«Incontrare Dante. Riflessioni a margine di un commento alla Divina Commedia» di Giacomo Biffi (Bologna-Istituto "Veritatis Splendor", 16 gennaio 2004)

Ho incontrato Dante nella prima adolescenza e posso dire che egli non sia mai uscito dal mio orizzonte interiore. Appena da un paio d'anni, però, ho preso l'abitudine di una sua lettura quotidiana, fosse anche soltanto di qualche decina di versi. [...] Più la conosco, più la Divina Commedia mi appare come un prodigio; un prodigio che, nella molteplicità delle sue meraviglie e nella varietà dei suoi valori, non trova riscontri plausibili.
 
Già è un prodigio che la sua lingua - riforgiata certo da un'eccezionale forza creativa perché potesse reggere al peso di un messaggio tanto sublime e fosse in grado di comunicarne l'incanto e la verità - abbia però mantenuto la freschezza della sua origine popolare. Ma è ancora più prodigioso che essa sia dopo sette secoli sostanzialmente identica e identicamente viva. È, mi pare, un caso unico nelle vicende glottologiche delle nazioni europee.

Mi limito a poche esemplificazioni.
"Il buon Sordello in terra fregò il dito" (Purg. VII,52). Un alunno di quinta elementare di oggi non userebbe, nell'occasione, parole diverse.
"La bocca mi baciò tutto tremante" (Inf. V,136). Sembra una frase presa da una canzone di San Remo.
E quando così si descrive il papa Martino IV che sta scontando le sue ghiottonerie "e purga col digiuno / le anguille di Bolsena e la vernaccia" (Purg. XXIV, 23-24), non ci si discosta troppo dallo stile diretto e circostanziato richiesto da un buon articolo di colore dei nostri giornali.

Mi colpisce anche la straordinaria intelligenza teologica dell'Alighieri, che con piglio sicuro sa addentrarsi senza smarrirsi nella problematica più alta e sottile della dottrina rivelata. Per qualche aspetto, anzi, egli offre una prospettiva migliore di quella più diffusa nei testi scolastici e nella predicazione non solo ai suoi tempi ma anche nei secoli successivi.

A questo riguardo un esempio singolare e significativo è quello della sua visione del purgatorio, che egli coglie nel suo giusto clima al tempo stesso di desiderio pungente e di attesa serena; clima proprio delle anime che attendono "a farsi belle" (Purg. II,75) per affrettare l'incontro disvelato con colui che "del disìo di sé veder n'accora" (Purg. V,57).

È appunto così: la condizione di chi si sta purificando oltre la morte ripete, prosegue e sublima quella di chi in terra coltiva la vita di grazia, soccorrendo e animando nella speranza il suo arduo impegno ascetico e sopportando pacatamente la sofferenza di non essere ancora in tutto luminoso come il Signore gli chiede e come lui stesso vorrebbe.

Il purgatorio, come si vede, non è una specie di "inferno a termine", quale spesso si è data l'impressione che fosse; è piuttosto il proseguimento e il completamento doveroso dell'attività decontaminatrice e psicologicamente restauratrice, che è una componente immancabile della più coerente esistenza ecclesiale. Dante l'ha genialmente intuito e su questa intuizione ha dipanato il racconto della sua seconda cantica.

Possiamo dire che oggi la "sacra doctrina" sia generalmente d'accordo con lui.

Infine e soprattutto, ravvisiamo in Dante Alighieri il perfetto inveramento del connubio tra fede e libertà, che dovrebbe essere la prerogativa intrinseca di ogni autentico discepolo di Cristo. Proprio la sua piena e indubitabile adesione allo splendore della verità cattolica gli consente un'invidiabile autonomia di giudizio, di là da ogni sudditanza e da ogni condizionamento umano.

Egli non esita pertanto a criticare l'operato dei papi e le loro scelte operative, fino a collocarne diversi nel profondo dell'inferno. Ma in lui non viene mai meno né mai minimamente si attenua "la reverenza delle somme chiavi" (Inf. XIX, 101).

Quando si tratta di esprimere riserve o biasimi che egli ritiene dovuti, non ci sono sconti per nessuno: né per i laici né per gli ecclesiastici, né per i monarchi né per i semplici cittadini. Sono per lui tutti membri della "respublica christiana" e dunque obbligati tutti, senza eccezioni, ad attenersi integralmente alla legge evangelica, quale che sia la loro dignità sociale e la loro autorevolezza.

Irride - ahimè! - persino ai cardinali, che indossano cappe così ampie da coprire anche la loro cavalcatura: "Copron d'i manti loro i palafreni, / sì che due bestie van sott'una pelle" (Par. XXI,133-134).

Ma non dice mai una sola parola che possa far attribuire qualcosa di peccaminoso o disonorevole alla Chiesa del Signore Gesù: agli occhi della sua fede intemerata ella è sempre "la bella Sposa / che s'acquistò con la lancia e coi clavi" (Par. XXI,133-134).

Della Chiesa egli parla costantemente con intelletto d'amore; e senza sforzo percepisce, quasi per connaturalità, l'affetto sponsale che rende preziosa ogni sua azione e ogni sua lode. Così si spiega - proprio per la limpidità della sua conoscenza soprannaturale - la seduzione di versi come quelli che ci descrivono la liturgia mattutina: "Nell'ora che la Sposa di Dio surge / a mattinar lo Sposo perché l'ami" (Par. X,140-141).

Oseremmo dire, concludendo, che Dante giganteggia nella storia spirituale dell'umanità come la più convincente personificazione di quel caposaldo dell'antropologia cristiana che sant'Ambrogio ha icasticamente enunciato in una sua lettera con la frase: "Dove c'è la fede, lì c'è la libertà" (Ep. 65,5). "Ubi fides ibi libertas", bellissimo aforisma sintetico che, come è noto, l'antico vescovo di Milano ha copiato dal mio stemma episcopale.


GIACOMO BIFFI è nato a Milano il 13 giugno 1928. Ordinato presbitero per l'archidiocesi ambrosiana il 23 dicembre 1950 è stato insegnate di teologia e parroco a Legnano e quindi nello stesso capoluogo lombardo. Il 7 dicembre 1975 papa Paolo VI lo nomino ausiliare dell'Arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Colombo, assegnandogli la sede vescovile titolare di Fidene. Ricevette la consacrazione episcopale l'11 febbraio 1976. Promosso alla sede arcivescovile di Bologna vi fece ingresso il 2 giugno 1984. Papa Giovanni Paolo II nel concistoro del 25 maggio 1985 lo creò cardinale del titolo dei Santi Giovanni Evangelista e Petronio.  Il 16 dicembre 2003 vengono accettate le sue dimissioni dal governo pastorale della chiesa felsinea. Muore a Bologna l'11 luglio 2015.

Fonte dell'articolo: pagina di  chiesa.espresso.repubblica.it

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