.
Il secondo articolo di fede è trinitario: «Credo in tre persone etterne» che sono «una essenza sì una e sì trina», per cui – continua il poeta in modo molto originale – il discorso su di esse può essere condotto sia con il «sono» (la terza persona plurale) sia con l’«este», cioè l’“è” della terza singolare (vv.139-141). La Trinità, per altro, sarà anche l’ultima teofania del poema allorché si accenderanno nel cielo tre arcobaleni «di tre colori e d’una contenenza» (XXXIII, 117), diversi e identici nella trinità della persone e nell’unicità dell’essenza divina. Anche ora, adottando un’altra metafora luminosa, Dante conclude che queste due verità, l’unicità e la trinità divina, sono simile a una «favilla», a una scintilla di luce «che si dilata in fiamma poi vivace», in un fiammeggiare che illumina e riscalda, fino a diventare «come stella in cielo» che «in me scintilla», un astro che rischiara il firmamento dell’anima (vv.145-147). Un crescendo di luce, quindi, che trapassa da favilla a fiamma e a stella.
Si chiude qui il nostro itinerario minimo ed essenziale nella fede di Dante, una fede ardente e motivata, appassionata e rigorosa. Con lui si riesce a comprendere – come affermerà secoli dopo il filosofo credente Soeren Kierkegaard in un testo interamente dedicato al credere, Timore e tremore (1843) – che «la fede è la più alta passione dell’uomo. Ci sono forse in ogni generazione molti uomini che non arrivano fino ad essa, ma nessuno va oltre». Il poeta non esita a presentarsi come chi vive questa passione alta e profonda, potendo così vedere «perfettamente» ciò che la pura razionalità riesce appena a intuire «con ombra di oscuritade» (Convivio II, 8, 15). Ed è proprio in questo canto XXIV che egli senza riserva si autodefinisce così: «sì ho sì lucida e sì tonda / che nel suo conio nulla mi si inforsa» (vv. 86-87).
In altri termini, con questa orgogliosa affermazione della sua identità di credente, Dante dichiara di possedere la «moneta» della fede, cioè il tesoro prezioso evocato prima da san Pietro (vv. 84-85), e di averla nella pienezza della sua brillantezza e perfezione («lucida e tonda»), così da non mettere in forse («s’inforsa») in nessun modo la sua piena e totale autenticità («conio»). Il suo sguardo, infatti, è sempre stato fisso a quel cielo ove brilla la luce della trascendenza. Come scriveva Oscar Wilde, «siamo tutti nati nel fango, ma alcuni di noi guardano alle stelle». E Dante è uno di costoro, anzi, una delle guide che ci conduce a contemplare l’infinito e l’eterno.
La fede di Dante in Paradiso XXIV
intervento di Luca Azzetta **, Università Cattolica del Sacro Cuore
L’esperienza misteriosa della fede nella vita di un uomo non è mai circoscrivibile a un solo episodio o a un solo momento biografico. Così è per ogni uomo, così è anche per Dante. C’è tuttavia un luogo in cui Dante ha tracciato alcune linee di sintesi rispetto alla propria fede cristiana: si tratta del canto XXIV del Paradiso. Giunto nell’VIII cielo, quello delle Stelle Fisse, il poeta è chiamato a rispondere alle domande dell’apostolo Pietro così da dare testimonianza di come nella vita egli abbia vissuto la prima delle virtù teologali. Nei due canti seguenti Dante risponderà alle domande degli apostoli Giacomo (sulla speranza) e Giovanni (sulla carità). Non è un caso che proprio questi siano i nomi che Dante diede ai suoi tre figli maschi.
La struttura del canto XXIV è lineare. Esso si apre con la preghiera di Beatrice ai beati perché rivolgano la loro attenzione all’immenso desiderio di Dante di gustare quella fonte, Dio, alla quale essi sempre si abbeverano (1-12). Un lume fulgidissimo si rivolge dunque a Beatrice a motivo dell’amore che sente vibrare nelle sue parole (13-30). Si tratta dello spirito di san Pietro, a cui la donna chiede di interrogare il poeta non per sapere se egli possieda le virtù teologali, ma perché dalla sua testimonianza la fede sia glorificata. Per Dante dunque sarà l’occasione per professare come nella vita egli abbia incontrato e vissuto la fede (31-45). Inizia così la seconda parte del canto, tutta incentrata sulle richieste di Pietro e sulle risposte di Dante: si tratta di un dialogo serrato, insistente e martellante, in cui le domanda sono brevi e precise, racchiuse nel giro di due o tre versi e subito seguite dalle risposte puntuali del poeta. Le domande dell’Apostolo sono le seguenti:
Che cos’è la fede (52-53), a cui Dante risponde con una citazione letterale dall’Epistola agli Ebrei (53-66);
Quale sia l’interpretazione che Dante dà alle parole dell’Epistola da lui appena pronunciate, che, come notava Tommaso d’Aquino (Summa theologiae, II-IIae q. IV a. 1), costituiscono più una descrizione che una definizione della fede (66-69; risposta ai vv. 70-82);
Se Dante abbia fede (83-85; risposta ai vv. 86-87);
Da dove gli derivi (89-91; risposta ai vv. 91-96);
Quale sia la prova dell’ispirazione divina della Scrittura, su cui Dante basa la propria fede (97-99 e 103-05; risposta ai vv. 100-02 e 106-11).
Terminate le domande, Pietro invita Dante a esprimere ciò che concretamente egli crede e a dichiarare da dove abbia attinto ciò che crede (115-23 + risposta 124-47). Il canto si chiude con l’immagine gioiosa di san Pietro che, per manifestare la sua piena approvazione nei confronti di Dante, per tre volte gira intorno al poeta cantando la sua benedizione (148-54).
Nell’estrema densità concettuale del canto vorrei evidenziare due peculiarità che, raffrontate con altri luoghi del Paradiso, possono aiutarci a comprendere alcuni aspetti della fede di Dante.
La prima. Chiedendo al poeta se egli abbia fede, Pietro ricorre alla metafora di una moneta preziosa (83-85):
«[...] “Assai bene è trascorsa
d’esta moneta già la lega e il peso;
ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa».
Dante, continuando nell’uso della stessa immagine, risponde con queste parole:
«[...] “Sì ho, sì lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla mi s’inforsa”» (86-87).
Attraverso la metafora della moneta preziosa e perfetta, Dante afferma di non avere nessun dubbio sulla fede cristiana, e anzi inventa un neologismo, il verbo inforsarsi, che indica precisamente come sia una fede che non conosce forse, non conosce incertezze. Si tratta di una di quelle affermazioni di straordinaria forza ed energia che tanto hanno contribuito a creare quell’immagine granitica tipica di Dante, che, a distanza di secoli, sembra non lasciare sfumature a una eccezionale e cristallina fermezza.
Tuttavia per comprendere nel profondo questa affermazione, così perentoria nei toni, è giocoforza osservare come il Paradiso sia la cantica dei dubbi di Dante, il cui ardore del desiderio dice fortemente la tensione dubitativa e gnoseologica. Non si tratta solamente di osservare un fatto quantitativo, cioè che i verbi dubbiare e dubitare e il sostantivo dubbio punteggiano con maggiore frequenza la terza cantica rispetto alle due precedenti; si tratta piuttosto di osservare come il dubbio assuma in Dante la funzione di elemento positivo e dinamico, facendosi desiderio che stimola la conoscenza del vero, tensione inesauribile alla ricerca di una fede matura. È Dante stesso, che già ne aveva parlato nel Convivio (IV XII 13-17 e XIII 1-4), a descrivere tale procedimento nel canto IV del Paradiso, in cui spiega come il desiderio di una verità ulteriore, nato dal dubbio, come questo a sua volta da una verità in precedenza conquistata, potrà trovare il suo definitivo compimento solo in Dio (IV 124-35). È per questo che il poeta, prima di giungere alla professione di fede, nel canto XIX ha avuto l’ardire di interrogare gli spiriti del cielo di Giove circa la giustizia imperscrutabile di Dio, che il poeta afferma di credere per fede, e che proprio per questo lo porta a muovere la domanda radicale sul destino delle anime degli uomini giusti che tuttavia non professarono la fede cristiana:
«[...] “Un uom nasce a la riva
de l'Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”» (XIX 70-78).
Per Dante insomma la certezza della fede e il dubbio della ricerca non sono affatto antitetici; anzi, lungo i canti del poema, il dubbio e il desiderio di verità sono stati la manifestazione più autentica di una fede che si è fatta domanda su Dio e sul rapporto tra Dio e uomo, nella fiducia, incrollabile e senza forse, che questa tensione, questo sforzo razionale e affettivo insieme, che muove l’intelligenza e la volontà, possa trovare il suo compimento nella contemplazione della verità di Dio. È questa la certezza senza dubbi di Dante: è la fede incrollabile che le domande ultime ed estreme sul senso dell’esistere e del mondo trovino risposta in Dio, un Dio d’amore e di relazione:
«e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’» (XXIV 139-41).
Così la poesia di Dante, che lungo i sentieri enigmatici della storia si alimenta della dialettica tra il dubbio della domanda e un affidamento che non conosce incertezze, parla ancora al cuore dell’uomo. L’uomo cerca il senso della vita. La fede dà questo senso, ma non elimina la ricerca, che anzi fa parte della nostra più autentica condizione umana. Per questo la fede è un dono e una conquista, una moneta preziosa – come ha detto il poeta – che si può perdere e sempre riguadagnare. La fede di Dante è intensa proprio perché si cimenta e si lascia sollecitare dal rovello e dalla domanda, che, oltre la professione di questo canto, potrà trovare appagamento solo nella visione finale di Dio, termine della fede e approdo inesauribile di ogni dubbio e desiderio umano; dirà infatti nell’ultimo canto (XXXIII 46-48):
«E io ch'al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii»
Che Dante voglia sottolineare proprio questo rapporto, che caratterizza ogni uomo in ricerca, emerge anche dalle parole con cui Beatrice si rivolge a san Pietro per invitarlo a interrogare approfonditamente il poeta (XXIV 37-39):
«tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi».
Le parole di Beatrice rivolte al «gran viro», la grande anima beata del Paradiso, con un brusco mutamento di prospettiva nell’ultimo verso della terzina richiamano un episodio preciso della vita terrena di Pietro: quando l’Apostolo, come narra il vangelo di Matteo, camminò sulle acque. Si tratta tuttavia di un episodio che mentre testimonia la fede di Pietro, nello stesso tempo rievoca anche il dramma da lui sperimentato nella sua concreta storicità terrena quando, impaurito, cominciò a sprofondare nell’acqua: «“Signore salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”» (Mt 14 28-31). Quel Pietro, dubitoso e insieme appassionato, desideroso di andare verso il suo Signore, è lo stesso «gran viro» - dice Dante - che ora lo accoglie nell’ottavo cielo perché il poeta possa glorificare la sua fede cristiana. Questo rapporto inscindibile tra la fede del Pietro storico, segnato da dubbi e contraddizioni, e la fede dello spirito beato che ora interroga il poeta non è stato colto dai moderni esegeti; al contrario esso fu ben chiaro ai primi lettori del poema. Pietro Alighieri infatti, il figlio di Dante, intorno al 1340 commentava questi versi richiamando l’autorità del vescovo Ambrogio, che in una sua omelia così aveva detto di Pietro: «Pietro divenne più fedele dopo che pianse per aver perso la fede; e dunque trovò una grazia maggiore di quella che aveva perduto» («Post negationem in fide et gradu Petrus profecit. Item Ambrosius in omelia L: “Fidelior factus est Petrus, postquam fidem se perdidisse deflevit; atque ideo maiorem gratiam reperit quam amisit”»; oggi sappiamo che il testo citato da Pietro Alighieri attraverso la mediazione del Decretum Gratiani, dist. 50, pars 1, c. 54, non deriva da un’opera di Ambrogio, ma dai Sermones di Massimo vescovo di Torino).
La seconda peculiarità che vorrei evidenziare riguardo la fede di Dante prende le mosse dalla risposta alla quarta domanda dell’Apostolo, che chiede al poeta da dove gli derivi la fede (XXIV 89-91). Dante infatti confessa che la fede non sorge dagli argomenti umani, ma dalla «larga ploia», una pioggia abbondante, che lo Spirito ha diffuso nelle «vecchie» e «nuove cuoia», cioè nelle pergamene dell’Antico e del Nuovo Testamento (XXIV 91-96). È a partire da questi versi che la Sacra Scrittura diviene protagonista indiscussa dell’ultima parte del canto, legandosi inscindibilmente alla fede di Dante. Rispetto all’acutezza della Parola di Dio, ogni speculazione umana - dice il poeta - si rivela debole, inefficace: «ogne dimostrazion mi pare ottusa» (96).
Si tratta di una affermazione importante. Dante sembra prendere le distanze, non senza una punta polemica, rispetto a una certa filosofia - quella di Averroé, di Giovanni di Jandun e di alcuni maestri parigini - che presume di poter conoscere perfettamente l’oggetto della fede, così da rendere l’uomo beato: il fondamento della fede non è nelle dimostrazioni sillogistiche delle argomentazioni filosofiche, non è nell’«ingegno di sofista» (81) né soltanto nelle «prove fisice e metafisice» (133-34), ma è nella parola della Scrittura e dunque nella lectio biblica. Per questo Dante chiuderà la sua professione di fede affermando che è la Sacra Scrittura, e il Vangelo in particolare, a dare forma al suo pensiero, proprio come un sigillo si imprime nella cera dandole nuova forma: «la mente mi sigilla [...] l’evangelica dottrina» (143-44). Insomma, giunto a questo punto della vita e del poema, pur non derogando in nulla al percorso finora compiuto, Dante sembra cercare solo ciò che è essenziale. Per questo, glorificando la fede, proclama il suo affidamento alla Parola di Dio più che alla parola dell’uomo.
D’altra parte già nei versi finali di Par., IX aveva polemizzato contro la Chiesa del suo tempo che, come denunciava apertamente, aveva abbandonato la Sacra Scrittura per rivolgersi alle scritture umane: in quel caso non le dottrine filosofiche, ma i testi del diritto canonico, le decretali, così da far prevalere uno spirito giuridico ed economico rispetto all’autentico spirito evangelico:
«Per questo l'Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a’ lor vivagni» (Par. IX 133-35),
i “vivagni”, cioè i margini dei codici, densi di postille e consunti dall’uso. È questa una preoccupazione urgente nell’animo di Dante. Egli infatti vede la possibilità concreta che la fede si smarrisca o si corrompa, conformandosi alla mentalità di questo mondo e allontanandosi dalla Parola di Dio. Per questo nel nostro canto, rivolgendosi a Pietro, ricorda in che modo l’apostolo si fece annunciatore della fede e come «la buona pianta» da lui seminata, la vite secondo l’immagine biblica, si sia poi inselvatichita:
«[...] tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno» (109-11).
Si capisce allora, giunti alla fine del canto, l’importanza della metafora iniziale, in cui Beatrice si rivolge ai beati pregandoli di irrorare Dante con qualche goccia di quell’acqua della quale loro sempre gustano e che sazia ogni desiderio di amore e di verità. La metafora del cibo che sazia e dell’acqua che disseta è di origine biblica ed è assai cara a Dante, che vi fa ricorso più volte (vd. già in Conv. I 1 10), ma soprattutto in questo caso si avverte l’eco dell’episodio della Samaritana narrato nel vangelo di Giovanni: la storia cioè di una donna assetata di verità e capace di compiere un percorso di fede a partire non da ragionamenti umani, ma dall’incontro e dalla relazione con Gesù e con la sua parola (Gv 4 1-39; vd. anche Purg. XXI 1-6). Che in filigrana si debba riconoscere proprio la presenza di questo episodio evangelico lo suggerisce l’Ottimo commento, un antico commento alla Commedia composto intorno al 1334 da un anonimo fiorentino che ebbe la fortuna di conoscere e di parlare con Dante. Ora, sul modello del racconto della Samaritana, nell’apostrofe iniziale di Beatrice Dante è definito in virtù dell’«affezione immensa» che lo caratterizza: è il desiderio smisurato, la sete inestinguibile, che si sazierà soltanto nell’ultimo canto del poema e che, nel corso della vita, alimenta la fede con affidamento tenace e intelligente: non tanto alla parola degli uomini, ma alla parola della Scrittura, centrale in questo canto e sempre evocata in relazione all’immagine sovrabbondante, salvifica e rigenerante dell’acqua (XXIV 91-93, 135-38).
Concludo. Sappiamo che la fede avrà termine, come dice l’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinzi, quando vedremo Dio «faccia a faccia» (1Cor 13 12). È questa la fede della Chiesa ed è questa l’esperienza fatta da Dante, poeta e pellegrino dei regni ultraterreni. Giunto alla fine del suo viaggio Dante, per grazia singolare, potrà contemplare la luce di Dio: lì non solo godrà della visione del mistero trinitario, nel nostro canto professato per fede (Par. XXIV 139-41, XXXIII 116-20), ma fisserà gli occhi nel volto storico di Gesù di Nazareth (XXXIII 130-32), di cui ha già richiamato la somiglianza con i lineamenti del volto di Maria (XXXII 85-87); così penetrerà nel mistero insondabile dell’Incarnazione. Si tratta del punto cruciale, il più solenne e affettivo, necessariamente finale, dell’incontro di Dante con Dio. Solo alla fine del poema e della vita questa visione è possibile: la vista di Dante si è fatta più «sincera», più capace di penetrare nel mistero della «luce etterna». È proprio a questo punto, nel momento in cui il poeta riconosce l’insuperabilità del limite di fronte alla visione, che una luce abbagliante, un «fulgore» della grazia divina percuote la mente del poeta e, in un istante fulmineo, svela il mistero dell’Incarnazione. La Commedia si chiude così nel nome di Dio, ma con ripresa intenzionale troviamo nell’ultima terzina del poema le parole pregnanti del Credo ora professato per fede:
«Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con desio» (XXIV 130-32).
Ecco, quasi a ricordarci quale sia stata la sua professione di fede e quale sia la fede cristiana, nell’ultima terzina del poema Dante nuovamente ricorre ai medesimi termini, move, amore, disio:
«ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle» (XXXIII 143-45).
È il sigillo, la garanzia che il poeta può darci, che Dio non delude: al termine della vita, al termine del poema, anche la fede di Dante ha trovato la sua pace e il suo compimento nella contemplazione di Dio.
Che cos’è la fede (52-53), a cui Dante risponde con una citazione letterale dall’Epistola agli Ebrei (53-66);
Quale sia l’interpretazione che Dante dà alle parole dell’Epistola da lui appena pronunciate, che, come notava Tommaso d’Aquino (Summa theologiae, II-IIae q. IV a. 1), costituiscono più una descrizione che una definizione della fede (66-69; risposta ai vv. 70-82);
Se Dante abbia fede (83-85; risposta ai vv. 86-87);
Da dove gli derivi (89-91; risposta ai vv. 91-96);
Quale sia la prova dell’ispirazione divina della Scrittura, su cui Dante basa la propria fede (97-99 e 103-05; risposta ai vv. 100-02 e 106-11).
Terminate le domande, Pietro invita Dante a esprimere ciò che concretamente egli crede e a dichiarare da dove abbia attinto ciò che crede (115-23 + risposta 124-47). Il canto si chiude con l’immagine gioiosa di san Pietro che, per manifestare la sua piena approvazione nei confronti di Dante, per tre volte gira intorno al poeta cantando la sua benedizione (148-54).
Nell’estrema densità concettuale del canto vorrei evidenziare due peculiarità che, raffrontate con altri luoghi del Paradiso, possono aiutarci a comprendere alcuni aspetti della fede di Dante.
La prima. Chiedendo al poeta se egli abbia fede, Pietro ricorre alla metafora di una moneta preziosa (83-85):
«[...] “Assai bene è trascorsa
d’esta moneta già la lega e il peso;
ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa».
Dante, continuando nell’uso della stessa immagine, risponde con queste parole:
«[...] “Sì ho, sì lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla mi s’inforsa”» (86-87).
Attraverso la metafora della moneta preziosa e perfetta, Dante afferma di non avere nessun dubbio sulla fede cristiana, e anzi inventa un neologismo, il verbo inforsarsi, che indica precisamente come sia una fede che non conosce forse, non conosce incertezze. Si tratta di una di quelle affermazioni di straordinaria forza ed energia che tanto hanno contribuito a creare quell’immagine granitica tipica di Dante, che, a distanza di secoli, sembra non lasciare sfumature a una eccezionale e cristallina fermezza.
Tuttavia per comprendere nel profondo questa affermazione, così perentoria nei toni, è giocoforza osservare come il Paradiso sia la cantica dei dubbi di Dante, il cui ardore del desiderio dice fortemente la tensione dubitativa e gnoseologica. Non si tratta solamente di osservare un fatto quantitativo, cioè che i verbi dubbiare e dubitare e il sostantivo dubbio punteggiano con maggiore frequenza la terza cantica rispetto alle due precedenti; si tratta piuttosto di osservare come il dubbio assuma in Dante la funzione di elemento positivo e dinamico, facendosi desiderio che stimola la conoscenza del vero, tensione inesauribile alla ricerca di una fede matura. È Dante stesso, che già ne aveva parlato nel Convivio (IV XII 13-17 e XIII 1-4), a descrivere tale procedimento nel canto IV del Paradiso, in cui spiega come il desiderio di una verità ulteriore, nato dal dubbio, come questo a sua volta da una verità in precedenza conquistata, potrà trovare il suo definitivo compimento solo in Dio (IV 124-35). È per questo che il poeta, prima di giungere alla professione di fede, nel canto XIX ha avuto l’ardire di interrogare gli spiriti del cielo di Giove circa la giustizia imperscrutabile di Dio, che il poeta afferma di credere per fede, e che proprio per questo lo porta a muovere la domanda radicale sul destino delle anime degli uomini giusti che tuttavia non professarono la fede cristiana:
«[...] “Un uom nasce a la riva
de l'Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”» (XIX 70-78).
Per Dante insomma la certezza della fede e il dubbio della ricerca non sono affatto antitetici; anzi, lungo i canti del poema, il dubbio e il desiderio di verità sono stati la manifestazione più autentica di una fede che si è fatta domanda su Dio e sul rapporto tra Dio e uomo, nella fiducia, incrollabile e senza forse, che questa tensione, questo sforzo razionale e affettivo insieme, che muove l’intelligenza e la volontà, possa trovare il suo compimento nella contemplazione della verità di Dio. È questa la certezza senza dubbi di Dante: è la fede incrollabile che le domande ultime ed estreme sul senso dell’esistere e del mondo trovino risposta in Dio, un Dio d’amore e di relazione:
«e credo in tre persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’» (XXIV 139-41).
Così la poesia di Dante, che lungo i sentieri enigmatici della storia si alimenta della dialettica tra il dubbio della domanda e un affidamento che non conosce incertezze, parla ancora al cuore dell’uomo. L’uomo cerca il senso della vita. La fede dà questo senso, ma non elimina la ricerca, che anzi fa parte della nostra più autentica condizione umana. Per questo la fede è un dono e una conquista, una moneta preziosa – come ha detto il poeta – che si può perdere e sempre riguadagnare. La fede di Dante è intensa proprio perché si cimenta e si lascia sollecitare dal rovello e dalla domanda, che, oltre la professione di questo canto, potrà trovare appagamento solo nella visione finale di Dio, termine della fede e approdo inesauribile di ogni dubbio e desiderio umano; dirà infatti nell’ultimo canto (XXXIII 46-48):
«E io ch'al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii»
Che Dante voglia sottolineare proprio questo rapporto, che caratterizza ogni uomo in ricerca, emerge anche dalle parole con cui Beatrice si rivolge a san Pietro per invitarlo a interrogare approfonditamente il poeta (XXIV 37-39):
«tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi».
Le parole di Beatrice rivolte al «gran viro», la grande anima beata del Paradiso, con un brusco mutamento di prospettiva nell’ultimo verso della terzina richiamano un episodio preciso della vita terrena di Pietro: quando l’Apostolo, come narra il vangelo di Matteo, camminò sulle acque. Si tratta tuttavia di un episodio che mentre testimonia la fede di Pietro, nello stesso tempo rievoca anche il dramma da lui sperimentato nella sua concreta storicità terrena quando, impaurito, cominciò a sprofondare nell’acqua: «“Signore salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”» (Mt 14 28-31). Quel Pietro, dubitoso e insieme appassionato, desideroso di andare verso il suo Signore, è lo stesso «gran viro» - dice Dante - che ora lo accoglie nell’ottavo cielo perché il poeta possa glorificare la sua fede cristiana. Questo rapporto inscindibile tra la fede del Pietro storico, segnato da dubbi e contraddizioni, e la fede dello spirito beato che ora interroga il poeta non è stato colto dai moderni esegeti; al contrario esso fu ben chiaro ai primi lettori del poema. Pietro Alighieri infatti, il figlio di Dante, intorno al 1340 commentava questi versi richiamando l’autorità del vescovo Ambrogio, che in una sua omelia così aveva detto di Pietro: «Pietro divenne più fedele dopo che pianse per aver perso la fede; e dunque trovò una grazia maggiore di quella che aveva perduto» («Post negationem in fide et gradu Petrus profecit. Item Ambrosius in omelia L: “Fidelior factus est Petrus, postquam fidem se perdidisse deflevit; atque ideo maiorem gratiam reperit quam amisit”»; oggi sappiamo che il testo citato da Pietro Alighieri attraverso la mediazione del Decretum Gratiani, dist. 50, pars 1, c. 54, non deriva da un’opera di Ambrogio, ma dai Sermones di Massimo vescovo di Torino).
La seconda peculiarità che vorrei evidenziare riguardo la fede di Dante prende le mosse dalla risposta alla quarta domanda dell’Apostolo, che chiede al poeta da dove gli derivi la fede (XXIV 89-91). Dante infatti confessa che la fede non sorge dagli argomenti umani, ma dalla «larga ploia», una pioggia abbondante, che lo Spirito ha diffuso nelle «vecchie» e «nuove cuoia», cioè nelle pergamene dell’Antico e del Nuovo Testamento (XXIV 91-96). È a partire da questi versi che la Sacra Scrittura diviene protagonista indiscussa dell’ultima parte del canto, legandosi inscindibilmente alla fede di Dante. Rispetto all’acutezza della Parola di Dio, ogni speculazione umana - dice il poeta - si rivela debole, inefficace: «ogne dimostrazion mi pare ottusa» (96).
Si tratta di una affermazione importante. Dante sembra prendere le distanze, non senza una punta polemica, rispetto a una certa filosofia - quella di Averroé, di Giovanni di Jandun e di alcuni maestri parigini - che presume di poter conoscere perfettamente l’oggetto della fede, così da rendere l’uomo beato: il fondamento della fede non è nelle dimostrazioni sillogistiche delle argomentazioni filosofiche, non è nell’«ingegno di sofista» (81) né soltanto nelle «prove fisice e metafisice» (133-34), ma è nella parola della Scrittura e dunque nella lectio biblica. Per questo Dante chiuderà la sua professione di fede affermando che è la Sacra Scrittura, e il Vangelo in particolare, a dare forma al suo pensiero, proprio come un sigillo si imprime nella cera dandole nuova forma: «la mente mi sigilla [...] l’evangelica dottrina» (143-44). Insomma, giunto a questo punto della vita e del poema, pur non derogando in nulla al percorso finora compiuto, Dante sembra cercare solo ciò che è essenziale. Per questo, glorificando la fede, proclama il suo affidamento alla Parola di Dio più che alla parola dell’uomo.
D’altra parte già nei versi finali di Par., IX aveva polemizzato contro la Chiesa del suo tempo che, come denunciava apertamente, aveva abbandonato la Sacra Scrittura per rivolgersi alle scritture umane: in quel caso non le dottrine filosofiche, ma i testi del diritto canonico, le decretali, così da far prevalere uno spirito giuridico ed economico rispetto all’autentico spirito evangelico:
«Per questo l'Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a’ lor vivagni» (Par. IX 133-35),
i “vivagni”, cioè i margini dei codici, densi di postille e consunti dall’uso. È questa una preoccupazione urgente nell’animo di Dante. Egli infatti vede la possibilità concreta che la fede si smarrisca o si corrompa, conformandosi alla mentalità di questo mondo e allontanandosi dalla Parola di Dio. Per questo nel nostro canto, rivolgendosi a Pietro, ricorda in che modo l’apostolo si fece annunciatore della fede e come «la buona pianta» da lui seminata, la vite secondo l’immagine biblica, si sia poi inselvatichita:
«[...] tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno» (109-11).
Si capisce allora, giunti alla fine del canto, l’importanza della metafora iniziale, in cui Beatrice si rivolge ai beati pregandoli di irrorare Dante con qualche goccia di quell’acqua della quale loro sempre gustano e che sazia ogni desiderio di amore e di verità. La metafora del cibo che sazia e dell’acqua che disseta è di origine biblica ed è assai cara a Dante, che vi fa ricorso più volte (vd. già in Conv. I 1 10), ma soprattutto in questo caso si avverte l’eco dell’episodio della Samaritana narrato nel vangelo di Giovanni: la storia cioè di una donna assetata di verità e capace di compiere un percorso di fede a partire non da ragionamenti umani, ma dall’incontro e dalla relazione con Gesù e con la sua parola (Gv 4 1-39; vd. anche Purg. XXI 1-6). Che in filigrana si debba riconoscere proprio la presenza di questo episodio evangelico lo suggerisce l’Ottimo commento, un antico commento alla Commedia composto intorno al 1334 da un anonimo fiorentino che ebbe la fortuna di conoscere e di parlare con Dante. Ora, sul modello del racconto della Samaritana, nell’apostrofe iniziale di Beatrice Dante è definito in virtù dell’«affezione immensa» che lo caratterizza: è il desiderio smisurato, la sete inestinguibile, che si sazierà soltanto nell’ultimo canto del poema e che, nel corso della vita, alimenta la fede con affidamento tenace e intelligente: non tanto alla parola degli uomini, ma alla parola della Scrittura, centrale in questo canto e sempre evocata in relazione all’immagine sovrabbondante, salvifica e rigenerante dell’acqua (XXIV 91-93, 135-38).
Concludo. Sappiamo che la fede avrà termine, come dice l’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinzi, quando vedremo Dio «faccia a faccia» (1Cor 13 12). È questa la fede della Chiesa ed è questa l’esperienza fatta da Dante, poeta e pellegrino dei regni ultraterreni. Giunto alla fine del suo viaggio Dante, per grazia singolare, potrà contemplare la luce di Dio: lì non solo godrà della visione del mistero trinitario, nel nostro canto professato per fede (Par. XXIV 139-41, XXXIII 116-20), ma fisserà gli occhi nel volto storico di Gesù di Nazareth (XXXIII 130-32), di cui ha già richiamato la somiglianza con i lineamenti del volto di Maria (XXXII 85-87); così penetrerà nel mistero insondabile dell’Incarnazione. Si tratta del punto cruciale, il più solenne e affettivo, necessariamente finale, dell’incontro di Dante con Dio. Solo alla fine del poema e della vita questa visione è possibile: la vista di Dante si è fatta più «sincera», più capace di penetrare nel mistero della «luce etterna». È proprio a questo punto, nel momento in cui il poeta riconosce l’insuperabilità del limite di fronte alla visione, che una luce abbagliante, un «fulgore» della grazia divina percuote la mente del poeta e, in un istante fulmineo, svela il mistero dell’Incarnazione. La Commedia si chiude così nel nome di Dio, ma con ripresa intenzionale troviamo nell’ultima terzina del poema le parole pregnanti del Credo ora professato per fede:
«Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto ’l ciel move,
non moto, con amore e con desio» (XXIV 130-32).
Ecco, quasi a ricordarci quale sia stata la sua professione di fede e quale sia la fede cristiana, nell’ultima terzina del poema Dante nuovamente ricorre ai medesimi termini, move, amore, disio:
«ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle» (XXXIII 143-45).
È il sigillo, la garanzia che il poeta può darci, che Dio non delude: al termine della vita, al termine del poema, anche la fede di Dante ha trovato la sua pace e il suo compimento nella contemplazione di Dio.
Fonte: pagina di www.cultura.va
Registrazione dell'intervento del Cardinale Ravasi alla pagina di gloria.tv
* Gianfranco RAVASI è nato a Merate (Lecco) il 18 ottobre 1942. Ordinato presbitero per l'arcidiocesi di Milano il 28 giugno 1966, teologo, biblista, archeologo, è stato docente presso il Seminario arcivescovile di Milano e la Facoltà Teologica dell'Italia settentrionale e membro della Pontificia commissione biblica. Si è occupato occupato anche di "divulgazione biblica": ha tenuto cicli di incontri di lectio divina presso il Centro Studi San Fedele di Milano (1980-2002), ha condotto sull'emittente televisava Canale 5 il programma Le frontiere dello spirito (1988-2017), ha cura la lettura integrale della Bibbia su Rai Radio 2 (1994-1998).
Prefetto della Biblioteca Ambrosiana dal 1989, il 3 settembre 2007 papa Benedetto XVI lo ha nominato Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura divenendo nel contempo Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Contestualmente è eletto alla sede arcivescovile titolare di Villamagna di Proconsolare, ricevendo la consacrazione episcopale il 29 settembre 2007 per il ministero dello stesso Benedetto XVI che il 20 novembre 2010 lo creerà cardinale assegnandogli la diaconia di San Giorgio in Velabro. Il 29 marzo 2014 è confermato alla guida del Pontificio Consiglio della Cultura da papa Francesco.
Registrazione dell'intervento del Cardinale Ravasi alla pagina di gloria.tv
Prefetto della Biblioteca Ambrosiana dal 1989, il 3 settembre 2007 papa Benedetto XVI lo ha nominato Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura divenendo nel contempo Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Contestualmente è eletto alla sede arcivescovile titolare di Villamagna di Proconsolare, ricevendo la consacrazione episcopale il 29 settembre 2007 per il ministero dello stesso Benedetto XVI che il 20 novembre 2010 lo creerà cardinale assegnandogli la diaconia di San Giorgio in Velabro. Il 29 marzo 2014 è confermato alla guida del Pontificio Consiglio della Cultura da papa Francesco.
** Luca AZZETTA è nato a Milano nel 1968. Laureato in Lettere nel 1992 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica di Milano, nel giugno 1997 ha conseguito il Dottorato di ricerca in Italianistica (Letteratura umanistica) presso la medesima Università e nell'aprile 2011 quello in Teoria e analisi del testo presso l'Università degli Studi di Bergamo. È membro del Consiglio Direttivo del Centro Pio Rajna per la ricerca linguistica, filologica e letteraria, del Consiglio Direttivo del Centro Scaligero di Studi Danteschi e Condirettore del periodico «Rivista di Studi Danteschi».
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