Spesso Paolo VI si faceva leggere dal segretario particolare, monsignor Pasquale Macchi, un canto della Divina Commedia o un capitolo dei Promessi sposi.
A ricordare tale significativa tradizione è stato il cardinale Paul Poupard, presidente emerito del Pontificio consiglio della cultura e del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, durante l’incontro tenutosi martedì 17 marzo, presso il cenacolo francescano di Santa Croce, a Firenze, in occasione del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri e del cinquantesimo della Lettera Apostolica motuproprio di Paolo VI, Altissimi cantus. Non a caso questa Lettera Apostolica era stata preceduta da due missive, una all’arcivescovo di Ravenna e l’altra all’arcivescovo di Firenze, ed era stata seguita dal suo indirizzo di saluto rivolto, nell’udienza del 21 gennaio 1966, ai dirigenti e ai soci della «Società Dante Alighieri» convenuti a Roma.
Come il suo predecessore, Benedetto XV, Paolo VI — ha ricordato il porporato — riteneva che l’opera di Dante deve la sua bellezza sia ai molteplici splendori della verità rivelata, sia a tutte le risorse dell’arte. Paolo VI, che aveva istituito una cattedra di studi danteschi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sottolineava che Dante era «ecumenico», un poeta appartenente a tutte le genti, universale. Infatti nella sua grandezza «abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta dalla Rivelazione divina e quella attinta dal lume della ragione». Nello stesso tempo Paolo VI metteva in evidenza come il fine della Divina Commedia fosse «primariamente pratico e trasformante», essendo l’obiettivo quello di portare l’uomo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità.
Paolo VI celebra quindi Dante come poeta dei teologi e teologo dei poeti, «signore dell’altissimo canto», poiché teologo dalla mente sublime, vero mistagogo nel santuario dell’arte. E a testimonianza della sua passione per il poeta, Paolo VI volle donare a tutti i vescovi che parteciparono al concilio Vaticano II un’edizione speciale della Divina Commedia.
Dal canto suo Benedetto XV, nel rendere omaggio alla figura di Dante, così scriveva nell’enciclica In praeclara summorum copia hominum (1921): «Chi potrà negare che, a quell’epoca, non vi siano state, tra il clero, cose da riprovare, capaci di disgustare profondamente un’anima devota alla Chiesa come quella di Dante?». Nell’enciclica il Papa sottolinea come l’esempio di Dante testimoni quanto i valori religiosi contribuiscano a promuovere il genio umano e come, di conseguenza, la loro assenza nel processo formativo dei giovani danneggi il progresso degli studi e della civiltà. Benedetto XV auspica dunque che Dante sia assunto a maestro di dottrina cristiana per gli studenti sia nell’arte che nella virtù. E in un altro passo dell’enciclica rimarca il fatto che la più bella lode che si possa tributare a Dante è di essere stato «un poeta cristiano», cioè di «aver trovato accenti quasi divini per cantare le istituzioni cristiane di cui egli contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore». Nel definire la Commedia «il quinto Vangelo», Benedetto XV dichiara quindi che Dante è «il più eloquente tra quanti hanno cantato e proclamato la sapienza cristiana».
A ricordare tale significativa tradizione è stato il cardinale Paul Poupard, presidente emerito del Pontificio consiglio della cultura e del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, durante l’incontro tenutosi martedì 17 marzo, presso il cenacolo francescano di Santa Croce, a Firenze, in occasione del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri e del cinquantesimo della Lettera Apostolica motuproprio di Paolo VI, Altissimi cantus. Non a caso questa Lettera Apostolica era stata preceduta da due missive, una all’arcivescovo di Ravenna e l’altra all’arcivescovo di Firenze, ed era stata seguita dal suo indirizzo di saluto rivolto, nell’udienza del 21 gennaio 1966, ai dirigenti e ai soci della «Società Dante Alighieri» convenuti a Roma.
Come il suo predecessore, Benedetto XV, Paolo VI — ha ricordato il porporato — riteneva che l’opera di Dante deve la sua bellezza sia ai molteplici splendori della verità rivelata, sia a tutte le risorse dell’arte. Paolo VI, che aveva istituito una cattedra di studi danteschi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sottolineava che Dante era «ecumenico», un poeta appartenente a tutte le genti, universale. Infatti nella sua grandezza «abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta dalla Rivelazione divina e quella attinta dal lume della ragione». Nello stesso tempo Paolo VI metteva in evidenza come il fine della Divina Commedia fosse «primariamente pratico e trasformante», essendo l’obiettivo quello di portare l’uomo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità.
Paolo VI celebra quindi Dante come poeta dei teologi e teologo dei poeti, «signore dell’altissimo canto», poiché teologo dalla mente sublime, vero mistagogo nel santuario dell’arte. E a testimonianza della sua passione per il poeta, Paolo VI volle donare a tutti i vescovi che parteciparono al concilio Vaticano II un’edizione speciale della Divina Commedia.
Dal canto suo Benedetto XV, nel rendere omaggio alla figura di Dante, così scriveva nell’enciclica In praeclara summorum copia hominum (1921): «Chi potrà negare che, a quell’epoca, non vi siano state, tra il clero, cose da riprovare, capaci di disgustare profondamente un’anima devota alla Chiesa come quella di Dante?». Nell’enciclica il Papa sottolinea come l’esempio di Dante testimoni quanto i valori religiosi contribuiscano a promuovere il genio umano e come, di conseguenza, la loro assenza nel processo formativo dei giovani danneggi il progresso degli studi e della civiltà. Benedetto XV auspica dunque che Dante sia assunto a maestro di dottrina cristiana per gli studenti sia nell’arte che nella virtù. E in un altro passo dell’enciclica rimarca il fatto che la più bella lode che si possa tributare a Dante è di essere stato «un poeta cristiano», cioè di «aver trovato accenti quasi divini per cantare le istituzioni cristiane di cui egli contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore». Nel definire la Commedia «il quinto Vangelo», Benedetto XV dichiara quindi che Dante è «il più eloquente tra quanti hanno cantato e proclamato la sapienza cristiana».
Gabriele Nicolò, "L'Osservatore romano", 17 marzo 2015
Fonte: pagina di www.osservatoreromano.va
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