giovedì 25 marzo 2021

Candor Lucis aeternae. Lettera apostolica di Papa Francesco nel VII centenario della morte di Dante Alighieri (25 marzo 2021)


Splendore della Luce eterna, il Verbo di Dio prese carne dalla Vergine Maria quando Ella rispose “eccomi” all’annuncio dell’Angelo (cfr Lc 1,38). Il giorno in cui la Liturgia celebra questo ineffabile Mistero è anche particolarmente significativo per la vicenda storica e letteraria del sommo poeta Dante Alighieri, profeta di speranza e testimone della sete di infinito insita nel cuore dell’uomo. In questa ricorrenza, pertanto, desidero unirmi anch’io al numeroso coro di quanti vogliono onorare la sua memoria nel VII Centenario della morte.

Il 25 marzo, infatti, a Firenze iniziava l’anno secondo il computo ab Incarnatione. Tale data, vicina all’equinozio di primavera e nella prospettiva pasquale, era associata sia alla creazione del mondo sia alla redenzione operata da Cristo sulla croce, inizio della nuova creazione. Essa, pertanto, nella luce del Verbo incarnato, invita a contemplare il disegno d’amore che è il cuore stesso e la fonte ispiratrice dell’opera più celebre del Poeta, la Divina Commedia, nella cui ultima cantica l’evento dell’Incarnazione viene ricordato da San Bernardo con questi celebri versi: «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore» (Par. XXXIII, 7-9).*

Già nel Purgatorio Dante rappresentava, scolpita su una balza rocciosa, la scena dell’Annunciazione (X, 34-37.40-45).

Non può dunque mancare, in questa circostanza, la voce della Chiesa che si associa all’unanime commemorazione dell’uomo e del poeta Dante Alighieri. Molto meglio di tanti altri, egli ha saputo esprimere, con la bellezza della poesia, la profondità del mistero di Dio e dell’amore. Il suo poema, altissima espressione del genio umano, è frutto di un’ispirazione nuova e profonda, di cui il Poeta è consapevole quando ne parla come del «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2).

Con questa Lettera Apostolica desidero unire la mia voce a quelle dei miei Predecessori che hanno onorato e celebrato il Poeta, particolarmente in occasione degli anniversari della nascita o della morte, così da proporlo nuovamente all’attenzione della Chiesa, all’universalità dei fedeli, agli studiosi di letteratura, ai teologi, agli artisti. Ricorderò brevemente questi interventi, focalizzando l’attenzione sui Pontefici dell’ultimo secolo e sui loro documenti di maggior rilievo.


1. Le parole dei Pontefici Romani dell’ultimo secolo su Dante Alighieri

Un secolo fa, nel 1921, in occasione del VI Centenario della morte del Poeta, Benedetto XV, raccogliendo gli spunti emersi nei precedenti Pontificati, particolarmente di Leone XIII e San Pio X, commemorava l’anniversario dantesco sia con una Lettera Enciclica,[1] sia promuovendo lavori di restauro alla chiesa ravennate di San Pietro Maggiore, popolarmente chiamata di San Francesco, dove furono celebrate le esequie dell’Alighieri e nella cui area cimiteriale egli fu sepolto. Il Papa, apprezzando le tante iniziative volte a solennizzare la ricorrenza, rivendicava il diritto della Chiesa, «che gli fu madre», di essere protagonista in tali commemorazioni, onorando il «suo» Dante.[2] Già nella Lettera all’Arcivescovo di Ravenna, Mons. Pasquale Morganti, con la quale approvava il programma delle celebrazioni centenarie, Benedetto XV motivava così la sua adesione: «Inoltre (e ciò è più importante) si aggiunge una certa particolare ragione per cui riteniamo che sia da celebrare il suo solenne anniversario con memore riconoscenza e con grande concorso di popolo, per il fatto che l’Alighieri è nostro. […] Infatti, chi potrà negare che il nostro Dante abbia alimentato e rafforzato la fiamma dell’ingegno e la virtù poetica traendo ispirazione dalla fede cattolica, a tal segno che cantò in un poema quasi divino i sublimi misteri della religione?».[3]

In un momento storico segnato da sentimenti di ostilità alla Chiesa, il Pontefice ribadiva, nell’Enciclica citata, l’appartenenza del Poeta alla Chiesa, «l’intima unione di Dante con questa Cattedra di Pietro»; anzi, affermava che la sua opera, pur essendo espressione della «prodigiosa vastità e acutezza del suo ingegno», traeva «poderoso slancio d’ispirazione» proprio dalla fede cristiana. Per questo, proseguiva Benedetto XV, «in lui non va soltanto ammirata l’altezza somma dell’ingegno, ma anche la vastità dell’argomento che la religione divina offerse al suo canto». E ne tesseva l’elogio, rispondendo indirettamente a quanti negavano o criticavano la matrice religiosa della sua opera: «Spira nell’Alighieri la stessa pietà che è in noi; la sua fede ha gli stessi sentimenti. […] Questo è il suo elogio principale: di essere un poeta cristiano e di aver cantato con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore». L’opera di Dante – proseguiva il Pontefice – è un eloquente e valido esempio per «dimostrare quanto sia falso che l’ossequio della mente e del cuore a Dio tarpi le ali dell’ingegno, mentre lo sprona e lo innalza». Per questo, sosteneva ancora il Papa, «gli insegnamenti lasciatici da Dante in tutte le sue opere, ma specialmente nel suo triplice carme» possono servire «quale validissima guida per gli uomini del nostro tempo» e particolarmente per studenti e studiosi, poiché «egli, componendo il suo poema, non ebbe altro scopo che sollevare i mortali dallo stato di miseria, cioè dal peccato, e di condurli allo stato di beatitudine, cioè della grazia divina».

Al VII Centenario della nascita, nel 1965, si collegano, invece, i diversi interventi di San Paolo VI. Il 19 settembre, egli fece dono di una croce dorata per arricchire il tempietto ravennate che custodisce il sepolcro di Dante, fino ad allora privo «d’un tale segno di religione e di speranza».[4] Il 14 novembre inviò a Firenze, affinché fosse incastonata nel Battistero di San Giovanni, un’aurea corona d’alloro. Infine, alla conclusione dei lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II, volle donare ai Padri Conciliari un’artistica edizione della Divina Commedia. Ma soprattutto onorò la memoria del Sommo Poeta con la Lettera Apostolica Altissimi cantus,[5] in cui ribadiva il forte legame tra la Chiesa e Dante Alighieri: «Che se volesse qualcuno domandare, perché la Chiesa Cattolica, per volere del suo visibile Capo, si prende a cuore di coltivare la memoria e di celebrare la gloria del poeta fiorentino, facile è la nostra risposta: perché, per un diritto particolare, nostro è Dante! Nostro, vogliamo dire della fede cattolica, perché tutto spirante amore a Cristo; nostro perché molto amò la Chiesa, di cui cantò le glorie; e nostro perché riconobbe e venerò nel Pontefice Romano il Vicario di Cristo».

Ma tale diritto, proseguiva il Papa, lungi dall’autorizzare atteggiamenti trionfalistici, rappresenta anche un impegno: «Dante è nostro, possiamo ben ripetere; e ciò affermiamo non già per farne ambizioso trofeo di gloria egoista, quanto piuttosto per ricordare a noi stessi il dovere di riconoscerlo tale, e di esplorare nell’opera sua gli inestimabili tesori del pensiero e del sentimento cristiano, convinti come siamo che solo chi penetra nell’anima religiosa del sovrano Poeta può a fondo comprenderne e gustarne le meravigliose spirituali ricchezze». E tale impegno non esime la Chiesa dall’accogliere anche le parole di critica profetica pronunciate dal Poeta nei confronti di chi doveva annunciare il Vangelo e rappresentare non sé stesso ma il Cristo: «Né rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice Romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti»; tuttavia, appare chiaro che «tali fieri suoi atteggiamenti non abbiano mai scosso la sua ferma fede cattolica e la sua filiale affezione alla santa Chiesa».

Paolo VI illustrava, quindi, le caratteristiche che fanno del poema dantesco una fonte di ricchezze spirituali alla portata di tutti: «Il Poema di Dante è universale: nella sua immensa larghezza, abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e quella attinta dal lume della ragione, i dati dell’esperienza personale e le memorie della storia». Ma soprattutto individuava la finalità intrinseca all’opera dantesca e particolarmente alla Divina Commedia, finalità non sempre chiaramente apprezzata e valutata: «Il fine della Divina Commedia è primariamente pratico e trasformante. Non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente buona, ma in grado di cambiare radicalmente l’uomo e di portarlo dal disordine alla saggezza, dal peccato alla santità, dalla miseria alla felicità, dalla contemplazione terrificante dell’inferno a quella beatificante del paradiso».

Il Papa aveva a cuore, in un momento storico denso di tensioni tra i popoli, l’ideale della pace e trovava nell’opera del Poeta una riflessione preziosa per promuoverla e suscitarla: «Questa pace dei singoli, delle famiglie, delle nazioni, del consorzio umano, pace interna ed esterna, pace individuale e pubblica, tranquillità dell’ordine, è turbata e scossa, perché sono conculcate la pietà e la giustizia. E a restaurare l’ordine e la salvezza sono chiamate a operare in armonia la fede e la ragione, Beatrice e Virgilio, la Croce e l’Aquila, la Chiesa e l’Impero». In questa linea definiva così l’opera poetica nella prospettiva della pace: «Poema della pace è la Divina Commedia: lugubre canto della pace per sempre perduta è l’Inferno, dolce canto della pace sperata è il Purgatorio, trionfale epinicio di pace eternamente e pienamente posseduta è il Paradiso».

In tale prospettiva, proseguiva il Pontefice, la Commedia «è il poema del miglioramento sociale nella conquista di una libertà, che è franchigia dall’asservimento del male, e che ci conduce a trovare e ad amare Dio […] professando un umanesimo, le cui qualità riteniamo ben chiarite». Ma Paolo VI ribadiva ulteriormente quali fossero le qualità dell’umanesimo dantesco: «In Dante tutti i valori umani (intellettuali, morali, affettivi, culturali, civili) sono riconosciuti, esaltati; e ciò che è ben importante rilevare, è che questo apprezzamento e onore avviene mentre egli si sprofonda nel divino, quando la contemplazione avrebbe potuto vanificare gli elementi terrestri». Da qui nasce, affermava il Papa, a ragione, l’appellativo di Sommo Poeta e la definizione di divina attribuita alla Commedia, come pure la proclamazione di Dante quale «signore dell’altissimo canto», nell’incipit della Lettera Apostolica stessa.

Valutando, inoltre, le straordinarie qualità artistiche e letterarie di Dante, Paolo VI ribadiva un principio tante altre volte da lui affermato: «La teologia e la filosofia hanno con la bellezza un altro rapporto consistente in questo: che prestando la bellezza alla dottrina la sua veste e il suo ornamento, con la dolcezza del canto e la visibilità dell’arte figurativa e plastica, apre la strada perché i suoi preziosi insegnamenti siano comunicati a molti. Le alte disquisizioni, i sottili ragionamenti sono inaccessibili agli umili, che sono moltitudine, essi pure famelici del pane della verità: senonché anche questi avvertono, sentono e apprezzano l’influsso della bellezza, e più facilmente per questo veicolo la verità loro brilla e li nutre. È quanto intese e fece il signore dell’altissimo canto, a cui la bellezza divenne ancella di bontà e verità, e la bontà materia di bellezza». Citando infine la Commedia, Paolo VI esortava tutti: «Onorate l’altissimo poeta!» (Inf. IV, 80).

Di San Giovanni Paolo II, che più volte nei suoi discorsi ha ripreso le opere del Sommo Poeta, desidero rievocare solo l’intervento del 30 maggio 1985 all’inaugurazione della mostra Dante in Vaticano. Anch’egli, come Paolo VI, sottolineava la genialità artistica: l’opera di Dante è interpretata come «una realtà visualizzata, che parla della vita dell’oltretomba e del mistero di Dio con la forza del pensiero teologico, trasfigurato dallo splendore dell’arte e della poesia, insieme congiunte». Il Pontefice si soffermava, poi, a esaminare un termine chiave dell’opera dantesca: «Trasumanare. Fu questo lo sforzo supremo di Dante: fare in modo che il peso dell’umano non distruggesse il divino che è in noi, né la grandezza del divino annullasse il valore dell’umano. Per questo il Poeta lesse giustamente la propria vicenda personale e quella dell’intera umanità in chiave teologica».

Benedetto XVI ha spesso riproposto l’itinerario dantesco, attingendo dalle sue opere spunti di riflessione e di meditazione. Ad esempio, parlando della sua prima Enciclica Deus caritas est, partiva proprio dalla visione dantesca di Dio, in cui «luce e amore sono una cosa sola» per riproporre una sua riflessione sulla novità dell’opera di Dante: «Lo sguardo di Dante scorge una cosa totalmente nuova […]. La Luce eterna si presenta in tre cerchi ai quali egli si rivolge con quei densi versi che conosciamo: “O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!” (Par. XXXIII, 124-126). In realtà, ancora più sconvolgente di questa rivelazione di Dio come cerchio trinitario di conoscenza e di amore è la percezione di un volto umano – il volto di Gesù Cristo – che a Dante appare nel cerchio centrale della Luce. […] Questo Dio ha un volto umano e – possiamo aggiungere – un cuore umano».[6] Il Papa evidenziava l’originalità della visione dantesca nella quale si comunica poeticamente la novità dell’esperienza cristiana, scaturita dal mistero dell’Incarnazione: «La novità di un amore che ha spinto Dio ad assumere un volto umano, anzi ad assumere carne e sangue, l’intero essere umano».[7]

Da parte mia, nella prima Enciclica, Lumen fidei,[8] ho fatto riferimento a Dante per esprimere la luce della fede, citando un verso del Paradiso in cui essa è descritta come «favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace, / e come stella in cielo in me scintilla» (Par. XXIV, 145-147). Per i 750 anni dalla nascita del Poeta, ho voluto onorare la sua memoria con un messaggio, auspicando che «la figura dell’Alighieri e la sua opera siano nuovamente comprese e valorizzate»; e proponevo di leggere la Commedia come «un grande itinerario, anzi come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore, sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico»; infatti, «essa rappresenta il paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Par. XXII, 151) per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità».[9] Ho, quindi, additato la figura del Sommo Poeta ai nostri contemporanei, proponendolo come «profeta di speranza, annunciatore della possibilità del riscatto, della liberazione, del cambiamento profondo di ogni uomo e donna, di tutta l’umanità».[10]

Infine, ricevendo, il 10 ottobre 2020, la Delegazione dell’Arcidiocesi di Ravenna-Cervia, in occasione dell’apertura dell’Anno Dantesco, e annunciando questo documento, osservavo come l’opera di Dante possa anche oggi arricchire la mente e il cuore di tanti, soprattutto giovani, che accostandosi alla sua poesia «in una maniera per loro accessibile, riscontrano, da una parte, inevitabilmente, tutta la lontananza dell’autore e del suo mondo; e tuttavia, dall’altra, avvertono una sorprendente risonanza».[11]


2. La vita di Dante Alighieri, paradigma della condizione umana

Con questa Lettera Apostolica desidero anch’io accostarmi alla vita e all’opera dell’illustre Poeta per percepire proprio tale risonanza, manifestandone sia l’attualità sia la perennità, e per cogliere quei moniti e quelle riflessioni che ancora oggi sono essenziali per tutta l’umanità, non solo per i credenti. L’opera di Dante, infatti, è parte integrante della nostra cultura, ci rimanda alle radici cristiane dell’Europa e dell’Occidente, rappresenta il patrimonio di ideali e di valori che anche oggi la Chiesa e la società civile propongono come base della convivenza umana, in cui possiamo e dobbiamo riconoscerci tutti fratelli. Senza addentrarmi nella complessa vicenda storica personale, politica e giudiziaria dell’Alighieri, vorrei ricordare solo alcuni momenti ed eventi della sua esistenza, per i quali egli appare straordinariamente vicino a tanti nostri contemporanei e che sono essenziali per comprendere la sua opera.

Alla città di Firenze, dove nacque nel 1265 e in cui si sposò con Gemma Donati generando quattro figli, fu dapprima legato da un forte senso di appartenenza che, però, a causa dei dissidi politici, nel tempo si trasformò in aperto contrasto. Tuttavia, non venne mai meno in lui il desiderio di ritornarvi, non solo per l’affetto che comunque continuò a nutrire per la sua città, ma soprattutto per essere incoronato poeta là dove aveva ricevuto il battesimo e la fede (cfr Par. XXV, 1-9). Nelle intestazioni di alcune sue Lettere (III, V, VI e VII) Dante si definisce «florentinus et exul inmeritus», mentre nella XIII, indirizzata a Cangrande della Scala, precisa «florentinus natione non moribus». Egli, guelfo di parte bianca, si trova coinvolto nel conflitto tra Guelfi e Ghibellini, tra Guelfi bianchi e neri, e dopo aver rivestito cariche pubbliche sempre più importanti, fino a diventare Priore, per le avverse vicende politiche, nel 1302, viene esiliato per due anni, interdetto dai pubblici uffici e condannato al pagamento di una multa. Dante rifiuta il verdetto a suo avviso ingiusto, e il giudizio nei suoi confronti si fa ancora più severo: esilio perpetuo, confisca dei beni e condanna a morte in caso di ritorno in patria. Comincia così la dolorosa vicenda di Dante, il quale cerca invano di poter ritornare nella sua amata Firenze, per la quale aveva combattuto con passione.

Egli diventa così l’esule, il “pellegrino pensoso”, caduto in una condizione di «dolorosa povertade» (Convivio, I, III, 5) che lo spinge a cercare rifugio e protezione presso alcune signorie locali, tra cui gli Scaligeri di Verona e i Malaspina in Lunigiana. Nelle parole di Cacciaguida, antenato del Poeta, si percepiscono l’amarezza e lo sconforto di questa nuova condizione: «Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco de lo essilio pria saetta. / Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale» (Par. XVII, 55-60).

Non accettando, poi, le umilianti condizioni di un’amnistia che gli avrebbe consentito il rientro a Firenze, nel 1315 viene nuovamente condannato a morte, questa volta insieme ai suoi figli adolescenti. L’ultima tappa del suo esilio fu Ravenna, dove venne accolto da Guido Novello da Polenta, e dove morì, di ritorno da una missione a Venezia, all’età di 56 anni, nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. La sua sepoltura in un’arca presso San Pietro Maggiore, a ridosso del muro esterno dell’antico chiostro francescano, fu poi trasferita nell’attiguo tempietto settecentesco, dove, dopo tormentate vicende,  nel 1865 furono ricollocate le sue spoglie mortali. Il luogo è ancor oggi meta di innumerevoli visitatori e ammiratori del Sommo Poeta, padre della lingua e della letteratura italiana.

Nell’esilio, l’amore per la sua città, tradito dagli «scelleratissimi fiorentini» (Ep. VI, 1), si trasformò in triste nostalgia. La delusione profonda per la caduta dei suoi ideali politici e civili, insieme alla dolorosa peregrinazione da una città all’altra in cerca di rifugio e sostegno non sono estranee alla sua opera letteraria e poetica, anzi ne costituiscono la radice essenziale e la motivazione di fondo. Quando Dante descrive i pellegrini che si mettono in cammino per visitare i luoghi santi, in qualche modo rappresenta la sua condizione esistenziale e manifesta i suoi più intimi sentimenti: «Deh, peregrini che pensosi andate…» (Vita Nova, 29 [XL (XLI), 9], v. 1). Il motivo ritorna più volte, come nel verso del Purgatorio: «Sì come i peregrin pensosi fanno, / giugnendo per cammin gente non nota, / che si volgono ad essa e non restanno» (XXIII, 16-18). La struggente malinconia di Dante pellegrino ed esule si percepisce anche nei celebri versi dell’VIII Canto del Purgatorio: «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e ‘ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio» (VIII, 1-3).

Dante, riflettendo profondamente sulla sua personale situazione di esilio, di incertezza radicale, di fragilità, di mobilità continua, la trasforma, sublimandola, in un paradigma della condizione umana, la quale si presenta come un cammino, interiore prima che esteriore, che mai si arresta finché non giunge alla meta. Ci imbattiamo, così, in due temi fondamentali di tutta l’opera dantesca: il punto di partenza di ogni itinerario esistenziale, il desiderio, insito nell’animo umano, e il punto di arrivo, la felicità, data dalla visione dell’Amore che è Dio.

Il Sommo Poeta, pur vivendo vicende drammatiche, tristi e angoscianti, non si rassegna mai, non soccombe, non accetta di sopprimere l’anelito di pienezza e di felicità che è nel suo cuore, né tanto meno si rassegna a cedere all’ingiustizia, all’ipocrisia, all’arroganza del potere, all’egoismo che rende il nostro mondo «l’aiuola che ci fa tanto feroci» (Par. XXII, 151).


3. La missione del Poeta, profeta di speranza

Dante, dunque, rileggendo soprattutto alla luce della fede la propria vita, scopre anche la vocazione e la missione a lui affidate, per cui, paradossalmente, da uomo apparentemente fallito e deluso, peccatore e sfiduciato, si trasforma in profeta di speranza. Nell’Epistola a Cangrande della Scala chiarisce, con straordinaria limpidezza, la finalità della sua opera, che si attua e si esplica non più attraverso azioni politiche o militari ma grazie alla poesia, all’arte della parola che, rivolta a tutti, tutti può cambiare: «Bisogna dire brevemente che il fine del tutto e della parte è rimuovere i viventi in questa vita da uno stato di miseria e condurli a uno stato di felicità» (XIII, 39 [15]). Tale finalità mette in moto un cammino di liberazione da ogni forma di miseria e di degrado umano (la “selva oscura”) e contemporaneamente addita la meta ultima: la felicità, intesa sia come pienezza di vita nella storia sia come beatitudine eterna in Dio.

Di questo duplice fine, di questo ardito programma di vita, Dante è messaggero, profeta e testimone, confermato nella sua missione da Beatrice: «Però, in pro del mondo che mal vive, / al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive» (Purg. XXXII, 103-105). Anche Cacciaguida, suo antenato, lo esorta a non venir meno alla sua missione. Al Poeta, che ricorda brevemente il suo cammino nei tre regni dell’aldilà, e che fa presente la difficoltà di comunicare quelle verità che fanno male, che sono scomode, l’illustre avo ribatte: «Coscïenza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca. / Ma nondimen, rimossa ogne menzogna / tutta tua visïon fa manifesta; / e lascia pur grattar dov’è la rogna» (Par. XVII, 124-129). Un identico incitamento a vivere coraggiosamente la sua missione profetica viene rivolto a Dante nel Paradiso da San Pietro, là dove l’Apostolo, dopo una tremenda invettiva contro Bonifacio VIII, così si rivolge al Poeta: «E tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo» (XXVII, 64-66).

Nella missione profetica di Dante si inseriscono, così, anche la denuncia e la critica nei confronti di quei credenti, sia Pontefici sia semplici fedeli, che tradiscono l’adesione a Cristo e trasformano la Chiesa in uno strumento per i propri interessi, dimenticando lo spirito delle Beatitudini e la carità verso i piccoli e i poveri e idolatrando il potere e la ricchezza: «Ché quantunque la Chiesa guarda, tutto / è de la gente che per Dio dimanda; / non di parenti né d’altro più brutto» (Par. XXII, 82-84). Ma attraverso le parole di San Pier Damiani, di San Benedetto e di San Pietro, il Poeta, mentre denuncia la corruzione di alcuni settori della Chiesa, si fa portavoce di un rinnovamento profondo e invoca la Provvidenza perché lo favorisca e lo renda possibile: «Ma l’alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, / soccorrà tosto, sì com’io concipio» (Par. XXVII, 61-63).

Dante esule, pellegrino, fragile, ma ora forte della profonda e intima esperienza che lo ha trasformato, rinato grazie alla visione che dalle profondità degli inferi, dalla condizione umana più degradata, lo ha innalzato alla visione stessa di Dio, si erge dunque a messaggero di una nuova esistenza, a profeta di una nuova umanità che anela alla pace e alla felicità.


4. Dante cantore del desiderio umano

Dante sa leggere in profondità il cuore umano e in tutti, anche nelle figure più abiette e inquietanti, sa scorgere una scintilla di desiderio per raggiungere una qualche felicità, una pienezza di vita. Egli si ferma ad ascoltare le anime che incontra, dialoga con esse, le interroga per immedesimarsi e partecipare ai loro tormenti oppure alla loro beatitudine. Il Poeta, partendo dalla propria condizione personale, si fa così interprete del desiderio di ogni essere umano di proseguire il cammino finché non sia raggiunto l’approdo finale, non si sia trovata la verità, la risposta ai perché dell’esistenza, finché, come già affermava Sant’Agostino,[12] il cuore non trovi riposo e pace in Dio.

Nel Convivio analizza proprio il dinamismo del desiderio: «Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima da la natura dato, è lo ritornare al suo principio. E però che Dio è principio de le nostre anime […], essa anima massimamente desidera di tornare a quello. E sì come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia all’albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza a l’altra, e così di casa in casa, tanto che a l’albergo viene; così l’anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza gli occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso» (IV, XII, 14-15).

L’itinerario di Dante, particolarmente quello illustrato nella Divina Commedia, è davvero il cammino del desiderio, del bisogno profondo e interiore di cambiare la propria vita per poter raggiungere la felicità e così mostrarne la strada a chi si trova, come lui, in una “selva oscura” e ha smarrito “la diritta via”. Appare inoltre significativo che, sin dalla prima tappa di questo percorso, la sua guida, il grande poeta latino Virgilio, gli indichi la meta a cui deve giungere, spronandolo a non cedere alla paura e alla stanchezza: «Ma tu perché ritorni a tanta noia? / perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?» (Inf. I, 76-78).


5. Poeta della misericordia di Dio e della libertà umana

Si tratta di un cammino non illusorio o utopico ma realistico e possibile, in cui tutti possono inserirsi, perché la misericordia di Dio offre sempre la possibilità di cambiare, di convertirsi, di ritrovarsi e ritrovare la via verso la felicità. Significativi, a tal proposito, alcuni episodi e personaggi della Commedia, che manifestano come a nessuno in terra sia preclusa tale via. Ecco, ad esempio, l’imperatore Traiano, pagano ma collocato nel Paradiso. Dante così giustifica questa presenza: «Regnum celorum vïolenza pate / da caldo amore e da viva speranza, / che vince la divina volontate; / non a guisa che l’omo a l’om sobranza, / ma vince lei perché vuole essere vinta, / e, vinta, vince con sua beninanza» (Par. XX, 94-99). Il gesto di carità di Traiano nei confronti di una «vedovella» (45), o la «lagrimetta» di pentimento versata in punto di morte da Buonconte da Montefeltro (Purg. V, 107) non solo mostrano l’infinita misericordia di Dio, ma confermano che l’essere umano può sempre scegliere, con la sua libertà, quale via seguire e quale sorte meritare.

In questa luce, significativo è il re Manfredi, collocato da Dante nel Purgatorio, che così rievoca la propria fine e il verdetto divino: «Poscia ch’io ebbi rotta la persona / di due punte mortali, io mi rendei, / piangendo, a quei che volontier perdona. / Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei» (Purg. III, 118-123). Sembra quasi di scorgere la figura del padre della parabola evangelica, con le braccia aperte pronto ad accogliere il figlio prodigo che a lui ritorna (cfr Lc 15,11-32).

Dante si fa paladino della dignità di ogni essere umano e della libertà come condizione fondamentale sia delle scelte di vita sia della stessa fede. Il destino eterno dell’uomo – suggerisce Dante narrandoci le storie di tanti personaggi, illustri o poco conosciuti – dipende dalle sue scelte, dalla sua libertà: anche i gesti quotidiani e apparentemente insignificanti hanno una portata che va oltre il tempo, sono proiettati nella dimensione eterna. Il maggior dono di Dio all’uomo perché possa raggiungere la meta ultima è proprio la libertà, come afferma Beatrice: «Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, e a la sua bontade / più conformato, e quel ch’e’ più apprezza, / fu de la volontà la libertate» (Par. V, 19-22). Non sono affermazioni retoriche e vaghe, poiché scaturiscono dall’esistenza di chi conosce il costo della libertà: «Libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta» (Purg. I, 71-72).

Ma la libertà, ci ricorda l’Alighieri, non è fine a sé stessa, è condizione per ascendere continuamente, e il percorso nei tre regni ci illustra plasticamente proprio questa ascesa, fino a toccare il Cielo, a raggiungere la felicità piena. L’«alto disio» (Par. XXII, 61), suscitato dalla libertà, non può estinguersi se non davanti al traguardo, alla visione ultima e alla beatitudine: «E io ch’al fine di tutt’i disii, / appropinquava, sì com’io dovea, / l’ardor del desiderio in me finii» (Par. XXXIII, 46-48). Il desiderio si fa poi anche preghiera, supplica, intercessione, canto che accompagna e segna l’itinerario dantesco, così come la preghiera liturgica scandisce le ore e i momenti della giornata. La parafrasi del Padre Nostro che il Poeta propone (cfr Purg. XI, 1-21) intreccia il testo evangelico con il vissuto personale, con le sue difficoltà e sofferenze: «Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, / ché noi ad essa non potem da noi. […] Dà oggi a noi la cotidiana manna, / sanza la qual per questo aspro diserto / a retro va chi più di gir s’affanna» (7-8.13-15). La libertà di chi crede in Dio quale Padre misericordioso, non può che affidarsi a Lui nella preghiera, né da questa è minimamente lesa, ma anzi rafforzata.


6. L’immagine dell’uomo nella visione di Dio

Nell’itinerario della Commedia, come già sottolineato da Papa Benedetto XVI, il cammino della libertà e del desiderio non porta con sé, come forse si potrebbe immaginare, una riduzione dell’umano nella sua concretezza, non aliena la persona da sé stessa, non annulla o tralascia ciò che ne ha costituito l’esistenza storica. Perfino nel Paradiso, infatti, Dante rappresenta i beati – le «bianche stole» (XXX, 129) – nel loro aspetto corporeo, rievoca i loro affetti e le loro emozioni, i loro sguardi e i loro gesti, ci mostra, insomma, l’umanità nella sua compiuta perfezione di anima e corpo, prefigurando la risurrezione della carne. San Bernardo, che accompagna Dante nell’ultimo tratto del cammino, mostra al Poeta i bambini presenti nella rosa dei beati e lo invita a osservarli e ascoltarli: «Ben te ne puoi accorger per li volti / e anche per le voci püerili, / se tu li guardi bene e se li ascolti» (XXXII, 46-48). Appare commovente come questo mostrarsi dei beati nella loro luminosa umanità integrale sia motivato non solo da sentimenti di affetto per i propri cari, ma soprattutto dal desiderio esplicito di rivederne i corpi, le sembianze terrene: «Ben mostrar disio d’i corpi morti: / forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme» (XIV, 63-66).

E infine, al centro della visione ultima, nell’incontro col Mistero della Santissima Trinità, Dante scorge proprio un Volto umano, quello di Cristo, della Parola eterna fatta carne nel seno di Maria: «Ne la profonda e chiara sussistenza / de l’alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza […]. Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume reflesso, / da li occhi miei alquanto circunspetta, / dentro da sé, del suo colore stesso, / mi parve pinta de la nostra effige» (XXXIII, 115-117.127-131). Solo nella visio Dei si placa il desiderio dell’uomo e termina tutto il suo faticoso cammino: «La mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne. / A l’alta fantasia qui mancò possa» (140-142).

Il mistero dell’Incarnazione, che oggi celebriamo, è il vero centro ispiratore e il nucleo essenziale di tutto il poema. In esso si realizza quello che i Padri della Chiesa chiamavano “divinizzazione”, l’admirabile commercium, il prodigioso scambio per cui, mentre Dio entra nella nostra storia facendosi carne, l’essere umano, con la sua carne, può entrare nella realtà divina, simboleggiata dalla rosa dei beati. L’umanità, nella sua concretezza, con i gesti e le parole quotidiane, con la sua intelligenza e i suoi affetti, con il corpo e le emozioni, è assunta in Dio, nel quale trova la felicità vera e la realizzazione piena e ultima, meta di tutto il suo cammino. Dante aveva desiderato e previsto questo traguardo all’inizio del Paradiso: «Accender ne dovria più il disio / di veder quella essenza in che si vede / come nostra natura e Dio s’unio. / Lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto / a guisa del ver primo che l’uom crede» (II, 40-45).


7. Le tre donne della Commedia: Maria, Beatrice, Lucia

Cantando il mistero dell’Incarnazione, fonte di salvezza e di gioia per l’intera umanità, Dante non può non cantare le lodi di Maria, la Vergine Madre che, con il suo “sì”, con la sua piena e totale accoglienza del progetto di Dio, rende possibile che il Verbo si faccia carne. Nell’opera di Dante troviamo un bel trattato di mariologia: con accenti lirici altissimi, particolarmente nella preghiera pronunciata da San Bernardo, egli sintetizza tutta la riflessione teologica su Maria e sulla sua partecipazione al mistero di Dio: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, / tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura» (Par. XXXIII, 1-6). L’ossimoro iniziale e il susseguirsi di termini antitetici evidenziano l’originalità della figura di Maria, la sua singolare bellezza.

Sempre San Bernardo, mostrando i beati collocati nella mistica rosa, invita Dante a contemplare Maria, che ha dato le sembianze umane al Verbo Incarnato: «Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più si somiglia, ché la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo» (Par. XXXII, 85-87). Il mistero dell’Incarnazione è ancora una volta evocato dalla presenza dell’Arcangelo Gabriele. Dante interroga San Bernardo: «Qual è quell’angel che con tanto gioco / guarda ne li occhi la nostra regina, / innamorato sì che par di foco?» (103-105); e quegli risponde: «elli è quelli che portò la palma / giuso a Maria, quando ’l Figliuol di Dio / carcar si volse de la nostra salma» (112-114). Il riferimento a Maria è costante in tutta la Divina Commedia. Lungo il percorso nel Purgatorio, è il modello delle virtù che si contrappongono ai vizi; è la stella del mattino che aiuta a uscire dalla selva oscura per incamminarsi verso il monte di Dio; è la presenza costante, attraverso la sua invocazione – «il nome del bel fior ch’io sempre invoco / e mane e sera» (Par. XXIII, 88-89) – che prepara all’incontro con Cristo e col mistero di Dio.

Dante, che non è mai solo nel suo cammino, ma si lascia guidare dapprima da Virgilio, simbolo della ragione umana, e quindi da Beatrice e da San Bernardo, ora, grazie all’intercessione di Maria, può giungere alla patria e gustare la gioia piena desiderata in ogni momento dell’esistenza: «E ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa» (Par. XXXIII, 62-63). Non ci si salva da soli, sembra ripeterci il Poeta, consapevole della propria insufficienza: «Da me stesso non vegno» (Inf. X, 61); è necessario che il cammino si faccia in compagnia di chi può sostenerci e guidarci con saggezza e prudenza.

Appare significativa in questo contesto la presenza femminile. All’inizio del faticoso itinerario, Virgilio, la prima guida, conforta e incoraggia Dante a proseguire perché tre donne intercedono per lui e lo guideranno: Maria, la Madre di Dio, figura della carità; Beatrice, simbolo di speranza; Santa Lucia, immagine della fede. Così, con parole commoventi, si presenta Beatrice: «I’ son Beatrice che ti faccio andare; / vegno del loco ove tornar disio; / amor mi mosse, che mi fa parlare» (Inf. II, 70-72), affermando che l’unica sorgente che può donarci la salvezza è l’amore, l’amore divino che trasfigura l’amore umano. Beatrice rimanda, poi, all’intercessione di un’altra donna, la Vergine Maria: «Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo ’mpedimento ov’io ti mando, / sì che duro giudicio là sù frange» (94-96). Quindi interviene Lucia, che si rivolge a Beatrice: «Beatrice, loda di Dio vera, / ché non soccorri quei che t’amò tanto, / ch’uscì per te de la volgare schiera?» (103-105). Dante riconosce che solo chi è mosso dall’amore può davvero sostenerci nel cammino e portarci alla salvezza, al rinnovamento di vita e quindi alla felicità.


8. Francesco, sposo di Madonna Povertà

Nella candida rosa dei beati, al cui centro brilla la figura di Maria, Dante colloca anche numerosi santi, dei quali tratteggia la vita e la missione, per proporli come figure che, nella concretezza della loro esistenza e anche attraverso le numerose prove, hanno raggiunto il fine della loro vita e della loro vocazione. Rievocherò brevemente solo quella di San Francesco d’Assisi, illustrata nel Canto XI del Paradiso, dove si parla degli spiriti sapienti.

C’è una profonda sintonia tra San Francesco e Dante: il primo, insieme ai suoi, uscì dal chiostro, andò tra la gente, per le vie di borghi e città, predicando al popolo, fermandosi nelle case; il secondo fece la scelta, incomprensibile all’epoca, di usare per il grande poema dell’aldilà la lingua di tutti e popolando il suo racconto di personaggi noti e meno noti, ma del tutto uguali in dignità ai potenti della terra. Un altro tratto accomuna i due personaggi: l’apertura alla bellezza e al valore del mondo creaturale, specchio e “vestigio” del suo Creatore. Come non riconoscere in quel «laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore / da ogne creatura» della dantesca parafrasi al Padre Nostro (Purg. XI, 4-5) un riferimento al Cantico delle creature di San Francesco?

Nell’XI canto del Paradiso tale consonanza appare in un nuovo aspetto, che li rende ancora più simili. La santità e la sapienza di Francesco spiccano proprio perché Dante, guardando dal cielo la nostra terra, scorge la grettezza di chi confida nei beni terreni: «O insensata cura de’ mortali, / quanto son difettivi silogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali!» (1-3). Tutta la storia o, meglio, la «mirabil vita» del santo è imperniata sul suo rapporto privilegiato con Madonna Povertà: «Ma perch’io non proceda troppo chiuso, / Francesco e Povertà per questi amanti / prendi oramai nel mio parlar diffuso» (73-75). Nel canto di San Francesco si ricordano i momenti salienti della sua vita, le sue prove, e infine l’evento in cui la sua conformità a Cristo, povero e crocifisso, trova l’estrema, divina conferma nell’impronta delle stimmate: «E per trovare a conversione acerba / troppo la gente e per non stare indarno, / redissi al frutto de l’italica erba, / nel crudo sasso intra Tevero e Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo, / che le sue membra due anni portarno» (103-108).


9. Accogliere la testimonianza di Dante Alighieri

Al termine di questo sintetico sguardo all’opera di Dante Alighieri, una miniera quasi infinita di conoscenze, di esperienze, di considerazioni in ogni ambito della ricerca umana, si impone una riflessione. La ricchezza di figure, di narrazioni, di simboli, di immagini suggestive e attraenti che Dante ci propone suscita certamente ammirazione, meraviglia, gratitudine. In lui possiamo quasi intravedere un precursore della nostra cultura multimediale, in cui parole e immagini, simboli e suoni, poesia e danza si fondono in un unico messaggio. Si comprende, allora, perché il suo poema abbia ispirato la creazione di innumerevoli opere d’arte di ogni genere.

Ma l’opera del Sommo Poeta suscita anche alcune provocazioni per i nostri giorni. Cosa può comunicare a noi, nel nostro tempo? Ha ancora qualcosa da dirci, da offrirci? Il suo messaggio ha un’attualità, una qualche funzione da svolgere anche per noi? Ci può ancora interpellare?

Dante – proviamo a farci interpreti della sua voce – non ci chiede, oggi, di essere semplicemente letto, commentato, studiato, analizzato. Ci chiede piuttosto di essere ascoltato, di essere in certo qual modo imitato, di farci suoi compagni di viaggio, perché anche oggi egli vuole mostrarci quale sia l’itinerario verso la felicità, la via retta per vivere pienamente la nostra umanità, superando le selve oscure in cui perdiamo l’orientamento e la dignità. Il viaggio di Dante e la sua visione della vita oltre la morte non sono semplicemente oggetto di una narrazione, non costituiscono soltanto un evento personale, seppur eccezionale.

Se Dante racconta tutto questo – e lo fa in modo mirabile – usando la lingua del popolo, quella che tutti potevano comprendere, elevandola a lingua universale, è perché ha un messaggio importante da trasmetterci, una parola che vuole toccare il nostro cuore e la nostra mente, destinata a trasformarci e cambiarci già ora, in questa vita. Il suo è un messaggio che può e deve renderci pienamente consapevoli di ciò che siamo e di ciò che viviamo giorno per giorno nella tensione interiore e continua verso la felicità, verso la pienezza dell’esistenza, verso la patria ultima dove saremo in piena comunione con Dio, Amore infinito ed eterno. Anche se Dante è uomo del suo tempo e ha sensibilità diverse dalle nostre su alcuni temi, il suo umanesimo è ancora valido e attuale e può certamente essere punto di riferimento per quello che vogliamo costruire nel nostro tempo.

Perciò è importante che l’opera dantesca, cogliendo l’occasione propizia del Centenario, sia fatta conoscere ancor di più nella maniera più adeguata, sia cioè resa accessibile e attraente non solo a studenti e studiosi, ma anche a tutti coloro che, ansiosi di rispondere alle domande interiori, desiderosi di realizzare in pienezza la propria esistenza, vogliono vivere il proprio itinerario di vita e di fede in maniera consapevole, accogliendo e vivendo con gratitudine il dono e l’impegno della libertà.

Mi congratulo, pertanto, con gli insegnanti che sono capaci di comunicare con passione il messaggio di Dante, di introdurre al tesoro culturale, religioso e morale contenuto nelle sue opere. E tuttavia questo patrimonio chiede di essere reso accessibile al di là delle aule scolastiche e universitarie.

Esorto le comunità cristiane, soprattutto quelle presenti nelle città che conservano le memorie dantesche, le istituzioni accademiche, le associazioni e i movimenti culturali, a promuovere iniziative volte alla conoscenza e alla diffusione del messaggio dantesco nella sua pienezza.

Incoraggio, poi, in maniera particolare, gli artisti a dare voce, volto e cuore, a dare forma, colore e suono alla poesia di Dante, lungo la via della bellezza, che egli percorse magistralmente, e così comunicare le verità più profonde e diffondere, con i linguaggi propri dell’arte, messaggi di pace, di libertà, di fraternità.

In questo particolare momento storico, segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l’umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro, la figura di Dante, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere, finché il nostro cuore non avrà trovato la vera pace e la vera gioia, finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII, 145).


Dal Vaticano, 25 marzo, Solennità dell’Annunciazione del Signore, dell’anno 2021, nono del mio pontificato.

Francesco


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* Per le citazioni delle opere di Dante si fa riferimento all’Edizione Nazionale.

[1] In praeclara summorum (30 aprile 1921): AAS 13 (1921), 209-217.

[2] Cfr ibid.: 210.

[3] Ep. Nobis, ad Catholicam (28 ottobre 1914): AAS 6 (1914), 540.

[4] Discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura Romana (23 dicembre 1965): AAS 58 (1966), 80.

[5] Cfr AAS 58 (1966), 22-37.

[6] Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio “Cor Unum” (23 gennaio 2006): Insegnamenti 2006 II/1, 92-93.

[7] Ibid., 93.

[8] Cfr n. 4: AAS 105 (2013), 557.

[9] Messaggio al Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura (4 maggio 2015): AAS 107 (2015), 551-552.

[10] Ibid.: 552.

[11] L’Osservatore Romano, 10 ottobre 2020, p. 7.

[12] Cfr Conf., I, I, 1: PL 32, 661.


Fonte: pagina di www.vatican.va

lunedì 22 febbraio 2021

Dante 1321-2021: Le "nostre" ragioni per celebrare un centenario


Il 4 settembre scorso, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si è inaugurato a Ravenna il VII centenario della morte di Dante Alighieri, avvenuta appunto in quella città tra il 13 e il 14 settembre 1321, «nel dì – come scrive Giovanni Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante – che la esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa» (XIV). È lo stesso Boccaccio a ricordare che il corpo del sommo Poeta fu portato «al luogo de’ frati minori» (XV) nella cui chiesa di San Pietro Maggiore, popolarmente allora come oggi chiamata "San Francesco", furono celebrate le esequie e nell’attiguo cimitero trovò infine sepoltura.

Una ricorrenza che può essere l’occasione – come auspicava Papa Francesco – perché «la figura dell’Alighieri e la sua opera siano nuovamente comprese e valorizzate, anche per accompagnarci nel nostro percorso personale e comunitario. La Commedia può essere letta, infatti, come un grande itinerario, anzi come un vero pellegrinaggio, sia personale e interiore, sia comunitario, ecclesiale, sociale e storico. Essa rappresenta il paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Par. XX, 151) per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità» [1].  E non è la prima volta che un Pontefice addita la figura e l’opera del sommo Poeta. 

Nel secolo scorso – per fermarci a quello – lo aveva fatto Benedetto XIV in occasione del centenario del 1921, affermando che la ragione particolare per cui anche la Chiesa dovesse allora celebrare quel «solenne anniversario con memore riconoscenza e con grande concorso di popolo» stava nel fatto che «l’Alighieri è nostro» [2].  E a Dante lo stesso Pontefice dedicò nel 1921 l’enciclica In praeclara summorum che così si conclude: «Volesse il cielo che queste celebrazioni centenarie facessero in modo che ovunque si impartisse l’insegnamento letterario, che Dante fosse tenuto nel dovuto onore e che egli stesso pertanto fosse per gli studenti un maestro di dottrina cristiana, dato che egli, componendo il suo poema, non ebbe altro scopo che “sollevare i mortali dallo stato di miseria”, cioè del peccato, e “di condurli allo stato di beatitudine”, cioè della grazia divina (Dante Alighieri Epistola XIII, 15)» [3].  

Lo stesso concetto fu poi ripreso dal santo Papa Paolo VI che nel 1965, VII centenario della nascita di colui che definisce “il signore dell’altissimo canto”, così scriveva: «Qualcuno potrebbe forse chiedere come mai la Chiesa cattolica, per volontà e per opera del suo Capo visibile, si prenda così a cuore di celebrare la memoria del poeta fiorentino e di onorarlo. La risposta è facile e immediata: perché Dante Alighieri è nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della religione cattolica, perché tutto spira amore a Cristo; nostro, perché amò molto la Chiesa, di cui cantò gli onori; nostro, perché riconobbe e venerò nel Romano Pontefice il Vicario di Cristo in terra». Certo il Pontefice non tacque allora il fatto che la voce del Poeta «si sia levata e abbia risuonato duramente contro alcuni Pontefici Romani, e che abbia ripreso con asprezza istituzioni ecclesiastiche e uomini che furono ministri e rappresentanti della Chiesa», riconoscendo comunque che questa critica non scosse mai «la sua ferma fede cattolica e la sua filiale affezione verso la Santa Madre Chiesa» [4]. 

Un “nostro” che quindi ci interpella come figli di tale Madre, ma anche come francescani: se incerto rimane il fatto che – come sostiene una certa tradizione – Dante fosse terziario francescano o, addirittura, novizio dell’Ordine, è certo che amò il nostro padre san Francesco a cui, unico tra tutti, dedicò un intero canto della Commedia. E amò anche la famiglia francescana a cui, proprio per questo, non risparmiò aspri rimproveri per essersi allontanata dall’ideale evangelico del Poverello. Perciò anche noi possiamo dire che “nostro è Dante”, e ciò affermiamo – come invitata Paolo VI nella citata lettera apostolica – non con pretesa egoistica, quanto piuttosto per assumere la responsabilità di ascoltare e far ancora risuonare la sua voce, con il santo Papa Giovanni Paolo II anche noi convinti che la sua arte «evocando sublimi emozioni e supreme certezze, si rivela ancora capace di infondere coraggio e speranza, orientando la difficile ricerca esistenziale dell'uomo del nostro tempo, verso la Verità che non tramonta» [5]. 

Lo scorso 10 ottobre 2020 papa Francesco riceveva in Vaticano la delegazione di Ravenna che portava per la benedizione la croce d’orata donata da san Paolo VI per la tomba dell’Alighieri. Alla fine dei recenti restauri quel «segno di religione e di speranza» [6] è stato ricollocato là dove fu posto il 19 settembre 1965, alla presenza trentacinque arcivescovi e vescovi francescani partecipanti al Concilio Vaticano II [7]. In quell’occasione il Pontefice annunciava il proponimento di offrire nel corso dell’anno centenario – in continuità con i suoi predecessori – una sua più ampia e dunque ormai imminente riflessione sul Dante “nostro”  [8].




Note:

[1] Messaggio al Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura in occasione delle celebrazioni del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri, 4 maggio 2015: online alla pagina di www.vatican.va   
[2]  Epistola Nobis, ad catholicam al Reverendo Padre Don Pasquale Morganti, arcivescovo dei ravennati e vescovo dei cervesi, in occasione del VI centenario della morte di Dante Alighieri, 28 ottobre 1914: online alla pagina di www.vatican.va
[3]  Lettera enciclica In praeclara summorum in occasione del VI Centenario della morte di Dante Alighieri, 30 aprile 1921: online alla pagina di www.vatican.va
[4]  Lettera apostolica in forma di 'motu proprio' Altissimi cantus per il VII Centenario della nascita di Dante Alighieri, 7 dicembre 1965: online alla pagina di www.vatican.va
[5] Paolo VI, Discorso al Sacro Collegio e alla Prelatura Romana, 23 dicembre 1965, online alla pagina di www.vatican.va
[6] Parole al termine della lettura dantesca da parte del prof. Vittorio Sermonti, Castel Gandolfo, 31 agosto 1997: online alla pagina di  www.vatican.va
[7]  La croce di Paolo VI sulla tomba di Dante. Trentacinque arcivescovi e vescovi francescani hanno assistito alla cerimonia, in: «L'Osservatore romano», 20-21 settembre 1965, p. 1.
[8] Cfr. Discorso alla delegazione dell'Arcidiocesi di Ravenna-Cervia in occasione dell'anno dantesco, 10 ottobre 2020: online alla pagina di www.vatican.va 

martedì 12 gennaio 2021

Il Dante di Benozzo Gozzoli in San Francesco di Montefalco


Nella chiesa di San Francesco di Montefalco (Perugia), sopra gli stalli lignei del coro dell'abside affrescata da Benozzo Gozzoli nel 1452 con le storie della vita di san Francesco, lo stesso pittore realizzò una serie di 23 tondi formati da motivi floreali come nel sottarco, in cui sono effigiati i più insigni dottori e personaggi che resero illustre l'Ordine minoritico e il Terz'ordine.
Benozzo di Lese di Sandro realizzò un primo lavoro a Montefalco nella chiesa di San Fortunato, sede degli osservanti e probabilmente questo spinse fra Jacopo Macthioli, guardiano dei conventuali di San Francesco, a commissionare gli affreschi dell'abside. Gli affreschi di Montefalco sono i primi lavori che il pittore esegue come maestro, dopo essere stato al seguito dell'Angelico tra il 1438 ed il 1443 e poi ancora nel 1447 per la decorazione della cappella di San Brizio nel Duomo d'Orvieto e la Cappella Niccolina nei Palazzi Vaticani in Roma, oltre ad aver collaborato con Lorenzo Ghiberti dal 1444 al 1447, per la decorazione delle formelle della Porta del Paradiso del Battistero di Firenze, il «mio bel San Giovanni» come lo chiama Dante in Inf. XIX 17. 

Gli episodi della vita del Santo d'Assisi, sono rappresentati nelle cinque pareti dell'abside al di sopra del coro ligneo, entro dodici scene disposte su tre registri sovrapposti divisi da una fascia esplicativa; la narrazione procede da sinistra verso destra partendo dal basso. 

Al centro dei tondi sopra il coro, proprio sotto il finestrone, stanno le figure di Petrarca, Dante e Giotto, con le relative iscrizioni. Quella del sommo Poeta recita così:

THEOLOGVS . DANTES . / NVLLIVS . DOGMATIS . EXPERS

Dante è singolarmente ripreso in maniera frontale e tiene tra le mani la sua Commedia aperta nell'incipit del primo canto dell'Inferno, dove - a fatica a causa delle cattive condizioni dell'opera e delle numerose lacune - si possono leggere le prime nove terzine (vv. 1-25).


Riguardo all'iscrizione narra il Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante (1326) che, conosciuto subito dopo la morte dell'Alighieri il proposito di Guido Novello da Polenta di erigergli un magnifico sepolcro, parecchi poeti di Romagna composero epitaffi metrici (evidentemente latini) e li mandarono al signore di Ravenna, ma nessuno di essi fu realmente posto sulla tomba, avendo Guido perduto la signoria (1322) ed essendo poi morto esule a Bologna (1330). Continua il Boccaccio rivelando che tali componimenti furono in seguito mostrati a lui (certamente a Ravenna) e che egli, volendo sceglierne uno, giacché non più di uno sarebbe stato inciso sulla tomba, e avendoli tutti esaminati, «per arte e per intendimento più degni» giudicò i versi di Giovanni del Virgilio (vissuto a cavallo tra il XIII e il XIV secolo) che comincia «Theologus Dantis, nullius dogmatis expers». L'episodio s'inquadra nelle consuetudini del tempo, testimoniate da più epitaffi coevi per una sola persona conservati insieme nei manoscritti, e in qualche caso persino incisi sulla stessa pietra, e pertanto è credibilissimo. I 7 distici di cui si compone l'epitaffio di Giovanni del Virgilio, il cui incipit è riportato sotto il ritratto di Montefalco, si leggono tutt'ora sull'arca di Dante, ma non nella forma primitiva, certo in maiuscole gotiche, nella quale lo lessero gli antichi visitatori della tomba, giacché fu reinciso, probabilmente sulla medesima arca, quando Bernardo Bembo nel 1483 rivestì la tomba di forme rinascimentali 

Fonti:
Per il Trattatello si vedano i capp. XVI e XVII dell'edizione online alla pagina di it.wikisource.org; le note sull'epitaffio sono prese dalla voce "Epitafi" redatta da Augusto Campana per l'Enciclopedia dantesca, online alla pagina di www.treccani.it.

domenica 11 ottobre 2020

«Abbracciare Dante .Annotazioni in margine al Canto II del 'Purgatorio'». Intervento del Cardinale José Cardinale Tolentino de Mendonça a Ravenna in occasione del "Dantis poetae transitus" del 13 settembre 2020


È con grata emozione, e al tempo stesso, ve lo confesso, con un sottile sentimento d’inadeguatezza, che ho accettato l’invito a venire qui a Ravenna, a commemorare con voi la ricorrenza del settimo centenario della morte di Dante Alighieri, il «signore dell’altissimo canto», come lo chiamò, con formula di indimenticabile eleganza, il Santo Papa Paolo VI, nella Lettera Apostolica scritta in occasione del settimo centenario della nascita del poeta, nel 1965, e pubblicata il giorno prima della chiusura del Concilio Vaticano II.(1)

Come ogni non italiano, mi soffermo sempre di nuovo con ammirata meraviglia davanti a questo monumento della cultura italiana e, come ogni lettore, mi ritrovo piccolo e fragile davanti a tanta altezza, ma mai estraneo e indifferente, perché il miracolo della poesia dantesca è precisamente quello di far sentire a casa chiunque le vada incontro con animo aperto e recettivo, di portare ognuno di noi a riconoscersi nella umanità ferita e redenta che essa raffigura, con una verità e una profondità che ha pochi raffronti nella letteratura mondiale.

Per questo, malgrado l’esitazione iniziale, ho accettato con entusiasmo di venire a celebrare Dante insieme a voi, per testimoniare che anch’io, pur provenendo da una lingua e da una tradizione letteraria non italiane, non posso fare a meno di dire, come un numero sterminato di lettori che mi hanno preceduto, come il Santo Papa Paolo VI, che sì, «Dante è nostro», sì, Dante è anche mio. «Massimo poeta del popolo italiano» e massimo poeta cattolico, Dante ottiene il raro trionfo di essere massimo poeta dell’umanità tutta, poeta di cui tutti possono dire «nostro», perché dà voce con pari forza e autenticità al più fragile, al più concreto e al più sublime di questa interminabile domanda che l’essere umano è.(2)


Il poeta reinventa lo sguardo

Chi vi parla, è un sacerdote innamorato di Dio e dell’arte, che sin dall’infanzia si è alimentato umilmente e discretamente di fede e poesia, trovando in esse una ragione profonda di vita. Per questo so che, ravvisando nel mistero del mondo e dell’uomo il mistero di Dio, l’esperienza poetica non ha propriamente la pretesa di decifrarlo ma semplicemente di goderlo e comunicarlo, in un’esperienza di gioia e sofferenza, di appagamento e di sete, inestricabilmente connessi, che sin da ora, sin da qui, sono la testimonianza di una sete e di una gioia più grandi. Infatti, nella poesia non si devono cercare risposte, ma semplicemente una forma di contemplazione del mondo alla luce dello sguardo di Dio, che si dischiude nel nostro se solo abbiamo la pazienza e l’umiltà di attenderne la rivelazione, sorgiva e rigenerante, aperta dall’auto spoliazione da luoghi comuni, precomprensioni usurate, solipsismi narcisistici e strumentali. Il poeta reinventa la lingua perché reinventa lo sguardo, dandogli la profondità insondabile del senso, che è dono di Dio all’uomo, evento di bellezza, giustizia e verità.

Questa passione poetica della parola come specchio profetico del mistero dell’uomo e della storia contemplati nella luce dell’eternità, io la trovo in Dante mirabilmente, inestinguibilmente accesa e voglio condividerne insieme a voi un attimo di questo fulgore essenziale, che, mi sembra, evoca e rende discernibile in modo singolarmente pertinente sia la congiuntura storica che stiamo attraversando che un aspetto specifico di questo nostro incontro.


Come viaggiatori privi di mappa

Le pagine che intendo leggere con voi, che troviamo nel secondo canto della seconda cantica, ci collocano in una fase di transizione, nel passaggio perplesso e guardingo tra un ciclo appena concluso (la traversata infernale del male privo di redenzione) e l’inizio di uno nuovo (la purgatoriale ricostruzione del bene attraverso l’espiazione purificatrice). Dante e Virgilio, appena risaliti dalla voragine infernale, si aggirano nella riva dell’isola del Purgatorio per trovare l’ingresso della montagna penitenziale. La novità della situazione, la mancanza di direzioni tracciate, li sconcerta, li ritarda, li confonde. L’Antipurgatorio, spazio di somma indefinizione e spaesamento, cattura chi lo attraversa in uno stato di inerzia, di impasse:

“Noi eravam lunghesso mare ancora, 
come gente che pensa a suo cammino, 
che va col cuore e col corpo dimora.” (10-12) (3)

Come accade a tutti coloro che non sanno che strada prendere, il cuore dice ai due viandanti che devono avanzare, ma l’incertezza sul da farsi li frena: restano bloccati. Ben presto, scoprono di non essere soli in questo stato di indecisione. Traghettato da un angelo enigmatico e silenzioso, sbarca infatti sulla riva un gruppo di anime né beate né penitenti, anch’esse in cerca dell’accesso al percorso di purificazione e non meno disorientate dei due poeti:

[L]a turba che rimase lì, selvaggia 
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.” (Purg., II, 52-54)

Questa turba, agitata dalla novità di quello che sta sperimentando (è selvaggia del loco, assaggia cose nuove), si comporta come ogni viaggiatore privo di mappa, che chiede informazioni al primo sconosciuto in cui si imbatte, per ricevere la risposta così paradossalmente ricorrente quando si cercano indicazioni stradali: “non sono del posto, sono di passaggio anch’io”. Quando ci sentiamo persi, è difficile trovare chi ci possa guidare: 

[Q]uando la nova gente alzò la fronte 
ver’ noi, dicendo a noi: «Se voi sapete, 
mostratene la via di gire al monte».

E Virgilio rispuose: «Voi credete 
forse che siamo esperti d’esto loco; 
ma noi siam peregrin come voi siete.” (58-63)

Come tutta la geografia della Commedia, l’Antipurgatorio non raffigura un luogo ma uno stato, nello specifico la condizione di essere nuovi venuti, di trovarci in una situazione che ci coglie completamente impreparati, in cui le nostre coordinate usuali risultano insufficienti e fallibili, spazzate via da una crisi acuta, che abbiamo appena superato, ma incombe ancora su di noi (tutte le anime dell’Antipurgatorio sono marcate pesantemente, a vario titolo, dalle circostanze della propria morte):

Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, 
per altra via, che fu sì aspra e forte, 
che lo salire omai ne parrà gioco».” (64-66)


Il coraggio d’affrontare il purgatorio che ci mette in questione

Nel leggere questi versi, potente e irresistibile prende corpo, agli occhi di noi lettori, il parallelo tra la scena descritta da Dante e il momento storico che stiamo vivendo. Anche noi, in questo singolare settembre 2020, ormai oltre il giro di boa di un anno eccezionalmente doloroso e denso di domande ancora senza risposta (appena usciti da una via aspra e forte che ci ha profondamente provati come individui e come comunità), ci troviamo in una sorta di Antipurgatorio; anche noi assaggiamo cose nuove, come la turba selvaggia di anime incrociatasi con Dante e Virgilio, e nessuno se la sente di dirsi “esperto del loco” in cui la pandemia ci ha scaraventato in un batter d’ali (sì ratto, / che ‘l muover suo nessun volar pareggia, 17-18), cogliendoci del tutto alla sprovvista, aprendo scenari inediti, squassando certezze, consuetudini che sembravano incrollabili per quanto erano ovvie, la pigra routine della normalità. Ci guardiamo intorno, spaesati e perplessi, e non riconosciamo l’estate in questa stagione strana che sta per finire, segnata dal distanziamento sociale sulle spiagge, mascherine, e città d’arte deserte. Non sappiamo che autunno ci aspetta, se di isolamento o di presenza ritrovata, se torneremo a lavorare in mezzo agli altri o dovremo di nuovo restare confinati in casa, affacciati sul mondo dagli innumerevoli schermi (di computer, tablet, televisione, telefono) che oggi virtualizzano l’interazione con l’esterno in un rapporto audiovisivo senza contatto, senza possibilità dell’abbraccio, spoglio di tocco, sapore e profumo. Ci sentiamo bloccati, in questa terra incognita che pure vogliamo attraversare il più rapidamente possibile, guardandoci attorno senza sapere esattamente che strada prendere per uscirne. Nessuna persona sensata si azzarda ancora a disegnare mappe e battezzare percorsi, nessuno si azzarda a fare anticipazioni su quello che ci riservano i mesi a venire. Gli esperti si scoprono inesperti in questa fase forzosamente transitoria (perlomeno così si spera), in cui siamo tutti peregrini, appena arrivati e desiderosi di venir via quanto prima, se solo si sapesse come…

Una cosa sola, però, è certa nell’incertezza totale del momento: la crisi del coronavirus, che fu sì aspra e forte, ci ha trasportato in un mondo sconosciuto, niente sarà più come prima, e la novità è tanto grande che esitiamo, preoccupati per quello che ci aspetta, sapendo che sarà comunque una strada di faticosa reinvenzione, di ridefinizione purificatrice. Se vogliamo un futuro per la nostra società, dobbiamo affrontare il purgatorio della messa in questione di errori, eccessi ed omissioni. In quel momento straordinario di preghiera che Papa Francesco ha celebrato da solo sul Sagrato della Basilica di San Pietro, in marzo scorso, ci ha ricordato: «è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine… Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai Tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato».(4) Dobbiamo ora accettare il doloroso esercizio delle «correzioni», come ha coraggiosamente proposto, recentemente, un autore americano.(5)

Ovviamente, resistiamo. Ci attardiamo, rinviando, più o meno coscientemente, il momento di prendere congedo dal mondo che ci lasciamo alle spalle per addentrarci in quello che segue. Come gente che pensa a suo cammino, / che va col cuore e col corpo dimora, ragioniamo all’infinito sul da farsi, ma tergiversiamo, aggrappandoci al dejà vu. Il pensiero della purificazione purgatoriale è intimidatorio, ed è stato estirpato dalla nostra autocoscienza di moderni, illusoriamente sostituito per forme secolarizzate di auto perfezionamento, che finiscono per rinforzare il narcisismo e la solitudine. Il Purgatorio, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, ci ricorda che siamo «imperfettamente purificati» e che dobbiamo sottoporci «ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo».(6) Anche nel piano storico dobbiamo intraprendere il difficile cammino purgatoriale della correzione del nostro modo di vivere, delle nostre abitudini, dell’inerzia in cui ci siamo adagiati troppo a lungo, lasciando che la terra corresse incontro al collasso ecologico, le differenze economiche si approfondissero in modo iniquo, il tessuto comunitario si degradasse nella sterile cecità dell’individualismo.


Un impegno comune, una sintonia corale

Ne saremo capaci? Questa domanda pesa su di noi come una grande sfida, segnata dalla consapevolezza che quello che abbiamo davanti è un cammino che non si percorre da soli. Richiede un impegno comune, una sintonia corale:

                    “‘Isräel de Aegypto’
cantavan tutti insieme ad una voce” (46-48)

Solo cantando ad una sola voce si esce dall’Egitto del male per ritrovare la libertà di una convivenza di giustizia e di pace, per raggiungere la terra promessa di una società in cui la dignità di ognuno fiorisce nella messa in comune di risorse e opportunità, in cui la solidarietà ha la meglio sulla competizione, l’attenzione reciproca sull’indifferenza, il rispetto e la fiducia sulla violenza e la diffidenza. Sono cose semplici, che appartengono intrinsecamente alla nostra umanità, ma le dobbiamo costantemente reimparare, disintossicandoci dalla piaga del consumismo selvaggio, dalla burocratizzazione e commercializzazione crescenti dei rapporti sociali e personali, dalla solitudine e l’estraneazione in cui ci fa precipitare una società desertificata dal punto di vista comunitario.

Molteplici sono i luoghi in cui andare a scuola di umanità, i contesti di questo riapprendimento purgatoriale, correzionale, di quello che siamo più autenticamente, ma nel quadro specifico di questo canto dantesco siamo invitati a soffermarci in uno in particolare, che coincide precisamente con l’intento profondo del nostro ritrovarci qui, intorno a un autore antico, morto da settecento anni, ma che noi non possiamo fare a meno di considerare interlocutore potente e autorevole, voce interamente viva e attuale al di là della distanza storica che ci separa. I classici sono coloro che non riusciamo a considerare morti, con cui cerchiamo incessantemente il dialogo, interrogandoli prima che su di loro su noi stessi e sul nostro cammino, e soprattutto lasciandoci interrogare da loro, in una conversazione in cui la differenza tra morte e vita non viene relativizzata, ma al contrario esposta nella profondità tragica e misteriosa che ce la rende tanto urgente quanto inaccettabile. Il dialogo ermeneutico con i testi, con la poesia, con le testimonianze di umanità lasciateci da chi ci ha preceduto sono un luogo fondamentale di riapprendimento correzionale di noi stessi, “viaggio” imprescindibile verso la chiarezza ritrovata della verità.


La lettura come luogo purgatoriale di riapprendimento di noi stessi

Il meraviglioso incontro tra i due poeti e la turba selvaggia, ancora inesperta di aldilà, dei morti prepurgatoriali, alle falde del monte della purificazione, ci colloca infatti nel cuore dell’esperienza della lettura come forma privilegiata di rapporto con il passato. Anche noi siamo ‘nuovi venuti’ quando ci sediamo di fronte a un testo che ci raggiunge da lontano, quando lo apriamo per conversare con lui, lo ‘ascoltiamo’ e ci facciamo ascoltare, sollecitando la sua reazione alla nostra presenza. Il testo non è inerte, indifferente alla nostra interlocuzione: la sua voce cambia al cambiare del lettore, come ha insegnato Gadamer una volta per tutte. Il testo si ‘accorge’ di chi lo legge, entrando in rapporto di attenzione e reazione con lui:

L’anime, che si fuor di me accorte, 
per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo, 
maravigliando diventaro smorte."

Il vero lettore conosce bene quest’esperienza, in cui si trova a dover rendere conto al testo, in cui si sente interrogato, scoprendo che anche i morti possono chiedere informazioni ai vivi, che il passato non è una condizione di definitività e compimento, ma una condizione di non soluzione, incompletezza e ignoranza, sempre di nuovo condivisa e incessantemente riaperta. I morti aspettano da noi la giustizia della verità, questo lungo percorso in cui tutta l’umanità si trova a camminare ‘contemporaneamente’, perché ognuno di noi vi è coinvolto per intero, nessuno di noi ne dispone esclusivamente, esaustivamente:

E come a messagger che porta ulivo 
tragge la gente per udir novelle, 
e di calcar nessun si mostra schivo,

così al viso mio s’affisar quelle 
anime fortunate tutte quante, 
quasi oblïando d’ire a farsi belle.”

Il testo si dirige al lettore che l’ha raggiunto, aspettando che il suo senso si compia e si rinnovi alla luce della novità (le novelle) che egli porta dal proprio tempo, messaggero ermeneutico che dischiude un nuovo processo di comprensione e di illuminazione della verità. Ogni lettore, ogni generazione, incontra così una nuova Divina Commedia, testo che si trasforma nel contemplare chi lo legge, traducendosi in visione del volto, dell’anima che si china su di lui.

Nel leggere la Divina Commedia, ne siamo e ce ne sentiamo contemplati (al viso mio s’affisar quelle), interpellati (la nova gente alzò la fronte ver’ noi, dicendo a noi), interrogati («Se voi sapete, mostratene la via di gire al monte»), riconosciuti, perché il classico ci conosce meglio di quanto noi conosciamo lui e ci anticipa nell’identificazione del punto di contatto in cui si consuma la condivisione della nostra umanità, in cui l’incontro si scioglie in abbraccio:

Io vidi una di lor trarresi avante 
per abbracciarmi con sì grande affetto, 
che mosse me a far lo somigliante.(76-78)


Abbracciare Dante

L’autore ama il lettore, della cui umanità è andato alla scoperta, e il lettore, a sua volta, nel sentirsi così amato in quanto essere umano, in quanto destinatario della proposta di senso formulata dal testo, che si offre gratuitamente alla comprensione, all’unico costo dell’impegno d’ascolto e attenzione, non può che corrispondere a questo gesto di carità ermeneutica, ricambiando l’abbraccio, accogliendo il patto di mutuo riconoscimento e solidarietà intrinseco alla condivisione del senso, come spazio di apprendimento di umanità e verità, celebrando la promessa d’immortalità custodita in questo affetto. Quella che è in gioco, in questo mutuo abbraccio, non è infatti l’immortalità della fama, della memoria postuma, di cui i morti non si fanno un bel nulla, ma la promessa d’immortalità personale affidata alla radicale incompatibilità con la morte testimoniata dall’amore:

Rispuosemi: «Così com’ io t’amai 
nel mortal corpo, così t’amo sciolta” (88-89)

Uno sconosciuto, uscito dalla turba delle anime per abbracciare Dante e rivelarsi come l’amico Casella, il musicista, dirige al poeta una dichiarazione d’affetto tanto semplice quanto straordinaria nel suo rovesciamento della condizione abituale del lutto, in cui è il vivo che dichiara al morto d’amarlo, promettendogli memoria imperitura: qui il morto accoglie il vivo nella raggiunta eternità (sciolto dal corpo mortal), cancellando la distanza intrinseca al ricordo (che postula una differenza insormontabile) nel presente immutabile del vero amore. Il così comparativo ripetuto due volte declina l’iterazione del passato (t’amai) in un presente (t’amo) che circoscrive con limpida precisione il nucleo dell’eternità personale nella capacità d’amore da parte del soggetto e apre una finestra di luce vertiginosa nel muro oscuro del ‘dopo’. Chi di noi non ha messo virtualmente sulla bocca dei propri cari defunti questa dichiarazione di Casella, non accontentandosi di continuare ad amarli, ma desiderando intensamente di continuare ad esserne amati, avendone disperatamente bisogno? È doloroso continuare ad amare chi è morto. È entusiasmante e consolante pensare che egli continua ad amarci e che un giorno potremo sentircelo dire direttamente da lui, e questa consolazione è argomento potente per non pensare al ‘dopo’ come una legge d’abisso (Purg. I, 46), l’inferno di una fine inesorabile e totale, ma come un ritrovarsi di inestinguibile affetto, di rinnovata familiarità.

Certo, è inevitabile paventare, ansiosamente, che questo pensiero sia mera illusione:

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto! 
tre volte dietro a lei le mani avvinsi, 
e tante mi tornai con esse al petto.” (79-81)

Qual è la frontiera tra l’autoinganno emotivo e l’intuizione spirituale che sgorga dall’amore come verità potente che spezza le ombre vane dell’apparenza? Che credito dare all’abbraccio con cui ci sentiamo accolti dall’antico autore, che ci viene incontro per aiutarci a ritrovare noi stessi (a tornare dove siamo) nella condivisione della verità e della bellezza che l’hanno illuminato poeticamente e che ci dichiara che questo momento di condivisione è per sempre, che è genuina intimazione di immortalità,(7) che riunisce vivi e morti in un’unica assorta attenzione? L’evidenza di verità del proprio senso che il testo assicura è unicamente l’autenticità dell’esperienza associata alla sua fruizione, un’evidenza tutta interna al processo ermeneutico dell’incontro tra opera e lettore, ma capace di fecondare l’esistenza di chi ne è stato partecipe, irrigandola di una visione e di una pace che consolano, rafforzano, rinnovano, aiutando a ripartire:

E io: «Se nuova legge non ti toglie 
memoria o uso a l’amoroso canto 
che mi solea quetar tutte mie doglie,

di ciò ti piaccia consolare alquanto 
l’anima mia, che, con la sua persona 
venendo qui, è affannata tanto!».

`Amor che ne la mente mi ragiona’ 
cominciò elli allor sì dolcemente, 
che la dolcezza ancor dentro mi suona.

Lo mio maestro e io e quella gente 
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.” (112-117)


Non perdere la speranza dell’altezza

Casella intona il suo canto e si consuma l’incantesimo sempre nuovo dell’arte: i viaggiatori disorientati e in affanno dell’Antipurgatorio si fermano, dimentichi della destinazione da trovare, dimentichi del viaggio penitenziale che li attende, del prima e del poi, assorbiti in un istante di perfetta concentrazione.(8) È l’esperienza di presente assoluto donata dall’arte, donata dal senso, in cui vivi e morti, maestri e discepoli, autori e lettori, creatori e fruitori (Lo mio maestro e io e quella gente / ch’eran con lui) si trovano uniti in una esperienza di gioia e verità talmente piena che sembra non poter contenere nient’altro (parevan sì contenti, / come a nessun toccasse altro la mente).

Tutti si fermano al canto di Casella, e anche noi ci fermiamo, turba selvaggia e sperduta che assaggia cose nuove e non sa che cammino seguire nella condizione di incertezza e spaesamento storico in cui la crisi del Coronavirus ci ha precipitato, in questa terra incognita antipurgatoriale, fase preliminare al cammino correzionale necessario alla ricostruzione della nostra convivenza civile e della nostra esistenza personale, alla guarigione dalle ferite economiche, sociali e individuali arrecate dalla pandemia. Anche noi ci fermiamo ad ascoltare la dolcezza dell’antica canzone che risuona attraverso i secoli con immutata bellezza e appassionata umanità, bisognosi di consolare l’anima tanto affannata dal duro viaggio che ci ha portato sin qui. Non mancherà chi considererà questo indugiare un lusso frivolo, una negligenza, un censurabile sottrarsi all’urgenza tragica delle responsabilità storiche immediate. Non mancherà un veglio onesto ed accigliato che verrà a rimproverarci di essere spiriti lenti, che perdono tempo con le cose del passato, con l’oblio indotto dalla contemplazione della bellezza, invece di correre speditamente al monte del fare.(9) Ma io sono convinto che solo chi è capace di fermarsi ad ascoltare la voce che aduna i vivi e morti nell’unisono spirituale della pura contemplazione della propria umanità troverà la via del monte, la strada della correzione e della purificazione che ci restituisce alla verità di quello che siamo, alla pace e alla giustizia sociali che scaturiscono dal mutuo riconoscimento della nostra comune dignità.

Certamente non è a Dante che dobbiamo chiedere istruzioni sul cammino da prendere in questo doloroso, ancora irrisolto e insidioso, arduamente penitenziale 2020, ma raccoglierci intorno a lui, per ascoltare il suo «poema di perdono e di salvezza»(10), ci aiuta a riconoscere il senso del viaggio e a non perdere la speranza dell’altezza (Inf. I,54), verso la promessa del bene, della verità e della bellezza.

Note

(1) Paolo VI, Litterae Apostolicae Motu proprio datae "Altissimi cantus" septimo exeunte saeculo a Dantis Aligherii ortu , in Acta Apostolicae Sedis. Commentarium officiale, anno e vol. LVIII, 1966, Città del Vaticano, 22-37.
(2) Nelle “sue misure più profonde di degradazione” e nei “massimi culmini della sublimazione”, come osservato da uno dei suoi più grandi commentatori, il poeta americano Thomas S.Eliot (Thomas. S.Eliot, Dante. A cura di L. Berti. Guanda, Modena, 1942, 67).
(3) Le citazioni dalla Divina Commedia sono tratte da La Commedia secondo l’antica vulgata di Dante Alighieri, a cura di Giorgio Petrocchi, A. Mondadori Editore, Milano, 1966-67.
(5) Jonathan Franzen, The Corrections (2001).
(6) Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2018, n.1030.
(7) William Wordsworth, “Ode: Intimations of Immortality” (1804).
(8) Michael Fried, Absorption and Theatricality: Painting and Beholder in the Age of Diderot, The University of Chicago Press, Chicago and London, 1980.
(9) “[Ed ] ecco il veglio onesto / gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? / qual negligenza, quale stare è questo? / Correte al monte a spogliarvi lo scoglio / ch’esser non lascia a voi Dio manifesto»”. (119-123)
(10) Carlo Ossola, Introduzione alla Divina Commedia, Marsilio, Venezia, 2012, 24.